Ho indugiato un po’, dato che scrivere una recensione breve sarebbe equivalso a una specie di insulto, mentre una lunga e doviziosa occuperebbe svariati metri di testo digitale: ma come si fa a tirare le somme di un triplo album dei Matmos – di per sé stessi, all’udito come a parole, una sfida sempre avvincente – che coinvolge novantanove ospiti di ogni genere e nazionalità? Mi ha in parte frenato, da principio, la mancanza di uno dei tipici concept portanti che caratterizzano l’intera produzione dell’eccentrico duo californiano, che limitando scientemente il proprio campo d’azione ha sempre offerto risultati di sorprendente elasticità a partire da elementi e modus operandi quantomai rigorosi.
Decisamente infondato, quel timore iniziale, dato che a conti fatti l’esito è decisamente meno caotico e tentacolare di quanto potesse sembrare sulla carta, anzi. Se è vero, infatti, che M.C. Schmidt e Drew Daniel sono sempre stati scienziati di laboratorio curiosi e aperti al mondo, ciò non ne ha mai intaccato o compromesso l’intransigenza, finanche la mania del controllo sulla forma finale della loro visione. E per quanto ambizioso e debordante, “The Consuming Flame” non fa certo eccezione.
Non so chi mai avrebbe potuto pretendere un’ulteriore prova di maestria da parte di questi genietti dell’elettronica, ma in tal caso questa dovrà bastargli per il resto della sua esistenza: anche soltanto condensare in un pastiche sonoro coerente così tante voci, influenze, elementi consonanti ma anche potenziali inciampi creativi, era di per sé un’impresa titanica – e non un mero "esercizio", come vorrebbe il sottotitolo – elaborarle in un trittico che si mantenesse coinvolgente per tre ore di durata, qualcosa di molto prossimo a un miracolo.
Come architetti di un’utopia artistica onnicomprensiva, tra il 2019 e il 2010 i Matmos hanno collezionato i contributi in remoto dei loro numerosi (e pre-conteggiati) colleghi, procedendo a edificare pazientemente la loro personale Torre di Babele digitale: tre dischi come suite ininterrotte, frutto di un minuzioso assemblaggio che non ne cancella l’identità bensì la amplifica in un flusso ipertrofico di temi, libere divagazioni e corpi estranei prontamente fagocitati dall’organismo pulsante.
Uno schema organizzato per istogrammi a barre orizzontali fornisce le indicazioni sulle comparsate degli artisti coinvolti, citati in corrispondenza del minutaggio interessato: il consiglio è di non utilizzarla come una guida all’ascolto o un programma di sala, bensì come una mappa utile a soddisfare determinate curiosità relative ai singoli interventi che si avvicendano senza soluzione di continuità; il brivido di questa traversata, in verità, sta proprio nell’immaginarla come il parto unitario e inscindibile di una mente superiore, allieva dei più disparati maestri al fine di abbracciare una feconda pluralità interiore.
Nell’inaugurare la suite “A Doughnut In The Sky”, il duo acustico/elettronico Moth Cock confeziona una versione gommosa e cartoonesca dei frastagliati reticoli ritmici di Autechre e Pan Sonic, seguìta dalle più asciutte trame minimaliste del frequente collaboratore Max Eilbacher. Il frizzante accompagnamento del batterista Nate Nelson ritorna alternamente nel corso dell’intero primo disco, scivolando tra “Moteswarm” e “Adam’s Apple” in un ipnotico kraut-rock alla Can, omaggio di Owen Gardner (con il sopracitato Eilbacher negli Horse Lords).
Tra i colleghi più noti si affacciano anche Matthew Herbert e David Grubbs, benché il loro profilo si renda irriconoscibile nella selva di estroflessioni soniche e tribalismi assortiti – incluso un breve interludio di Josh Quillen (So Percussion) alla steel drum. Sul finale si crea un affollamento di impulsi atmosferici sconnessi, accrocchio di ammiccanti movenze darkjazz, arabeschi di flauti traversi e found sound d’annata, da ultimo giustapposti in forme para-ritmiche lievemente grottesche.
Se si volesse attribuire un’identità sommaria al secondo disco, “On The Team”, diremmo che risulta maggiormente incentrato sulla sintesi, deformazione e parcellizzazione della voce, con molti passaggi disseminati di fonemi puri o testi recitati a intermittenza. Non di rado tali sorgenti vengono organizzate in pattern dinamici e schizoidi, con l’aiuto di numerosi dj e producer dal tocco variamente incisivo, tra cui Jason Willett degli ½ Japanese (“Maybeism”, “Garden Of Tall Boys”).
I guaiti dei sassofoni di John Dierker e John Berndt danno vita a orgiastiche elevazioni free jazz (“Dancing Your Animal”) poco prima che i Matmos si prendano qualche minuto per adagiarsi in una corsia più rallentata, con rimandi neanche troppo velati all'epopea dei Kraftwerk ed echi di altri futuri più o meno anteriori (“Friendsylum”), preludio a un’ancor più soave e opaca sospensione ambientale in compagnia dei Yo La Tengo.
Con “Sarabande” si aprono altri venti minuti particolarmente variegati, tra schegge di jam session cosmiche, disorientanti incursioni collagiste e un memorabile segmento ricavato dal jingle di Netflix in varie tonalità, contrappuntato da altri temi della nostra quotidianità digitale (l’ansiogena “Platformalism”, assieme a Mark “Porest” Gergis).
Un glaciale scenario dub-techno introduce “Extraterrestrial Masters”, terzo e ultimo atto di un atlante elettronico che sembrerebbe volersi chiudere su una nota più cupa e seriosa: ritmiche squadrate da dancefloor suburbano incontrano fraseggi blues di chitarra elettrica in clean; poi cantilene a due voci sul fruscio di un vinile dai solchi vuoti (Idm Theftable in “Tworivers Run”); poi finalmente una nuova apertura luminosa in salsa psych-folk cui si aggiungono arpeggiati oscillanti di sintetizzatore, così che per qualche lungo minuto la tavolozza cromatica dei Matmos torna a mescolare tonalità più calde e accoglienti, sublimanti nel banjo del best kept secret australiano Andrew Tuttle (“Boomchicka”).
Ma c’è ancora tempo per alzare la posta su un sound design già dimostratosi di altissimo livello: attraversata dagli acuti in stereofonia del soprano Kate Soper, la mezz’ora conclusiva concilia gli input di oltre venti ospiti diversi, dove se da un lato la partecipazione delle superstar Oneohtrix Point Never (“Warm Opening”) e Mouse On Mars (“It Isn't Necessarily The Case”) lascia certamente segni ben riconoscibili, dall’altro ciò nulla toglie all’opera di cesellatura e spazializzazione attraverso la quale i dei ex machina tengono le redini dell’ultimo, vorticoso miglio della maratona, con occasionali vedute ariose che guardano con riverenza alla trentennale svolta dei KLF di “Chill Out”.
Uno, nessuno e centomila, con “The Consuming Flame” i Matmos firmano il loro magnum opus postmoderno: un’accumulazione polimaterica a breve scadenza, consapevolmente provvisoria e imprendibile ma che, in un’epoca dove i manifesti non sono più scolpiti nella pietra, rappresenta comunque uno stoico autodafé espressivo, ulteriore riflesso di un’integrità artistica che non cessa di incutere rispetto e, soprattutto, provocare meraviglia.
10/09/2020
Cd 1 - A Doughnut In The Sky
Cd 2 - On The Team
Cd 3 - Extraterrestrial Masters