Bisognerebbe avere il coraggio di non chiedere agli artisti cosa pensino, qualitativamente, delle loro nuove creazioni e soprattutto di paragonarle ai vecchi lavori. Perché, si sa, i figli so' piezz'e core e la valutazione sarà, comprensibilmente, sempre più che positiva, un invito ad ascoltare canzoni tra le più belle mai scritte. Martin Gore stavolta ha persino esagerato, aggiungendo che i nuovi pezzi dei Depeche Mode ricordano, nelle atmosfere, quelli di “Violator” e “Songs Of Faith And Devotion”, due tra i loro album più celebrati, peculiari e, senza dubbio, quelli di maggior successo.
Magari l’ascolto del nuovo singolo “Heaven”, intensa ballata dalle venature rock, potrebbe anche rendere plausibile la descrizione, sebbene lasci un po' d'amaro in bocca per colpa di un sentimentalismo dal retrogusto preconfezionato e per la sensazione che un pezzo del genere avrebbe funzionato meglio come brano qualunque in tracklist che come pezzo di lancio di un nuovo album. Non bastano, però, nemmeno le già sfruttate sonorità electro-blues della sensuale “Slow” e della conclusiva “Goodbye” per impedire all’ascoltatore di capire che i Depeche Mode di “Delta Machine” sono invece ancora molto, troppo vicini stilisticamente a quelli più recenti. E qui interviene Dave Gahan, anche stavolta interprete carismatico e anima “materiale” del gruppo, che - più onesto o disilluso - descrive l’album come capitolo conclusivo di una trilogia realizzata assieme al produttore Ben Hillier, iniziata con l’acclamato “Playing The Angel” e proseguita con quel “Sounds Of The Universe” che aveva invece deluso un po’ tutti.
Ecco, il rischio che “Delta Machine” suoni opaco e discontinuo come il suo predecessore è costantemente dietro l’angolo; lo si ascolta sempre con la smania di coglierne finalmente un’apertura che lo faccia decollare definitivamente, di provare un brivido spontaneo ma anche stavolta il risultato, seppur migliore, è fin troppo cerebrale e decisamente poco dettato dall’istinto. Spetta, infatti, agli elaboratissimi arrangiamenti elettronici (così abrasivi che avrebbero fatto furore a fine anni 90 ma che non dispiacerebbero agli attuali Yeasayer, soprattutto il tribal-glitch di “My Little Universe”) il compito di valorizzare canzoni ben confezionate ma che solo a sprazzi potrebbero reggere il confronto con i tanti pezzi che hanno reso celebre il marchio.
Anche stavolta all’arco di Gore sembrano mancare l’epicità dei vecchi inni da stadio (non bastano le orchestrazioni sontuose per dar nerbo a “Welcome To World”, incipit alquanto scarico invero), la giusta dose di pathos (soffocato in una “Alone” dalle potenzialità non appieno sfruttate e solo accennato nella timida “The Child Inside”, quasi una torch-song trasmessa dallo spazio) e melodie davvero compiute e liberatorie che compensino uno scenario così industriale e claustrofobico.
Se la debacle dell’album precedente è comunque evitata, lo si deve soprattutto al tiro e all’aggressività di brani come l’invasata invettiva di “Angel”, l’urgente “Soft Touch/Raw Nerve” e il nuovo singolo “Soothe My Soul”, questo sì, cadenzato come “Personal Jesus”, ma in veste decisamente più sintetica e che soffre dell’infelice posizionamento in scaletta verso la fine dell’album.
Lo smacco al biondo autore, ma definitiva ancora di salvezza per “Delta Machine” (e per l’ascoltatore), arriva curiosamente proprio dalla penna di Dave Gahan: come da recente tradizione, tre pezzi portano la sua firma e stavolta, seppur non eccelsi, rischiano di essere addirittura i migliori del lotto: la nervosa “Secret To The End” che presenta un bel gioco di cori, tra i più orecchiabili dell’album, “Broken” che, senza ricalcare pedissequamente un vecchio brano nello specifico, è paradossalmente la quintessenza sonora dei Depeche Mode, e una “Should Be Higher” che mostra finalmente un po’ di cuore sotto la coltre d’acciaio.
Iniziano a compensarsi, insomma, le due menti del gruppo, com’è giusto che sia dopo tutti questi anni, e ci si domanda perché mai Gore e Gahan non provino a scriverle insieme, le loro canzoni. Assieme alla scelta di un nuovo produttore, potrebbe essere quella la scintilla in grado di far ritrovare ai Depeche Mode una freschezza melodica che troppo spesso, ormai, sembrano voler metter da parte a favore di un’impalcatura sonora così perfetta e ingombrante da apparire inevitabilmente bella e senz’anima. Non era forse lecito aspettarsi qualcosa di più stavolta?
22/03/2013