Questo nuovo "Around The Sun", registrato dai tre insieme al bassista Scott McCaughey e al chitarrista Ken Stringfellow, rinnova - ahimé - dubbi e risposte. La macchina non sforna più i ritornelli perché sembra solo alimentata (o meglio, ingolfata) dal carburante della sua munifica major. E non basta a Stipe e compagni buttarla sulla polemica elettorale anti-Bush per cercare di restituire freschezza a una proposta musicale lontana ormai anni luce dall'agit-pop dei tempi d'oro della Irs, di "Cuyahoga", di "Orange Crush" e degli altri inni eco-pacifisti degli anni 80.
Non si tratta di voler ricercare l'originalità a tutti i costi, ché sarebbe finanche stupido pretenderla da un gruppo come gli Rem che non ha mai voluto farne una bandiera. E non si tratta nemmeno di voler mettersi - dalla title track in su - a far la conta dei tanti filler, i famigerati riempitivi che nei dischi di Stipe e soci sono sempre stati presenti. E' che ormai sono rimasti (quasi) solo quelli. Latitano, invece, le canzoni di razza, le tracce da aggiungere a quell'ideale antologia remiana che la band di Athens puntualmente, a ogni disco, ci aveva dato la possibilità di rimpolpare. Perché gli Rem sono sempre stati soprattutto un gruppo "da singoli" (o, quantomeno, "da canzoni") e quando questi vengono a mancare, è difficile che i loro album possano ancora avere un senso.
D'accordo, c'è sempre il singolo "Leaving New York", la classica ballata avvolgente alla Rem che vorrebbe catturare al primo ascolto, con i consueti arpeggi fatati della chitarra, la cantilena modulata di Stipe e il ritornello da acchiappo. Il problema è che non si capisce che cosa possa aggiungere ai suoi innumerevoli predecessori (da "Everybody Hurts" a "Daysleeper"). E' proprio sul versante "malinconico", comunque, che Stipe e compagni riescono ancora a tenersi a galla, riuscendo, seppur a sprazzi, a dare un'idea di quel groppo alla gola che opprime l'America post-11 settembre. Se c'è forse un brano di questo disco da aggiungere all'ideale "Best Of Rem", questo non può che essere "Worst Joke Ever", un lento scuro e dolente, impreziosito da morbidi ricami acustici e declinato in un registro quantomai struggente da Stipe.
Altro saggio di bravura del cantante (che resta un fuoriclasse, beninteso) è "Final Straw", in cui la litania del nostro si lascia accompagnare solo da una sinistra chitarrina acustica dal sapore western. Ecco, questi due brani possono essere forse l'eccezione che conferma la regola di questo album. Sì, perché le altre ballate, seppur dignitose, sembrano quasi composte a occhi chiusi tanto sono "dejà vu". Prendiamo "Make It All Ok", con la sua scontata intro di chitarra e voce e l'altrettanto prevedibile crescendo di armonie vocali e batteria, oppure "The Boy in the Well" col suo classico mid-tempo punteggiato dai fraseggi di tastiere, chitarre, piano e fisarmonica, o ancora "I Wanted to Be Wrong", col suo bell'arpeggio iniziale, incalzato dal dialogo tra chitarra elettrica, basso e batteria. Non sono brani scadenti, né mal arrangiati, ma sembrano tenuti in piedi da un'orchestra di replicanti che esegue ormai a oltranza il suo spartito. E' musica tenue, senza nerbo, che scivola via come un refolo di brezza del mattino.
Se una novità si può rintracciare in "Around The Sun", questa può essere la scelta di ridimensionare il ruolo delle chitarre elettriche, per puntare i riflettori soprattutto sul canto di Stipe e sugli inserimenti, via via, di archi, piano, organo hammond e tastiere. L'idea poteva anche essere intrigante, ma l'esito delude su tutto il fronte: dal pop sintetico alla U2 tarda maniera di "Electron Blue", cui non bastano le pulsazioni della drum machine e i rintocchi del piano per decollare, al pasticcio confuso di tastiere, piano e jingle-jangle assortiti di "Aftermath", fino alle atmosfere plumbee di "High Speed Train", rannicchiata sui suoi soporiferi buzz elettronici. Neanche i tentativi di rinfocolare l'energia di un disco tutto sommato gradevole come "Monster" fanno centro, a giudicare da quella "Wander Lust" che riesuma la vecchia "What's The Frequency, Kenneth?" innestandovi sopra un ritmo incalzante, peraltro - come già notato da più parti - sinistramente simile a quello di "London Calling" dei Clash.
Ma le scivolate più clamorose del disco sono soprattutto l'inqualificabile rap in coda a "The Outsiders", malauguratamente concesso dal signor Q-Tip (nonché riedizione dell'analogo esperimento già fallito con KRS-One in "Radio Song" del 1991), e l'ossessivo "yeah-yeah" di Stipe, sorta di versione rincitrullita del McCartney di "She Love's You", che inquina irreparabilmente "The Ascent Of Man".
Infine, ci si potrebbe dilungare sui testi sempre criptici di Stipe o sulle sue invettive contro l'amministrazione Bush e contro la guerra in Iraq che tanto hanno campeggiato nelle presentazioni del disco sulla stampa. Ma, nel timore di non poter aggiungere niente di particolarmente significativo, si preferirà desistere. Hai visto mai che ci dovesse assalire la nostalgia per quella satira pungente e per quella canzone meravigliosa che era "World Leader Pretend"...
(12/12/2006)