Atheist

Unquestionable Presence

1991 (Death)
technical death metal, progressive death metal

Poco più di mezz’ora. Tanto basta agli Atheist per prendere nel 1991 il nascente death metal — al tempo fra le frontiere più brutali e incompromissorie della galassia rock — e mostrarne le insospettabili potenzialità in termini di eclettismo e raffinatezza tecnica.
“Unquestionable Presence” è il secondo Lp del quartetto della Florida. Allora, la band era composta da poco più che ventenni e proponeva con quel disco un inedito sposalizio di riff thrash, cantato in growl e fulminanti voltafaccia fusion. Oggi, l’album è visto come una pietra d’angolo dei filoni technical death metal e progressive death metal, e citato come tappa chiave dello sviluppo e della progressivizzazione del metal estremo. Ma le ragioni per ascoltarlo e riascoltarlo (anche più volte di seguito, vista la breve lunghezza) trascendono largamente le questioni storiche. Nonostante trent’anni e rotti di ulteriori evoluzioni, la sintesi di “Unquestionable Presence” resta capace di condurre in un universo proprio, dove caos e ordine si compenetrano e l’efferatezza si presenta come seconda faccia della trascendenza.

Aperto da un tritono ascendente — l’"intervallo del diavolo", emblema di simmetria e dissonanza, “Mother Man” è il primo brano del disco. Immediatamente si è proiettati nel maelstrom di fraseggi che è il fulcro dell’intero album. Drumming furibondo, riff che rimbalzano fra il basso e le due chitarre, e soprattutto una ridda di cambi di tempo e stop’n’go. Solo nei primi trenta secondi, la segnatura metrica salta dodici volte avanti e indietro fra 5/4, 3/4, 11/8, 10/8 e infine 4/4. Su una scarica thrash di note in palm mute fa ingresso la voce del cantante e chitarrista Kelly Shaefer, un rantolo rabbioso che non ha gli echi cavernosi di molti altri futuri vocalist death, ma ricorda piuttosto (osando un paragone azzardato) il timbro graffiante di Brian Johnson. Ogni elemento pare in posizione, il brano giunge al suo fiammeggiante assolo e si avvia verso un’ulteriore centrifuga di riff e mutamenti ritmici… Quand’ecco, di punto in bianco, un completo rischiararsi delle atmosfere: i timbri si fanno puliti, la batteria scopre una smoothness mai accennata nei precedenti tre minuti, e si è catapultati nel bel mezzo di un compito pezzo fusion. Senza però il tempo di acclimatarsi, perché rapidamente i toni si riaccendono, il palm mute riprende piede, e la rifferama thrash torna a a prendere il sopravvento (chiudendo, però, su un nuovo stacco jazzy accompagnato da cinguettii!).
Quattro minuti e mezzo suppergiù, che però valgono per molti di più, visto l’ottovolante di stili e panorami che vi sono racchiusi. Ma lo spettro delle possibilità dell’Atheist sound non è ancora pienamente dispiegato.

“Unquestionable Presence”, la seconda traccia, prende le mosse da un’intro enigmatica, un mezzo arpeggio che alterna note basse e alte sovrastate da una linea solistica minimale, e solo gradualmente svela la propria tonalità di Fa diesis minore — soppiantandola, non appena chiarita, da un’altra ancor meno definita, poggiata sul Si bemolle. Il passaggio al corpo del brano non elimina gli aspetti disorientanti: il riff, che bascula fra 7/8 e 10/8, è costruito su un frammento di scala diminuita, inconsueta e istintivamente percepita come instabile, ed è immediatamente seguito da due andamenti opposti — la chitarra del chitarrista solista Rand Burkey sale per power chords attraverso i gradini di una pentatonica, mentre quella di Kelly Shaefer percorre simultaneamente, in ordine inverso, pressoché gli stessi passi. Non ci avventuriamo oltre nell’analisi tecnica, ma proseguendo si trarrebbero solo ulteriori conferme: l’intero brano — anzi, l’intero disco che dal pezzo prende il nome — è strutturato per massimizzare il carattere criptico delle composizioni e delle atmosfere che ne derivano. Battuta dopo battuta, mutamento dopo mutamento, non si può sapere cosa attendersi dall’imminente futuro, e anche riguardo a ciò che è presente la sensazione più forte è l’ambiguità. Come se più possibili chiavi di lettura coesistessero e rendessero impossibile una chiara decifrazione dei paesaggi evocati dal suono.

“Your Life’s Retribution” mostra ancora un’altra declinazione del sound della band: fra tapping frenetico e una sezione centrale marcata dalla riconoscibilissima cadenza andalusa (iv-III-II-I, la stessa progressione di “Hit The Road Jack”, della strofa di “Sultans Of Swing” o dell’assolo flamenco di Steve Howe in “Innuendo”), in questo caso è l’elemento neoclassico a combinarsi con l’attitudine funambolica mostrata anche negli altri brani. Anche la successiva “Enthralled In Essence” presenta simili accenti classicheggianti, evidenti soprattutto nella linea discendente dello stacco centrale e nell’assolo immediatamente successivo. Un altro elemento comune ai due pezzi, e a dire il vero anche a numerosi altri del disco, è il tema filosofico/esistenziale dei testi. Con toni facilmente additabili come vacui e magniloquenti, ma efficaci nel mood del pezzo, “Your Life’s Retribution” afferma che l’unico possibile apprendimento nasca dall’introspezione sui propri errori (“Tarnished are the thoughts/ That have been told/ Wise men give me nothing real to hold/ The writings of the past/ Are paper thin/ If I seek the truth/ I'll look within”). Senza allontanarsi troppo nello stile lirico, “Enthralled In Essence” prende un piglio quasi gnostico, riproponendo l’immagine millenaria del corpo come gabbia della mente o dell’anima (“As keeper of this body/ Just leave me with my mind/ And I assure you/ I will be just fine […] The qualities of a finer being/ Locked well within this shell/ Crying out to be released”). La relazione ambivalente della band con il trascendente è sottolineata, oltre che dai testi e dal nome scelto, anche dalla copertina, realizzata dall’illustratore Justice Mitchell sulla base di una singola indicazione da parte del gruppo: la volontà che questa mostrasse una ragazza in preghiera su un’altura, con dei pianeti sullo sfondo. Un’iconografia dagli echi panteisti, che propone riferimenti alternativi rispetto al satanismo, talvolta posticcio, di altre formazioni significative nell’ambito del metal estremo.

Già dall’arpeggio iniziale, giocato sulle corde vuote e sul moto dei bassi, “An Incarnation’s Dream” mostra l’influenza dei Metallica sullo stile della band. Fra gli altri artisti chiave per lo sviluppo del sound Atheist, il gruppo cita anche gli inevitabili Judas Priest e Van Halen, gli svizzeri Celtic Frost e i danesi Mercyful Fate (fra i primi a spingere nella direzione del black metal), oltre che i padrini del death Possessed. Stando a Kelly Shaefer, i principali modelli vocali vanno individuati in due leggende del thrash tedesco: Schmier dei Destruction e Mille Petrozza dei Kreator. Ma lo spettro delle ispirazioni non si limita al regno hard&heavy. Yes, King Crimson, Frank Zappa e soprattutto Rush sono nomi che ricorrono nelle interviste, e l’impronta camaleontica del drumming di Neil Peart è facilmente percepibile nei frequenti giochi di ride che puntinano le parti del batterista Steve Flynn, in “An Incarnation’s Dream” come altrove (a spingere il musicista a dedicarsi allo strumento sarebbe stato proprio l’ascolto di “La Villa Strangiato” da “Hemispheres”, durante l’adolescenza).
L’altro riferimento chiave riguarda il filone jazz fusion. L’influsso si esercita soprattutto in campo ritmico e melodico: i batteristi Dave Weckl, Vinnie Colaiuta e Steve Gadd sono un faro per Flynn, mentre a livello chitarristico sono soprattutto gli strabordanti fraseggi jazz-rock di John McLaughlin e (su tutti) Allan Holdsworth ad affascinare la coppia Burkey/Shaefer. Sebbene molti commentatori riscontrino una forte presenza di “accordi jazz” nelle partiture dell’album, questa presunta matrice armonica è più difficile da riscontrare nei pezzi del disco: le chitarre eseguono perlopiù note singole, o al limite power chord che — in quanto formati da due sole note — risultano assai lontani dai ricchi accordi estesi che caratterizzano gli stili jazz.

Le cose cambiano un poco (ma a dire il vero non molto) se le linee strumentali vengono considerate nel loro complesso, sommando le note delle due chitarre e del basso dell’ex-Cynic Tony Choy. In questo caso, emergono armonizzazioni più ricche, che però restano in genere nell’ambito delle quarte o seconde sospese, frequenti in ambito rock anche senza scomodare pigmalioni jazz. È invece vistosissimo, sia in “An Incarnation’s Dream” che nella successiva “The Formative Years”, l’influsso fusion sul ruolo del basso, che sfodera un suono metallico ma particolarmente plastico e spesso balza in primo piano, conducendo la linea melodica del brano e facendo al tempo stesso da motore ritmico. Sarebbe forte la tentazione di ricondurre questa impostazione alla provenienza di Choy, ma la mutazione ultrajazzistica del sound dei Cynic è successiva alla sua sostituzione con Sean Malone, nel 1993. Le parti di basso di “Unquestionable Presence”, d’altra parte, non sono firmate da Choy ma da Rogger Patterson, precedente bassista della band, morto a febbraio 1991 in un incidente stradale mentre era a bordo del furgone del gruppo (le versioni demo incise con Patterson sono disponibili nella riedizione del disco per Relapse, datata 2005). Autore del logotipo della band e grande fan di Geddy Lee, Les Claypool, Gene Simmons, Chris Squire e Steve Harris, Patterson fu sepolto — o almeno così racconta Kelly Shaefer — con una foto del suo bassista preferito, Doug Keyser dei Watchtower (altra chiara influenza sull’approccio stop’n’go onnipresente nel disco).

L’inquadramento del disco non può prescindere da altri due nomi chiave. Il primo è quello dei Death di Chuck Schuldiner, figura centrale per l’evoluzione del death metal in senso tecnico e progressivo; il secondo è Scott Burns, produttore tanto dei Death e dei Cynic quanto degli Atheist e di tutta una serie di band estreme: Cannibal Corpse, Deicide, Gorguts, Atrocity… I due possono essere considerati i principali catalizzatori della cruciale scena death della Florida, ed è difficile immaginare un flusso tortuoso come quello di “Brains” senza l’intricatezza e l’ambizione di una “Spiritual Healing” (composta da Schuldiner, prodotta da Burns) a precederlo giusto un anno prima. Se i rapporti col produttore e ingegnere del suono furono sempre costruttivi, tuttavia, lo stesso non si può dire di quelli con il leader dei Death. Inizialmente convinto sostenitore di una linea anti-progressiva per il death metal, Schuldiner vedeva le aperture jazz degli Atheist come il fumo negli occhi e giunse a contrastare la band anche in campo ideologico, accusandola di simpatie naziste (una maglietta indossata da Patterson, recante soltanto le due “S” saettanti del logotipo dei Kiss, certamente contribuì ad alimentare la diceria). Anche se forse Schuldiner non si ricredette mai sugli Atheist, certamente nel tempo la sua prospettiva sul futuro del genere mutò: già nel 1991, “Human” presenta in formazione i due Cynic Paul Masvidal e Sean Reinert, che orientano sensibilmente il suono del disco verso alcune delle raffinatezze progressive che esploderanno nel 1993 nel tentacolare “Focus”.

“And The Psychic Saw”, posta in chiusura, è uno dei brani più articolati del disco e chiarisce ulteriormente il ruolo di questo nelle scene metal a venire. Il basso prominente e mutaforma è un trait d’union con il sound degli olandesi Pestilence, che vollero Tony Choy nel loro “Testimony Of The Ancients”, registrato nella prima metà del 1991 negli stessi studi Morrisound degli Atheist, e svoltarono in direzione jazz/death col successivo “Spheres”. L’influenza diretta degli Atheist è percepibile anche in altre formazioni europee dell’epoca, fra cui i finlandesi Demilich o gli italiani Sadist (“Above The Light”, “Tribe”). Ma è soprattutto rispetto alle altre band della scena death legata alla Florida (a cui col tempo si sarebbero avvicinate anche formazioni provenienti dal resto degli Stati Uniti, come Malevolent Creation e Cannibal Corpse) che “Unquestionable Presence” segna una punto di non ritorno: dopo la sua uscita, l’ibridazione jazz/prog/death ben visibile negli stacchi latin-funk di “And The Psychic Saw” si farà sempre più spinta, arrivando perfino con le esperienze di Portal, Gordian Knot e Aghora — o degli stessi Atheist del successivo “Elements” — a pendere più verso il versante prog/jazz-fusion che verso quello metallico.

Procedendo con gli anni, gli Atheist saranno ricordati come ispirazione da artisti fuori dagli schemi come i paladini del mathcore Dillinger Escape Plan, gli eclettici groove/sludge/progger Gojira o i nostrani Ephel Duath, oltre che da discepoli del filone ipertecnico come Necrophagist, Obscura e Spiral Architect (questi ultimi assai meno estremi dei precedenti).
Eppure, all’epoca, “Unquestionable Presence” non fu ben accolto dai fan metal. Per molti insider del giro death, l’ibridazione con generi meno brutali era percepita come un tradimento. E per chi restava legato a un sound più classico, la nuova formula degli Atheist restava comunque troppo estrema. Diversi esibizioni, ricorda Kelly Shaefer, furono accompagnate da “booh!” e lancio di cibo marcio. Non servirono troppi anni, tuttavia, per mutare la percezione predominante. Oggi più che mai, trent’anni e passa dopo l’uscita, il traguardo costituito dall’album e lo status di pionieri da questo conferito alla band appare indiscutibile. Anzi: non questionabile.

 

27/08/2023

Tracklist

  1. Mother Man
  2. Unquestionable Presence
  3. Your Life’s Retribution
  4. Enthralled In Essence
  5. An Incarnation’s Dream
  6. The Formative Years
  7. Brains
  8. And The Psychic Saw

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