Non sono mai stato così lontano da casa, ti penso, ho guidato nell'oscurità, non ho una destinazione in mente, ed è un peccato che sia dovuto sparire, è l’ultima uscita
In queste poche parole Tessa Murray e Greg Hughes hanno racchiuso il loro nuovo racconto discografico. “Last Exit” è un testamento, anche se redatto nel pieno fulgore vitale e dunque lontano dall’ombra funesta della morte, un disco che sembra uscire da un incubo. Per chi è rimasto deluso dalla parziale svolta di “Slow Air” va purtroppo sottolineato che gli Still Corners non sono più quelli di “Dead Blue” e “Strange Pleasure”. Protagonisti e nello stesso tempo outsider del revival dream-pop, i due musicisti hanno tracciato uno dei percorsi più interessanti per in nostalgici di Cure e Cocteau Twins, gli stessi nostalgici che non si sono mai sentiti del tutto a proprio agio con i pur notevoli Beach House, o che pur amando la furia dei My Bloody Valentine hanno preferito trastullarsi con i Mazzy Star.
Il quinto disco degli Still Corners è un atto finale, per fortuna non in senso fisico, una narrazione tra le più aspre del duo, un progetto che consolida la nuova situazione logistica del gruppo. Come racconta la mitologia, l’americano Greg e la cantante inglese Tessa si sono incontrati a Londra a una fermata del treno, ma dopo tre album creati tra le fumose notti inglesi, hanno deciso di andare a vivere a Woodstock in cerca di nuove fonti d’ispirazioni, quelle già accennate nel precedente album “Slow Air” e che sono l’essenza di “Last Exit”.
Al singolo “Crying” è spettato il compito di traghettare definitivamente il dream-pop del duo verso questa nuova fonte di emozioni. Psichedelia e sonorità più tipicamente americane hanno infine contaminato l’ipnotico e atmosferico sound degli Still Corners, i synth sono ancora pulsanti e tenebrosi ma il fischio alla Morricone-western apre scenari diversi.
Tessa e Greg non hanno taciuto delle nuove influenze creative, Shadows e Bob Dylan in primis, il risultato è non solo interessante ma al di là delle possibili attese. Il flusso sonoro di “White Sands” è una delle migliori sceneggiature del duo, una colonna sonora immaginaria per un viaggio che resta magico come quelli trascorsi, ma più reale, vivido.
C’è il sapore del deserto e della polvere sul viso nelle soffuse trame di “Till We Meet Again”, un brano strumentale che dall’estasi elettroacustica si evolve verso un romanticismo noir, e non sorprendano i languori country-western alla Mazzy Star di “Static” e di “A Kiss Before Dying”: gli Still Corners hanno attraversato gli ampi spazi dei deserti americani e delle strade solitarie, le stesse che hanno ispirato Chris Isaak, Lana Del Rey e David Lynch.
La voce di Tessa Murray è sognante più che mai, anche ora che l’elettronica è stata in parte accantonata in favore di sonorità più aride, il suono della chitarra è limpido, ricco di riverberi ed echi al pari del miglior Ry Cooder (“Bad Town”).
In questo viaggio verso l’ignoto, gli Still Corners non sono soli, siamo tutti coinvolti, perché ognuno di noi ha gli stessi segni della sofferenza creata dal più lungo periodo d’isolamento sociale avveratosi dopo la Seconda guerra mondiale, un tragitto che il duo allieta con la stessa sensualità dream-pop di sempre (“Mystery Road”), accennando un moderno Easy Rider rivisitato con sonorità più energiche (“Shifting Dunes”) e inattese citazioni mainstream: il tocco alla Knopfler in “It's Voodoo”.
Per quanto abbia amato le scorribande dream-pop e synth-pop del duo, non riesco a contenere la mia adorazione per questa intelligente svolta degli Still Corners: è come se tutto quello in cui il gruppo ha finora creduto avesse finalmente trovato un senso: la fantasia è diventata realtà, il sogno una possibilità.
E’ dopotutto difficile immaginare una ballata più intensa dell’ultima traccia “Old Arcade”, la voce di Tessa non è mai stata così sensuale e coinvolgente (Hope Sandoval ne sarebbe fiera), e il delicato equilibrio tra chitarra acustica e tastiere di Greg non è mai stato così suadente e originale. Le melodie di “The Last Exit” sono le più potenti e schiette mai scritte dal duo e quest’ultimo viaggio è solo l’inizio di un nuovo interessante tragitto.
Il quinto disco degli Still Corners è un atto finale, per fortuna non in senso fisico, una narrazione tra le più aspre del duo, un progetto che consolida la nuova situazione logistica del gruppo. Come racconta la mitologia, l’americano Greg e la cantante inglese Tessa si sono incontrati a Londra a una fermata del treno, ma dopo tre album creati tra le fumose notti inglesi, hanno deciso di andare a vivere a Woodstock in cerca di nuove fonti d’ispirazioni, quelle già accennate nel precedente album “Slow Air” e che sono l’essenza di “Last Exit”.
Al singolo “Crying” è spettato il compito di traghettare definitivamente il dream-pop del duo verso questa nuova fonte di emozioni. Psichedelia e sonorità più tipicamente americane hanno infine contaminato l’ipnotico e atmosferico sound degli Still Corners, i synth sono ancora pulsanti e tenebrosi ma il fischio alla Morricone-western apre scenari diversi.
Tessa e Greg non hanno taciuto delle nuove influenze creative, Shadows e Bob Dylan in primis, il risultato è non solo interessante ma al di là delle possibili attese. Il flusso sonoro di “White Sands” è una delle migliori sceneggiature del duo, una colonna sonora immaginaria per un viaggio che resta magico come quelli trascorsi, ma più reale, vivido.
C’è il sapore del deserto e della polvere sul viso nelle soffuse trame di “Till We Meet Again”, un brano strumentale che dall’estasi elettroacustica si evolve verso un romanticismo noir, e non sorprendano i languori country-western alla Mazzy Star di “Static” e di “A Kiss Before Dying”: gli Still Corners hanno attraversato gli ampi spazi dei deserti americani e delle strade solitarie, le stesse che hanno ispirato Chris Isaak, Lana Del Rey e David Lynch.
La voce di Tessa Murray è sognante più che mai, anche ora che l’elettronica è stata in parte accantonata in favore di sonorità più aride, il suono della chitarra è limpido, ricco di riverberi ed echi al pari del miglior Ry Cooder (“Bad Town”).
In questo viaggio verso l’ignoto, gli Still Corners non sono soli, siamo tutti coinvolti, perché ognuno di noi ha gli stessi segni della sofferenza creata dal più lungo periodo d’isolamento sociale avveratosi dopo la Seconda guerra mondiale, un tragitto che il duo allieta con la stessa sensualità dream-pop di sempre (“Mystery Road”), accennando un moderno Easy Rider rivisitato con sonorità più energiche (“Shifting Dunes”) e inattese citazioni mainstream: il tocco alla Knopfler in “It's Voodoo”.
Per quanto abbia amato le scorribande dream-pop e synth-pop del duo, non riesco a contenere la mia adorazione per questa intelligente svolta degli Still Corners: è come se tutto quello in cui il gruppo ha finora creduto avesse finalmente trovato un senso: la fantasia è diventata realtà, il sogno una possibilità.
E’ dopotutto difficile immaginare una ballata più intensa dell’ultima traccia “Old Arcade”, la voce di Tessa non è mai stata così sensuale e coinvolgente (Hope Sandoval ne sarebbe fiera), e il delicato equilibrio tra chitarra acustica e tastiere di Greg non è mai stato così suadente e originale. Le melodie di “The Last Exit” sono le più potenti e schiette mai scritte dal duo e quest’ultimo viaggio è solo l’inizio di un nuovo interessante tragitto.
(22/01/2021)