Quando l’11 ottobre 2019 usciva “Kitsch”, brillante singolo fra alternative r&b e rock solcato da un sardonico utilizzo di autotune e ficcanti chitarre in palm muting, sembrava che i Bilderbuch avessero definitivamente imboccato la via della stabilità artistica. Se l’inizio di carriera (tra il 2005 e il 2011) è all’insegna di un indie-rock veloce, vicino parente di quello britannico, la costruzione di una vera identità inizia con l'ingresso in formazione del batterista Philipp Scheibl nel 2012. L’Ep “Feinste Seide” del 2013, e i singoli “Spliff” e “OM”, nel 2014 preludono al botto di “Schick Shock”: primo posto nella classifica austriaca e numero 14 in quella tedesca, più vari rientri nel corso degli anni.
La miscela di r&b/rock à-la “AM”, rap di ultima generazione e una maestria chitarristica più unica che rara negli ultimi vent’anni di rock indipendente vengono filtrati attraverso una sensibilità prettamente europea, figlia di quell’art rock tedesco che vedeva in formazioni come gli Spliff (tributati non a caso nel già citato singolo) le punte di diamante. I successivi tre album spingono sempre più sul versante arty: “Magic Life” (2017) aggiunge agli umori di “Schick Schock” una sperimentazione sonora fuori dagli schemi, specialmente sulle chitarre, mentre la doppietta “Mea Culpa” (2018) e “Vernissage My Heart” (2019) trasfigura sempre più le influenze black già presenti, creando un ibrido jazzy-hip house-rock nel primo e uno noise-baggy-soul nel secondo.
Notevole, no? Quasi qualunque artista dopo aver conseguito traguardi così ragguardevoli, capaci di far viaggiare di pari passo ricerca musicale e riscontri di pubblico, sarebbe tentato se non di mollare il colpo, quantomeno di presidiare con solerzia il proprio trono regale. Così non è per il quartetto viennese: il 19 marzo 2021 viene rilasciato il singolo “Nahuel Huapi/Daydrinking” e il cambio di scenario è tanto estatico quanto spiazzante. Le ritmiche groovy, pressoché unica costante tra “Schick Shock” e “Vernissage My Heart”, spariscono, in favore di tempi in 4/4 dritti e rilassati, chitarre acustiche e un generale senso di musica ad ampio respiro.
Sembra quasi di essere immersi nei luoghi dove la band ha registrato una buona parte del disco, tra le vaste distese degli Stati Uniti (le tessiture di armonica che arricchiscono sotto traccia lo spettro sonoro) e quelle del Sudamerica, come suggerisce il titolo con il riferimento all’omonimo lago argentino. Anche dal punto di vista testuale, gli sbarazzini ammiccamenti sessuali passati fanno spazio a una dolcezza per lo più inedita fino a questo punto (”Ferite aperte da toxic relationships*/ possiamo parlare di tutto/ Io e te nudi a Nahuel Huapi/ È molto bello, baby, posso dirlo/ Le stelle sopra di noi ci rendono così felici/ Solo tu, io e il resto del mondo”).
Anticipato da altre sei canzoni, “Gelb ist das Feld” viene finalmente rilasciato l’8 aprile di quest’anno, e sin dalle prime note si ha un’epifania del nuovo corso: in “Bergauf” la chitarra acustica rimanda alle intuizioni battistiane di "Anima Latina" (con ogni probabilità intenzionalmente, vista l’ammirazione più volte testimoniata da Maurice Ernst e compagni verso il cantautore rietino). Sopra il serpeggiare quasi MPB della chitarra ritmica si staglia un assolo ben misurato a un passo dal country-folk, ad opera di un Michael Krammer perfettamente a suo agio anche lontano dalle saturazioni e dalle manipolazioni digitali di ogni tipo utilizzate nei dischi precedenti. In un crescendo accompagnato da overdubbing sintetici e fusioni vocali - sorprendentemente memori dei falsetti dreamy di Jonas Bjerre dei Mew - il brano fluisce in un vortice a un passo dal progressive rock, accompagnato da deliziosi tocchi di synth e pad da musica trance in grado di creare un’atmosfera sognante e spaziale.
“Dates” è più di altre canzoni una perfetta cartina di tornasole del cambio di paradigma: un indie-pop soffuso, dalle radici britanniche, ma che mostra nel suo refrain influenze quasi heartland rock, suggerite dal graffio di Krammer, per l’occasione anche alla voce. In effetti a voler rilevare il cambiamento più significativo, lo si può rintracciare nel mutato “colore” delle quattordici tracce, non più legate al “nero” (funk, r&b e derivati) ma a “bianchi” sentori, ora indie britannici, ora pop-rock a stelle e strisce, ora latini.
Tuttavia, non si fraintenda: non è che all’improvviso i quattro suonino come una sorta di copia carbone di Blossoms o War on Drugs, anzi. La grande conquista di “Gelb ist das Feld” è riuscire ad appropriarsi di stili ed estetiche finora non esplorate e farle proprie. Per centrare un obiettivo tanto rischioso è stata necessaria in particolar modo la personalità ormai debordante di voce e chitarra solista. In “For Rent”, ad esempio, la cura maniacale per l’effettistica delle chitarre, rimasta costante anche nel passaggio dall’elettrico all’acustico, e una stratificazione produttiva mai così ricca e attenta al dettaglio donano profondità a una canzone che altrimenti rischierebbe di suonare come un uptempo pop-rock già ascoltato infinite volte.
“Ab und Auf” attacca con uno strumming delicato di quattro accordi, tappeto a una delle prove vocali migliori dell’intera carriera di Maurice Ernst; mai come in questo caso il suo falsetto ha ricordato quello di Prince, da sempre fonte d’ispirazione primaria per la band tutta. “Baby, dass du es weißt” addirittura azzarda una prima strofa dalla grana puramente lo-fi, per poi tramutarsi prontamente in un jangle-pop cristallino, andando a comporre un ibrido assurdo tra la ripetitività vocale del trap-rap mitteleuropeo più attento alla musicalità e una ballata di soft rock postmoderno (si ascoltino le armonizzazioni corali e le ormai familiari chitarre soliste dai toni acidi).
C’è da scommettere sulla dimensione live di “Zwischen deiner und meiner Welt”, marcia trionfale che riporta in auge le saturazioni della chitarra elettrica, i cui riverberi - ancora una volta - mostrano le unghia affilate di Krammer, il vero mattatore dietro ciascuna delle svolte sonore della band. E c’è spazio anche per episodi decisamente più distensivi: “Blütenstaub" assimila certe pulsioni lo-fi che sanno di deserto e acid western; “La Pampa” assomiglia a un blues lunare - con tanti piccoli indiani radunati intorno al fuoco - e tra rintocchi di pianoforte, armonica e flanger in lontananza, si può timidamente provare a prendere sonno.
La title track, infine, avvolge il nastro attraverso un'atmosfera umbratile, dominata dalle pulsioni del basso e dalla batteria, mentre la chitarra di Krammer regala pennellate dai toni oscuri ma avvolgenti.
È un filo romantico, quello che lega le molteplici incarnazioni musicali dei Bilderbuch, un sentimento in costante tensione emotiva, collocato in modo tale da trovare la giusta concretezza nei colori e nelle forme brulicanti di questa musica, somigliante sempre più a un grande mosaico, in cui ogni canzone serve a incastrare la tessera successiva. Un quadro cosmopolita, meno sfumato del solito, la cui totalità delle componenti mostra il carattere istrionico della band viennese.
* Anche nel testo originale si riporta l’espressione “toxic relationships” in inglese. In tutto “Gelb ist Das Feld” si prosegue e si amplia la tendenza già inaugurata nei precedenti dischi di affiancare espressioni e frasi inglesi all’utilizzo della lingua madre tedesca
15/04/2022