Nel 1973, Franco Battiato è a un punto di svolta. Dopo due album di rock sperimentale che, grazie alle pubblicità situazioniste del manager Gianni Sassi, lo hanno reso un nome temuto e riverito nel panorama musicale italiano, il ventottenne di Jonia sente il bisogno di sparigliare le carte e conquistare una piena indipendenza creativa.
Liquida l'ingombrante mentore (che si rifarà, di lì a poco, lanciando la carriera degli Area), lascia momentaneamente alle sue spalle Milano dove, giovane in cerca di fortuna, si era trasferito anni prima, e parte. Due le mete: New York, la Sicilia.
Più che in cerca di nuove ispirazioni, Battiato desidera andare a fondo delle intuizioni che lo hanno condotto alla rottura. Proprio la Grande Mela e la sua terra madre sono infatti i riferimenti imprescindibili della visione musicale su cui vuole orientare il suo immediato futuro: un connubio del tutto personale di minimalismo elettronico ed echi tradizionali.
"Sulle corde di Aries" esce per Bla Bla a dicembre 1973. In copertina, campeggia sdoppiato il volto di Franco Battiato che guarda fisso davanti a sé. Si tratta dell'album più riflessivo e lungimirante che abbia dato alle stampe fino ad allora. La struttura del disco è tipica per l'epoca: sulla prima facciata, un'unica, lunga composizione; sulla seconda, tre brani più brevi. Concediamoci una piccola licenza, e partiamo da quest'ultima. A ciò che Battiato trovò nei suoi viaggi torneremo dopo.
Il primo pezzo che incontriamo è la (quasi) title track, "Aries". L'Ariete è il segno zodiacale del musicista, nato il 23 marzo 1945, ed è consuetamente associato alla rinascita: l'intento simbolico è palese.
Se i primissimi, dissonanti attimi possono far pensare a una ripresa dell'estetica avanguardistica e tardo-psichedelica dei precedenti lavori, trascorsi i primi trenta secondi è già chiaro che l'orizzonte è differente. Rumorismi e spigolosità sono funzionali all'emersione di un tema reiterante di sintetizzatore, che a sua volta è apripista verso una schiarita per chitarra, delay, percussioni ed elementi vocali. Un'atmosfera trasognata su cui innestare, lentamente, fraseggi sassofonistici liberi e zigzaganti.
Si tratta di un episodio sostanzialmente strumentale, un "intermezzo" si dovrebbe dire, che tuttavia ben si presta all'introduzione dei numerosi elementi ricorrenti del disco. Strumentazione e organico, innanzitutto: Battiato abbandona l'impianto "rock" degli album precedenti, mantenendo la collaborazione con due soli dei musicisti che l'avevano accompagnato in precedenza, il batterista Gianfranco D'Adda e il chitarrista Gianni Mocchetti. Ai due viene tuttavia chiesto di frequente di abbandonare i loro strumenti di elezione per sposare timbri più vicini al folklore: quello della mandola per Mocchetti e quello della tabla e di altre percussioni per Mocchetti. Resta anche il produttore Pino Massara, che affiancherà l'artista fino alle porte della "svolta pop" de "L'era del cinghiale bianco" (1979). Ai compagni navigati, l'artista affianca numerosi ospiti: quello in vista in "Aries" è il sassofonista Gianni Bedori, stretto collaboratore di Giorgio Gaslini e responsabile, con quelle sue divagazioni finali in "Aries", di uno dei pochissimi episodi esplicitamente jazzistici della carriera di Battiato.
Per sé, Battiato riserva invece l'utilizzo del suo gioiello preferito: il sintetizzatore VCS3, strumento del quale è pioniere fin dai tempi di "Fetus". Prodotto dalla britannica EMS (Electronic Music Studios), è il primo sintetizzatore portatile introdotto sul mercato: una valigia delle meraviglie che debuttò a sole 330 £ nel 1969, quasi un anno prima - e soprattutto a meno di un quarto del prezzo - del celeberrimo Minimoog. Dotato di una grande versatilità, ma di un'interfaccia assai meno intuitiva di quella del concorrente destinato a rivoluzionare la storia del rock, il VCS3 è apprezzatissimo dai musicisti più avvezzi alla sperimentazione per la sua capacità di generare sonorità aliene e magmatiche. Le lunghe ed estenuanti sessioni di "smanettamento" con l'idiosincratico pin pad a cui è affidato il suo controllo modulare diventano a inizio Settanta un'attività ricorrente per artisti come Pink Floyd, Tangerine Dream, King Crimson, Brian Eno, Jean-Michel Jarre... E per Franco Battiato, che a riguardo racconterà: "Ci passavo notti intere, al buio, solo io e il VCS3. Ore e ore a tirare fuori suoni dalla macchina, ore e ore appresso a filtri e oscillatori. Era un viaggio, un'esperienza mistica [...]. Quel coso mi ha salvato la vita" (lo stralcio di intervista è tratto da "Superonda: storia segreta della musica italiana", di Valerio Mattioli, uscito per Arcana nel 2016 - un testo imprescindibile per ogni amante degli anni Settanta italiani, non solo musicali).
"Aria di rivoluzione" è un'altra storia. Primo nel percorso autoriale di Battiato, è un pezzo pop. No, non è vero: già nei Sessanta il musicista aveva tentato il successo con alcune "canzonette", da lui stesso poi prontamente ripudiate. Al di là di ciò, "Aria di rivoluzione" è a stento definibile "canzone": è un sermone effettato combinato a una poesia in tedesco, gorgogliamenti di chitarra ambient e una lunga coda da qualche parte tra free e folk. Però quella del "pezzo pop" non è del tutto una menzogna: effettivamente, il brano ha qualcosa che nessuna delle tracce di "Fetus" e "Pollution" aveva. Ha una melodia iconica senza risultare ridicola: il suo incedere salmodiante, che l'immaginario collettivo assocerà al richiamo alla preghiera dei muezzin, è lontanissimo dai ritornelli simil-hippie che ogni tanto interrompevano gli sperimentalismi nei dischi precedenti, e già mostra in maniera compiuta i tratti che renderanno inconfondibili le strutture delle sue future "canzonette". Ha inoltre un testo efficace ed evocativo: obliquo e improbabile, sì, ma senza risultare gratuitamente provocatorio. Coi suoi riferimenti esotici e l'attenzione ad attimi e atteggiamenti che traducono stati d'animo altrimenti inafferrabili, è anzi un primo esempio di quello "stile Battiato" che farà la fortuna dell'autore a partire dagli anni Ottanta.
Leggerlo come preambolo di ciò che verrà, tuttavia, non toglie che "Aria di rivoluzione" sia prima di tutto un pezzo profondamente emozionante. Il suo clima sospeso, enigmatico, permette ai suoi cinque minuti di volare grazie a un mirabile gioco di opposizioni: l'arrangiamento disteso e la strofa ieratica, il progressivo germogliare delle linee strumentali e la stasi ossessiva degli elementi ritmici congiunti al trasfigurato sfondo chitarristico. I turbinii svolazzanti di violoncello, sax alto e clarinetto, opera dei musicisti Jane Robertson e Daniele Cavallanti, ricordano il sound di esperienze folk sperimentale come Popol Vuh, Third Ear Band e Aktuala (in cui milita lo stesso Cavallanti) e cozzano con l'aura di ineluttabilità che traspare dalle parole scritte e declamate da Battiato. Ispirate ai trascorsi del padre come autotrasportatore nell'Etiopia fascista, le due strofe asciutte che compongono riecheggiano lontane memorie di guerra e resistenza inespressa e sfociano poi, pindaricamente, in un'espressione di schietta disillusione verso il movimentismo giovanile di quegli anni ("Questa mia generazione/ vuole nuovi valori/ e ho già sentito/ aria di rivoluzione/ ho già sentito gridare/ chi andrà alla fucilazione").
Di altro tono ancora il componimento in tedesco "Genossen, wer von uns wäre nicht gegen den Krieg?", del poeta e cantautore marxista Wolf Biermann (1936, -), trasferitosi nel '56 nell'allora Ddr e successivamente diventatone tra i più aspri critici. Desiderando includere nel pezzo una sezione recitata in lingua tedesca, Battiato contatta Jutta Niehaus, cantante degli italo-tedeschi Analogy, che gli propone il lied contenuto nella raccolta "Mit Marx- und Engelszungen. Gedichte, Balladen, Lieder", del 1968:
Compagni, chi di noi non sarebbe contro la guerra?
(Traduzione tratta dal sito "Canzoni contro la guerra")Però, lo splendore delle stelle del mattino di Müntzer
sopra i contadini in rivolta,
quando tingevano la testa dei loro aguzzini con una luce insanguinata.
Però, la melodia del Katiuscia
quando, a Natale, urlava "Pace sulla terra"
nelle orecchie gelate dei soldati di Hitler.
Però, l'eleganza dei missili automatici
nei cieli di Ho-Chi-Minh
quando danno quel bacio straordinario
alle straordinarie prestazioni meccaniche degli ingegneri di Detroit.
Però, la bellezza della mitragliatrice
in spalla al guerrigliero
quando fornisce al facchino boliviano adeguati argomenti
contro i suoi oppressori, che loro infine capiscono.
Però, quel che è meglio: Poliziotti addestrati contro il popolo,
quando stanno per affogare sbattuti nel fiume delle masse infuriate,
e alla fine, alla fine, invece delle loro armi
stringono la mano salvatrice degli inermi
"Oriente e occidente" è, almeno nell'ispirazione, l'episodio più prog del disco. È anche, pare, il primo nucleo tematico del disco a formarsi nella mente di Battiato. Ricostruisce il musicista e battiatofilo Fabio Zuffanti in "Franco Battiato: tutti i dischi e tutte le canzoni, dal 1965 al 2019" (Arcana, 2020): "Un'umanità che vive nel cratere di un vulcano, in particolare la vicenda di uno di questi [abitanti] che vuole abbandonare l'ameno luogo per cercare una nuova vita". Scenario e lessico adottati hanno un che di omerico, ma non è difficile scorgere nel testo una trasposizione mitologica della condizione dell'autore, desideroso di allontanarsi, costi quel che costi, dalle troppe costrizioni della sua precedente fase artistica e dare seguito al verso conclusivo "scelgo una nuova vita".
A differenza degli altri brani del disco, il pezzo è esplicitamente segmentato in porzioni, che si avvicendano con stacchi netti. C'è l'introduzione, a base di chitarra e VCS3, che crea un clima d'attesa cui fanno seguito l'ingresso della voce e il cambio di patch del sintetizzatore. I timbri sfavillanti di quest'ultimo, l'eco sulle frasi e la solennità della declamazione ("Riduci le stelle in polvere/ e non invecchierai/ mi appare in sogno Venere/ ...") conferiscono alla sezione l'aura ritualistica di una profezia, enunciata di fronte all'ardere del fuoco. È dunque profondo il cambio d'atmosfera quando dal silenzio emergono i doppi guizzi dell'oboe del fiatista Gaetano Galli, che con estro vagamente stravinskiano aprono la via al graduale rifiorire strumentale: prima la mandola, poi di nuovo il VCS3 (questa volta in veste puramente melodica). Un breve interludio di sole percussioni, scandite con rigore cerimoniale, permettere agli strumenti di riprendere tutti insieme, divergendo in maniera crescente tanto nelle altezze occupate nella scala quanto nei temi melodici. È trasparente l'influsso del minimalismo estatico sullo stile compositivo di questa coda, ma altrettanto manifesta risulta la ricerca di una via alla ripetizione/evoluzione che affondi le sue radici nelle musicalità e spiritualità tradizionali. I due aspetti si combinano evocando immagini cangianti di purificazione e rinascita, ombre e fiamme tremolanti, vaghi culti iniziatici che riconnettano l'uomo alla terra.
Si è atteso finora a menzionare "Sequenze e frequenze", la traccia che occupa l'altra facciata dell'ellepì, perché in questa convergono tutti gli elementi finora evidenziati. La ricerca sintetica e l'inusuale slancio pop, i testi sghembi, intimi e immaginifici, il minimalismo, lo spazio dedicato al folklore. E ne rispuntano altri: l'apertura cacofonica del brano, basata su intromissioni di materiali sinfonici e vocalizzi astratti delle sopraniste Jutta Niehaus (Analogy) e Rossella Conz, è l'unico frangente del disco che rimandi allo stile collagistico presente nei due album promossi da Gianni Sassi. Anche il drone di chitarra distorta, che emerge allo sfumare dell'introduzione, può essere visto come un richiamo alle sonorità ispide della fase artistica appena trascorsa.
Che il vento sia cambiato è però palesato dall'arrivo della voce sopra agli strati di VCS3: di nuovo due strofe secche, nello stile già descritto per "Aria di rivoluzione", cantilenante e a modo suo incancellabile dalla memoria. Qui il tema è il più autobiografico possibile, e mette doppiamente al centro le origini dell'artista: dal punto di vista biografico, riportando in vita stati d'animo legati all'infanzia, e da quello geografico, connettendo i ricordi alla struttura stessa dei luoghi di provenienza.
La maestra in estate ci dava ripetizioni nel suo cortile
Io stavo sempre seduto sopra un muretto a guardare il mare
Ogni tanto passava una nave
Ogni tanto passava una nave
Il canto monodico, apparentemente essenziale, ma armonicamente sospeso tra modo dorico e modo eolio, interagisce col bordone sottostante, creando saltuari unisoni che rafforzano l'espressività di alcune parole chiave: su tutte, mare. Sul secondo "nave", la linea incerta del VCS3 muta in un disegno schematico e ripetitivo: un arpeggio VII-I-III-I che segue l'oscillazione della strofa tra maggiore e minore, riaffermandone l'elusività.
E le sere d'inverno restavo chiuso in casa ad ammuffire
Fuori il rumore dei toni rimpiccioliva la mia candela
Al mattino improvviso il sereno
Mi portava un profumo di terra
Anche qui alcuni termini sono posti in evidenza: mattino/ improvviso/ sereno/ portava/ profumo/ terra, col primo in particolare marcato da un cambio di tempo che - facendo per un attimo perdere la bussola ritmica - affianca all'arpeggio la scansione ternaria della chitarra.
Mare, terra, brezze, profumi, mutamenti atmosferici, raggi di luce. Sono questi gli ingredienti, non detti ma più presenti che mai, nei quasi tredici minuti che seguono l'ultimo verso. Dal muretto, lo sguardo si protende verso il Mediterraneo che si estende a perdita d'occhio, lo solca con l'occhio della mente, ne insegue le increspature e le correnti. È un'esperienza extracorporea, il viaggio in una dimensione atemporale dove l'unico riferimento è la regolarità delle onde, uguali nel presente, nel futuro, nel passato e in ogni direzione possibile. Sono molteplici gli elementi musicali che si succedono nel rappresentare la pulsazione di questo brulicante oceano sonoro: tabla, sintetizzatore, e da metà del sesto minuto un loop palpitante di chitarra iper-effettata, perfetta trasposizione del moto ondoso che non abbandonerà il brano fino alla sua conclusione. Su questa base incessante, altri strumenti danzano come spruzzi, uccelli, pollini portati dal vento: mandola, chitarra, poi (dal quinto minuto) il pianoforte preparato, riprodotto accelerato per innalzarne il pitch, e dal settimo minuto in poi uno strumento a percussione non accreditato (probabilmente una kalimba), dal suono particolarmente brillante e giocoso.
"Sequenze e frequenze" è uno di quei rari brani riguardo ai quali non si vede alcuna valida ragione perché, prima o poi, debbano giungere a un termine. Potrebbe andare avanti in eterno, e andrebbe benissimo così. Mette in pace coll'universo. Sta forse in questo, forse ancor più che negli indubbi legami stilistici, l'analogia profonda con le musiche che Battiato voleva approfondire a New York: la nuova via alla musica contemporanea sviluppata da Steve Reich, Philip Glass, Terry Riley. Di questi dirà, raffrontandoli ai "vecchi" Cage, Stockhausen, Boulez che precedentemente costituivano per lui un grande riferimento: "Per me quelli erano un'altra cosa. Erano la mia cosa" (v. sempre "Superonda"). Rispetto ai musicisti newyorkesi, similmente interessati al rapimento paradisiaco indotto da ripetizione, sovrapposizione e variazione, l'approccio di Battiato ha però la concretezza e il radicamento del rapporto con la terra. Che riecheggino i suoni delle due sponde del Canale di Sicilia, oppure esprimano un orizzonte tradizionale vago e del tutto immaginario, i saltarelli astratti in cui si inseguono gli strumenti accendono nella musica potenzialità evocative aliene alle manifestazioni più pure del minimalismo americano, e decisamente distinte anche dalle derive più ambientali e futuribili che caratterizzeranno la kosmische musik tedesca negli anni a venire.
Piuttosto, è possibile ricondurre alla strada mediterranea qui indicata da Battiato altre sperimentazioni successive condotte nel nostro paese: dal minimalismo spumeggiante di Roberto Cacciapaglia (già collaboratore di Battiato in "Pollution") e Arturo Stalteri (Pierrot Lunaire) fino al celestiale jazz-prog-folk dei tardi Canzoniere del Lazio ("Miradas"), intersecando i percorsi di collaboratori futuri di Battiato (Lino "Capra" Vaccina, Francesco Messina) o il singolare electro-folk minimalista del semidimenticato Pepe Maina, autore nel 1977 e nel 1979 di due dischi da riscoprire, "Il canto dell'arpa e del flauto" e "Scerizza".
"Sulle corde di Aries" è tra i dischi più celebrati della stagione progressiva del rock italiano; filone del quale - ammesso che davvero vi sia riconducibile - costituisce un rappresentante del tutto sui generis, proiettato com'è verso sonorità altre rispetto ai riferimenti consueti del prog di casa nostra. È inoltre uno spartiacque nella carriera dell'artista, e in qualche modo uno snodo dal quale si diramano molte delle linee che in seguito ne avrebbero orientato le ricerche. Già dal successivo "Clic" (1974) pezzi come "Propietad Prohibida" accentueranno grazie all'avvento dei sequencer la componente minimalista, che sarà poi estremizzata nelle nuovamente incompromissorie esperienze della seconda metà degli anni Settanta. Eppure, anche il canzonettismo enciclopedico che segnerà la "svolta pop" immediatamente trova i suoi semi nelle iconiche strofe di "Sequenze e frequenze" e "Aria di rivoluzione". E l'avvicinamento a sonorità world, dominanti nei primi Novanta di "Caffè De La Paix", non hanno forse gli echi mediterranei che animano il disco come primo embrionale punto d'origine?
Proprio nel periodo in cui cominciava a lavorare a "Sulle corde di Aries", inoltre, Battiato scopriva teorie e pratiche meditative delle culture mediorientali e orientali - aspetto che inizia a mostrarsi nelle atmosfere trascendentali del disco e, come ben noto, si farà via via più centrale nelle successive vicende artistiche e personali dell'autore.
Al netto di tutte queste contestualizzazioni, tuttavia, il terzo album di Franco Battiato è soprattutto un disco di enorme e insopprimibile fascino intrinseco. Musica fuori dal tempo e dallo spazio, capace in mezz'ora e pochi minuti di racchiudere l'eternità.
23/05/2021