Non è un album per cuori pavidi, il quinto dei Big Thief. E occorre sottolinearlo, non è di certo il disco migliore per avvicinarsi al ricco catalogo della band capitanata da Adrianne Lenker, tra le pochissime voci ad aver coniato di recente un linguaggio folk personale e riconoscibile. Che sia la volta della prima delusione? C'è chi non tarderebbe ad annuire, eppure passando oltre il primo impatto (obiettivamente spiazzante, per una band tenutasi sempre in minutaggi canonici) appaiono i contorni di un'operazione sì audace, ma condotta con la coscienza e la libertà di chi può benissimo permettersi di osare. Oltre gli ottanta minuti di durata, spalmato su ben venti canzoni, "Dragon New Warm Mountain I Believe In You" spariglia tutte le carte in tavola, propone una visione folk-rock certamente non ostile, eppure priva di coordinate precise, poggiata su un senso dell'avventura che non vuole conoscere freno. È così che le cose diventano davvero interessanti.
Ben più compatto nell'umore generale, allo stesso tempo molto più versatile nelle scelte sonore, il doppio album del quartetto sacrifica totalmente l'unità di taglio di un "U.F.O.F." o il carattere irruento del fratello "Two Hands", mostra invece una pletora di spunti che si diramano verso mille e più direzioni, esibendo pure un'inedita vena roots. Capita quindi di girovagare in lungo e in largo per un'America polverosa, di tentare di decifrarne i misteri attraverso i limiti del ricordo e della coscienza, di abbandonarsi ad essa, con tutte le difformità e le apparenti verosimiglianze che questo comporta. Anche a venir meno il cromatismo vocale di Lenker, l'intensità della sua scrittura è tale da fornire insomma impronte precise a ogni singola tappa del viaggio, in piena rispondenza con il bagaglio sonoro e la ricerca produttiva (gentile concessione del batterista James Krivchenia) sfoderati per l'occasione.
È solo un'illusione, quella che accompagna il rimando al fuoco domestico di "Masterpiece" nell'iniziale "Change": è solo l'apparenza di una consuetudine, la linearità di un tocco dolceamaro riscontrabile sin dagli esordi della band. Parte "Time Escaping", con quelle linee chitarristiche distorte e il tocco percussivo che riporta alle scorribande weird di inizio millennio (altezza Devendra Banhart/primi Dirty Projectors) e pare di trovarsi altrove, in fuga dall'abitudine, dalle sue soffocanti costrizioni, l'abbraccio elettrizzante della frenesia. E se "Spud Infinity", con tanto di violino sgangherato e zompettante didgeridoo, introduce i Big Thief ai costrutti del country, una ballata settantiana à-la Ry Cooder come "Certainty" certifica le qualità di una penna e di un comparto esecutivo a cui l'isolamento pandemico ha portato soltanto ulteriore finezza.
Non tutto funziona nella stessa maniera, d'altronde è questo il rischio in cui si incorre in simili testamenti: anche con un'eccessiva calligrafia nei momenti più americani del lotto (la "Red Moon" che apre il secondo disco pare quasi una riduzione hillbilly dei Waterboys) l'album riesce comunque a volare saldo sulle proprie ali, senza nascondere però le sue titubanze, il suo slancio comunitario.
Tra il febbricitante modernariato di una "Blurred View", tutta tensione elettronica ed ellissi liriche, lo stralunato andamento sintetico di "Wake Me Up To Drive", Lenker affina il gusto tutto suo di nascondere per poi svelare, esprime la sua forbita empatia con una ricchezza che sa essere colloquiale e vertiginosa allo stesso tempo. Se mai l'apocalisse dovesse arrivare, il calore espresso in "The Only Place" potrebbe esserne il migliore accompagnamento.
Spiazzante e contraddittorio, legato dalla sapiente mano di un'autrice emozionante, l'opus magnum dei Big Thief si ferma a un passo dal capolavoro, cementa però la parabola creativa di un quartetto di rara consistenza, ben disposto ad accogliere nuove sfide. Pura epica in minore.
21/02/2022