Nel pantheon del concettualismo sonoro d'essai gli Ulver ricoprono da sempre un ruolo di primo piano ben delineato, quello di chi manifestata chiaramente la propria idiosincrasia nei confronti delle cosiddette vie maestre e segue quasi per legge impervi sentieri isolati. Se l'iniziale repulsione per i clichè grandguignoleschi del black metal norvegese spinse Kristoffer "Garm" Rygg ad affrontare un percorso fatto di avanguardismo sonoro, culminante nel trip-hop metropolitano di "Perdition City" (2000), la costante insofferenza per i marchi di fabbrica ha portato, nel corso degli anni, gli Ulver a ondeggiare - a tratti pericolosamente - tra uno sperimentalismo tutt'altro che traslucido ("Blood Inside", 2005) e un liquido misticismo che sa di crepuscolo ("Shadows Of The Sun", 2007). Nel 2011, la band nordica rimescola ulteriormente le carte, facendo tesoro dell'esperienza "ectoplasmica" degli Aethenor, per usare un'espressione propria del tastierista Daniel O'Sullivan, coinvolto insieme a Rygg nel progetto suddetto, e accasandosi presso la sempre più rinomata Kscope Rec. (Anathema, Porcupine Tree e Blackfield, tra i nomi più noti).
Dissonante, a-melodico e ondivago: "Wars Of The Roses" rappresenta un timido abbandono della spiritualità seicentesca del suo notturno predecessore e un altrettanto titubante ritorno verso i territori caoticamente destrutturati di "Blood Inside", con l'aggiunta di un pizzico di egocentrico post-modernismo che mai fa male. Il mixaggio ad opera del celeberrimo John Fryer (Depeche Mode, Cocteau Twins, Swans ecc.) e le collaborazioni sparse con leggende dell'improvvisazione tout court come Stephen Thrower (Coil, Cyclobe), Stian Westerhus, Steve Noble e Alex Ward, stimolano la verve psichedelica degli Ulver, facendo sì che la scelta opinabile di sviluppare idee senza linee direttive di sorta lambisca un mondo di melodie dark sognanti ma, al tempo stesso, autistiche.
"Wars Of The Roses", in altre parole, sembra fare l'occhiolino a una sorta di bipolarismo sonoro, i cui incostanti saliscendi emotivi vengono dissimulati nella sola iniziale "February MMX", il brano più linearmente pop-rock della carriera degli Ulver, nonostante una coda psichedelica che lascia bene intuire la direzione delle tracce successive. Espressionismo pittorico allucinato che, in "Norwegian Gothic" e in "England", si diverte beffardamente a mettere a duello la malinconia notturna delle tastiere di O'Sullivan con le linee vocali durissime e stonate di Rygg. La prima, misantropica nel suo incipit sussurrato, deflagra quasi improvvisamente in un'orgia di violini, sax e xilofoni totalmente votati alla dissonanza. La seconda, invece, contrappone la struggente emotività sprigionata dalle note quasi classiche del pianoforte a una teatralità vocale, il cui crescendo dilaniante materializza nella mente dell'ascoltatore le imprecazioni dell'Antigone di turno.
Non è facile introdursi - da un punto di vista emotivo - tra le intercapedini della nuova opera degli Ulver, la quale sembra volutamente mantenere le distanze, disorientandoci istante per istante. Prova ne è l'improvvisa poesia del romantico duetto tra Rygg e Siri Stranger, dotatissima cantante R&B norvegese, in "Providence", brano vagamente accostabile "A Life All Mine" dei The Gathering: violino dolce da notte di luna piena, tastiere imbarazzate, chitarre acustiche, le cui creazioni fluttuanti vengono importunate dal break centrale di un sax avvolto tra spirali futuristiche. Se la psichedelia astratta e violentissima di "September IV" catapulta gli Ulver all'interno di una sorta di post-prog elettronico allucinato che tanto piace alla Kscope, "Island" svolge il suo compito in maniera minimale, lasciandosi prendere per mano dalla voce di Rygg su uno sfondo di chitarre pinkfloydiane che tratteggiano la mappa dei nostri ricordi d'infanzia.
L'impenetrabilità sentimentale di "Wars Of The Roses" raggiunge il suo acme disorientante nei titoli di coda della lunghissima "Stone Angels": la sacralità intangibile dell'organo e il suono dilatato del sax fanno da sfondo all'onirica narrativa di Daniel O'Sullivan, che recita un testo del noto poeta americano contemporaneo Keith Waldrop. La dissonanza che si trasfigura, infine, in dolce poesia. Che sia questa la chiave di lettura ultima di un lavoro tutt'altro che facilmente assimilabile ma indubbiamente fascinoso nella sua riluttanza a trasmettere emozioni?
18/04/2011