C'è un aspetto, tra gli altri, che mi ha sempre lasciato perplesso delle teorie accelerazioniste tanto in voga, di cui pure condivido i presupposti: perché una filosofia che promette il benessere universale ha delle applicazioni musicali tanto distopiche? Se le macchine garantiranno libertà e felicità, ha senso stare sotto un capannone a ballare gabber e non in salotto ad ascoltare country rock? C'è un motivo particolare per continuare a riciclare certa repellente estetica cyber-rave nel prospettare un futuro radioso all'umanità intera?
Questo terzo disco di Anna Meredith non pretende di sciogliere la contraddizione, ma quantomeno propone una valida alternativa: una musica sì futuribile e ipercinetica, ma affabile e a tratti sognante, nella convinzione che l'ultratecnologia possa e debba contemplare il romanticismo. Dotta formazione accademica, rodaggio di lusso nell'orchestra della BBC, nominata nel 2018 "Member of the Order of the British Empire", la giovane compositrice sposa l'estetica hd/post-club declinandola su un combinato disposto electro-math-kraut-prog, con un ventaglio di soluzioni dalla modern classical alla synthwave e (alleluia!) nessuna interferenza black. Dimenticatevi, tuttavia, il cipiglio intellettuale delle compagini post-strutturaliste: a menar le danze è piuttosto lo stupore di una bimba con troppi giocattoli tra le mani.
Altèra come Julia Holter, imprevedibile come Holly Herndon, spregiudicata come SOPHIE, nel titolo evoca delle "frottole" e l'irrealtà domina incontrastata, turbinosa come il video di "Paramour". Dal duello Battles-Oneida di "Sawbone" fino agli Ozric Tentacles feat. Panda Bear di "Bump", passando per la Jenny Hval a cena con Vessel di "Inhale Exhale" e l'incrocio St.Vincent-Oneohtrix Point Never di "Killjoy", il capogiro di questo frullato mutante è piacevolmente assicurato. Quarantacinque minuti esagerati e martellanti, spesso e volentieri pantomimici (la fusion da videogame di "Limpet"), con inattese oasi di pace (la Laurie Spiegel annichilita di "moonmoons") e il più etereo degli epiloghi possibili (lo specchio d'acqua dreamy di "Unfurl"). Tanta gommosa elettronica, ma anche chitarra, violino, clarinetto, percussioni e un girotondo di vocalist, con un ambio da fanfara imbizzarrita che non sarebbe dispiaciuto a Sun Ra. Mixa l'ormai onnipresente Marta Salogni, tra gli espatri di cui più dovremmo addolorarci.
L'avvenire, a quanto pare, non sarà per forza uno strazio. Stivalata ben assestata contro le puerili angosce dei nuovi apocalittici, "FIBS" è un coloratissimo passepartout con cui pretendere, un buona volta, una piena automazione dal volto umano.
28/10/2019