La strampalata combriccola hippie-nerd che divenne un’orchestra da camera. La cantante-anatroccolo che si trasformò in cigno. In soli quattro anni, la parabola dei Dark Dark Dark ha disegnato uno stupefacente American dream in miniatura, svelando ancora una volta la ricchezza di un circuito indie assai più vitale nel suo sottobosco rispetto a quanto i suoi fenomeni più hyped lascino immaginare.
Partono in sei (poi diverranno un quintetto), da Minneapolis (Minnesota), armati di violoncello, banjo, fisarmonica, contrabbasso e pianoforte. Con in tasca, però, già il segreto della loro fortuna: l’inconfondibile voce di Nona Marie Invie, cantante tutt’altro che prona ai canoni tradizionali del bel canto, ma dotata di una vocalità penetrante e struggente, di quelle che colpiscono dritto al cuore. Una compagnia viaggiante di fenomeni da baraccone, raggruppati alla bell’e meglio in un allestimento collettivo che potrebbe rappresentare la Londra ottocentesca, di spazzacamini e puttane, in un villaggio di pescatori in salopette sulle rive del Mississippi; e non ci si stupirebbe che si portasse dietro un piccolo Poe, ancora imberbe e impressionabile. L'armamentario, dunque, è decisamente polveroso e non lascia presagire certo facili successi, tanto più perché si abbina a una sensibilità musicale apparentemente poco consona ai canoni del pop, che sposa le profondità acustiche del Midwest con reminiscenze jazz di New Orleans e languori folk balcanici (Kusturica e Bregovic sicuramente apprezzerebbero, ma anche il Beirut di "Gulag Orkestar").
Questi sono i Dark Dark Dark che si cimentano nel bizzarro progetto ambientalista “Swimming Cities Of The Switchback Sea” a cura dell'artista Swoon: una serie di zattere/installazioni realizzate con materiale di scarto, polistirolo e legno che nel 2008 hanno attraversato il fiume Hudson (tra le città di Troy e New York) e nel 2009 hanno fatto tappa anche sull'Adriatico, dalle coste della Slovenia fino alla Biennale di Venezia.
Per l'album d'esordio Snow Magic, non senza un certo grado di autocompiacimento, Nona Marie Invie si fa accompagnare su una zattera improvvisata da fisarmonica, banjo e fiddle in una scenografia lasciva, che va dall’avanspettacolo decadente di “That Light” alla cacofonia gotica del lamento transilvanico di “Ashes”.
E' già una presenza incombente, quella della Invie, dalla vocalità torreggiante e stregonesca (ma anche dolente ed espressiva, come in “Junk Bones” e “All The Things”) rispetto alle timide comparsate del compagno LaCount. L'album ha però il segno evidente di un’opera ideata per costruire un’impronta, presentare una band stravagante (non così tanto, forse, nel 2008, con Beirut, Sufjan Stevens, Andrew Bird e Arcade Fire sulla breccia) e nomade, ma altrettanto prevedibile nelle soluzioni (il violino come controparte “lamentevole”, il folklore solenne e nostalgico della fisarmonica, il vaudeville urbano e cabarettistico dei giri di pianoforte) e, insomma, più occupata a mostrare un’immagine di sé che a costruirla con le canzoni.
Questo spirito nomade – che si esprime poi effettivamente nella vita di tournée del gruppo - contagia vieppiù la musica stessa dei Dark Dark Dark, nella rotta di avvicinamento al seguente Wild Go (basti sentire la giostra gitana dell'iniziale "In Your Dreams"), così come l'autoironia - scelsero il proprio nome come caricatura della musica che facevano allora - alleggerisce il flebile, delicato pathos delle canzoni di questo disco, che esce nel 2011 in Europa attraverso la Melodic, dopo esser stato pubblicato negli Stati Uniti ancora nel 2010.
A dir la verità, così hippie fuori tempo massimo non sembrano, i Dark Dark Dark, dalla loro musica. Prendiamo una ballata pianistica come "Something For Myself" e avremo tutti gli ingredienti necessari a decifrare Wild Go: un classicismo quasi affine alla gravità di Agnes Obel e Anja Plaschg, rotto dal cristallino afflato canoro della cantante e frontwoman, che dona ai volteggi delle canzoni il vibrante romanticismo di una Victoria LeBlanc, insieme al caratterizzante accompagnamento di fisarmonica (mai caricaturale, comunque). Con la stessa ricetta si palesa il bel singolo "Daydreaming", magico gioco di riflessi, voluttuoso sovraccarico emotivo, in grado di farti risuonare come una corda nella sua sommessa maestosità.
Eleganti valzer ("Say The Word" e soprattutto la struggente "Celebrate", idillio beirutiano) dipingono un dolente carnevale di straccioni e sbandati, in perenne vagabondaggio su zattere e carri, mentre la frivola "Right Path" racconta, alla maniera dei Loch Lomond, un'ebbra e amara parabola. Ma si trovano anche tracce, nelle loro tessiture cameristiche, dell'impeto radioheadiano degli Other Lives ("Heavy Heart").
Wild Go ha insomma il physique du rôle di un disco di grande caratura pop, costruito con eleganza (la toccante "Robert") ma anche con quell'ironia (Andrew Bird?) che spesso manca ad altre giovani autrici, o band in generale. Una caratteristica preziosa, unica, da custodire come un piccolo tesoro, come la propria anima.
La band nel frattempo cresce anche nella dimensione live, facendo da spalla ai tour intercontinentali di National e Low, e ritagliandosi piccole apparizioni televisive, come nella trasmissione inglese Live From Abbey Road. Piccola conferma della crescita della band viene anche dall’Ep accluso a questa edizione di Wild Go, intitolato Bright Bright Bright. Anche qui si notano i germi della personalità autoriale della Invie, ancora teatrale nell’accompagnamento morriconiano di tromba di “The Hand”, nell’assolo pianistico di “Wild Goose Chase”, arioso preludio al capolavoro del gruppo, che giungerà con il successivo lavoro sulla lunga distanza.
Gran parte del materiale di Who Needs Who (2012) viene composto dalla Invie a Minneapolis e successivamente arrangiato dalla band in tour e a New Orleans, in sessioni di registrazione cui prende parte l'ingegnere del suono Tom Herbers. E la musica dei Dark Dark Dark, ora, sembra davvero una diretta espressione della figura della Invie, gli stessi strumenti una sua prosopopea. Tra cavalcate pianistiche che ricordano la Legrand “propulsiva” di “Teen Dream” (“Tell Me”) e scherzi gitani alla Regina Spektor (“Without You”), il gruppo di Minneapolis realizza in questo terzo disco il suo lavoro più maturo. Ancora più veementi e vibranti sono infatti le interpretazioni della cantante americana che, pur non dotata dei mezzi vocali delle già citate vicine, le supera per doti espressive, per puro carisma. Non sembra casuale leggere una sua intervista per la rivista femminista di Yale, già artista matura al cospetto del suo io di dieci anni prima, la ragazza col registratore dall’altra parte del tavolo.
A sentire le invettive di “Who Needs Who” (“I had/ the memory of trust/ I swallow it hole/ And from the mouth of you/ A constant cue/ Who needs who?”), un po’ di quella riot grrl è rimasta, in Nona Marie, e le sopravvive pur col suo stile da dolente blues-star, pur nello stile pianistico vieppiù classicheggiante, tendente in sostanza alle solenni volute dei primi Other Lives.
Una delle eroine evocate è Patsy Cline, nel pezzo forse più da “Closing Time” del disco, il quale un po’ dappertutto mostra questa atmosfera notturna, ammaliante, nel lento sepolcrale di “Hear Me”, solcato dalla luce della tromba; nelle compassate progressioni di “How It Went Down”, una delle più “plastiche” nell’esprimere lo stato d’animo col quale è stato composto il disco - un’analisi forse scarna, forse ancora in fieri, di un periodo della propria vita di grandi cambiamenti. Uno di questi è senza dubbio l'interruzione del rapporto sentimentale tra la Invie e l’altra anima del gruppo, Marshall LaCount, che ha segnato anche un breve iato nel gruppo, avvenuto a cavallo tra 2011 e 2012. Nona Marie correttamente definisce, in questo senso, lo spirito col quale ha scritto le canzoni di “Who Needs Who”: “Molte di queste canzoni riguardano la comprensione e l’accettazione delle sfumature delle mie emozioni. Le parti ovvie e quelle oscure. Ci sono momenti nei quali è giusto smettere di fantasticare e guardare in faccia la verità di quanto sta accadendo”.
Questo preciso momento, appena descritto, quello che forse segna il passaggio definitivo dalla gioventù alla piena maturità, potrà forse non cogliere le aspettative di chi vorrebbe l’espressione artistica sempre “giovane”, uno slancio d’inesperienza e di fede, non un’analisi a posteriori. In questo “Who Needs Who”, nei suoi affreschi pianistici, che illudono con la propria circolarità per poi manifestare un’impennata improvvisa, o per lasciare il passo a una coloritura ritmica, a un lontano accenno di tromba (“The Great Mistake”), invece si esprime compiutamente la grande epifania del primo, vero confronto con il passato.
Insomma, definire quest’ultimo lavoro dei Dark Dark Dark il loro “album della maturità” sembrerebbe quasi un gioco di parole, dato che proprio tale è l’argomento principale. Il corredo strumentale, assorto e insieme emotivo, non fa che assecondare questo concept sottinteso, del venire a patti con le proprie aspirazioni, nei confronti di sé stessi e degli altri. Il momento più triste e più felice nella vita di una persona, forse.
Assestata ormai in un quintetto - Nona Marie Invie (piano, fisarmonica, voce), Marshall LaCount (banjo, clarinetto, voce), Walter McClements (tromba, fisarmonica), Adam Wozniak (basso), Mark Trecka (batteria) - la band di Minneapolis è chiamata ora a confermare la sua crescita e a resistere alla cesura nella vita privata delle sue due anime (Invie/LaCount). Intanto, però, possiamo dire con certezza che nella galassia indie è nata una stella, tanto oscura nel nome, quanto luminosa nel suo crescendo artistico. L'ennesimo miracolo americano.
Prima della ricomparsa della voce di Nona Marie Invie in occasione della collaborazione del nuovo album dei National, nel quale la Nostra appare dopo aver stregato anche la band di Chicago, la band torna con una breve uscita pubblicata in occasione del Record Store Day del 2013.
Del tutto nelle corde dell’ultimo Who Needs Who, What I Needed ospita infatti una confessione/invettiva dolcemente montante come “Love Lies” e un numero retro-pop di sognanti suggestioni sixties come la title track come tracce simbolo.
Nonostante una “I Collect Things” più abbozzata e pensata come conclusione lievemente lirica, si tratta di un'uscita davvero buona – non fosse che la conclusione, invece, ricade nelle mani di un evitabile, incomprensibile remix house di “How It Went Down” (sic). Ma attenzione, perché quel che non si perdona a Nona Marie, lei ve lo ricaccerà in gola con una frase smozzicata e un’occhiata dritta nelle pupille.
Snow Magic (Supply And Demand, 2008) | 6 | |
Wild Go (Melodic, 2011) | 7 | |
Bright Bright Bright (Ep, 2011) | 6,5 | |
Who Needs Who (Supply And Demand, 2012) | 8 | |
What I Needed(Ep, Supply and Demand, 2013) | 6,5 |
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