Non saremo mai così pignoli da pretendere comunicati che certifichino l’ufficialità degli avvicendamenti, ma rischieremmo davvero di passare per ciechi se non vedessimo che negli ultimi due anni i Thee Oh Sees hanno cambiato pelle. Sibillino fu quell’annuncio di hiatus arrivato come un fulmine a ciel sereno all’indomani di “Floating Coffin” e presto declassato a goliardica smargiassata, quando un album di inediti venne promosso come la più evidente delle smentite. Non sono trascorsi che tredici mesi da quel momento, ma adesso sappiamo con certezza che i vandali californiani non stavano scherzando affatto. Il nostro errore, allora, fu di scrivere di “immediata ripartenza”, ignorando di fatto come “Drop” fosse una fotografia già in parte ingiallita. Ai tempi la diaspora della band originale era in corso di attuazione e, in barba ai credits su quel disco registrato già da un po’, il gruppo poteva dirsi in congedo a tempo indeterminato per tre quarti. Restava in sella il solo condottiero, quel John Dwyer migrato dalla Bay Area a Los Angeles per distrarsi con amenità collaterali e continuare la propria avventura su binari nuovi.
Lasciati a San Francisco e di fatto giubilati i formidabili depositari dei ritmi, Mike Shoun e Petey Dammitt, rottamata la tastiera di Brigid Dawson (che torna oggi come semplice voce sullo sfondo) cui si sono preferite le implicazioni lisergiche di un mellotron animato in prima persona, Dwyer ha rilanciato le azioni del collettivo nella più agile forma di trio, con alcuni aggiustamenti determinanti a livello di struttura, dall’ortodossia di un basso vero e proprio (in vece della chitarra di Dammitt, suonata come se lo fosse) alle conferma della doppia batteria, della sua elettrica in guisa di bestia totemica e dei contributi a tutto campo del fidato Chris Woodhouse, di fatto regista aggiunto. Il vero nuovo inizio per la compagine statunitense arriva quindi solo ora con il diciassettesimo titolo di una discografia fluviale, al netto di raccolte ed episodi brevi.
In apparenza, nulla di nuovo sotto il sole: “Mutilator Defeated At Last” parte nel segno di una quiete minacciosa, una lunga preparazione guardinga con il cantante placido folletto e la sua chitarra che andrà a prendersi, strada facendo, la solita esacerbante licenza alle scorticature. Se il sound insiste con le corpose innervature psych delle ultime uscite, è la sostanziale leggerezza del songwriting a fare la differenza, in una ricerca di agilità e spigliatezza che sfronda elucubrazioni e orpelli di forma per concedere più ampio respiro al vitalismo a briglia sciolta della casa. Con un canovaccio incentrato sulla pura scorribanda garage-punk, trionfo di un’isteria controllata ma godibilissima, si celebra una certa esuberanza gioiosa e dionisiaca fuggendo le complicazioni concettuali come la peste, e questo vale per la guizzante “Poor Queen” come per una “Withered Hand” da applausi a scena aperta, con gli immancabili bramiti elettrici e un capobanda in tonalità oltremodo epica.
Aver da poco rispolverato la parentesi Coachwhips ha evidentemente lasciato più di un salutare strascico, visto che questi sembrano in assoluto gli Oh Sees più prossimi allo standard da battaglia e al primitivismo in bassa fedeltà di quella band incredibile. Più che per i coretti della rediviva Dawson, “Turned Out Light” si lascia ancora ricordare per i cavalloni travolgenti, che qui ammiccano a certo rock elefantiaco dei Settanta e, come di consueto, regolano con qualche punto di margine il Ty Segall affine dell’ultimo lustro (avventura Fuzz compresa). La centrifuga prende a macinare giri su giri, il motore romba, i filtri si lordano a dovere ma la sudicia auto da corsa del forsennato John continua imperterrita la sua corsa, tra un omaggio ai Led Zeppelin e le nuove mirabolanti architetture ritmiche a opera di Woodhouse e del nuovo soldatino Nick Murray (cui riesce la mezza impresa di non far rimpiangere Shoun). E tutto questo in un esercizio di autocitazione (“Lupine Ossuary”, gemella balorda della più datata “Lupine Dominus”), crudo, sanguinante, crampsiano e futile quanto si vuole, ma che si lascia fruire con sommo appagamento non solo dai fan di più stretta osservanza.
Si registra, insomma, una spiccata tendenza alla stilizzazione, una semplificazione dei propri codici consolidati che non inficia peraltro la qualità della proposta ma per una volta sceglie di privilegiare l’epidermide, il piacere quasi fisico del puro impatto. Un finale con qualche (gustoso) filler di troppo, speso per l’ansia di dimostrare ancora una volta il talento versatile della compagine, arricchisce una volta di più la tavolozza stilistica. Non manca, ad esempio, il consueto passaggio terso e disintossicante in cristallo acustico (“Holy Smoke”), mentre si va a chiudere nel solco di un bozzettismo scapestrato che esalta lo stereotipo luciferino e l’infantilismo pestone del frontman – quello di “Castlemania” per intenderci – ma ancora furbescamente depurato delle digressioni più weird come a non voler lasciare nulla al caso o all’irregolarità selvaggia (“Rogue Planet”). E John è infine sinuoso in un numero anche elegante, per come non esita a rilasciare suggestioni lignee nella forma di una danza a suo modo sensuale ed elusiva (“Palace Doctor”).
Nella pancia dell’album, comunque, è conficcata la più gradita delle sorprese. Quella vena amabilmente aromatica che il gruppo ha spesso riservato ai suoi numeri più posati offre il meglio di sé in una nuova gemma, “Sticky Hulks”, davvero splendente nel suo equilibrismo, con una bella grana vintage in mostra e la piena riconoscibilità di un marchio comunque mai appiattito sui cliché dello sterile revival necrofilo. Si avverte piuttosto un che di ipnotico e liberatorio in questa nenia che parrebbe senza tempo, ma è solo l’ultima trovata dell’improbabile prodigio californiano. Ormai, ad ogni conto, non ci si può più dire stupiti e ci si limita ad accogliere con piacere ogni inedito ritrovato alchemico di una ditta entrata di fatto, e con autorevolezza, tra i nuovi classici del rock alternativo. La spinta sperimentale è ancora evidente ma resta più in ombra, sacrificata rispetto all’ardore e ai muscoli.
Ne esce il disco più energico della band dai tempi di “Carrion Crawler / The Dream”. Niente male davvero per un’opera di passaggio quale “Mutilator Defeated At Last” rimane a tutti gli effetti.
03/08/2015