L'artificio pop prosegue, per divertimento, per accompagnare l'esistenza propria e delle legioni di tifosi, dopo aver raccolto ricchi premi e cotillon, due anni dopo la release di uno dei loro lavori più significativi, forse mai così a fuoco dai tempi della breve stagione hitchcockiana. E così, nel bel mezzo di un lungo tour mondiale, ma di fatto soprattutto americano, tra passato e futuro, i Duran Duran festeggiano l'immancabile party di Halloween 2022 in quel di Las Vegas, mascherati in maniera grottesca, grossolana, esagerata e alle prese con una scaletta finalmente inedita, tra interpretazioni di tesori altrui e revisioni di propri. Un anno dopo, l'esperienza di quella serata si trasforma in un disco, con l'avallo di tre nuove canzoni, che non suonano proprio come riempitivi. La spinta per il sedicesimo passo della lunga carriera l'aveva di fatto offerta l'ufficializzazione del male (in)curabile dell'ex-Andy, l'annuncio a margine della grande festa di inserimento del marchio nella Hall Of Fame di Cleveland, tra gioia e tristezza, tra vita e morte, tra allegro e macabro, sinonimi e contrari che danzano insieme, da sempre la vera cifra stilistica degli antichi eroi del new romantic che fu e del romanticismo (inteso come movimento artistico, musicale, culturale e letterario sorto tre secoli or sono) che mai hanno tradito. Si aprano dunque le danze macabre, o dell'ironia della sorte, della sorpresa di fronte alla morte, omaggio alla Francia letteraria del medioevo, a un poema omonimo di Charles Baudelaire, a una composizione classica di Camille Saint-Saëns, al Settimo Sigillo di Bergman, a... un Halloween party. Un manuale di rifacimenti, quasi trent'anni dopo quel "Thank You" giudicato uno sfregio, un orrore, un peccato imperdonabile, uno scherzo di cattivo gusto. Un divertissement può aspirare a una lettura critica? Sì, purché nelle rivisitazioni non tradisca lo spirito originario del progetto, che si muove tra chiari e scuri, tra sorrisi e pose malinconiche, spesso mescolando con successo, nel breve volgere di qualche minuto, stati d'animo dicotomici.
Dopo l'aperitivo di fine estate a bordo di una title track, tra rap(ture), piatti "cantanti", tom possenti e un coro onirico, l'incipit dell'album è affidato alla spettrale "Nightboat", ripescata dal debutto ultra-quarantennale, rimodulata armonicamente e resa più epica ma non meno sinistra. L'occhio viene però subito rapito da una "Black Moonlight", travolgente danza dai ritmi frenetici, con basso pulsante e chitarre stoppate, il famigerato marchio dell'ospite Nile Rodgers, deviata per un istante da un break "riflessivo" classicamente duraniano che dona respiro e rende differente l'ennesimo numero disco-funky. Un incipit mellotroniano apre le porte al restyling dell'esotica ed erotica "Love Voudou", trent'anni or sono "Voodoo", guidata da un riff di basso contundente e stordente, un quattro corde pompato alto nel mix, quando tre decenni fa suonava invece sussurrato, quasi silenziato; il co-autore dell'epoca, Warren Cuccurullo, accetta di tornare sul luogo del delitto con un solo sibilante che sale piano ma senza remore, alla Masami Tsuchiya, "Oil On Canvas", stagione autunno/inverno 1982.
Cosa potrebbe accadere qualora un attempato gruppo di professionisti del pop decidesse di muoversi all'interno delle rime di un'adolescente? Una sorpresa, addirittura un evento, uno degli zenith del giocattolo, "Bury A Friend" di Billie Eilish, stravolta, preda assoluta della maestria vocale di Le Bon, colloquiale, corale, riflessivo, disturbato, mentre attorno scorre un ritmo singhiozzante eppure tuonante, con la linea di basso scura che sembra auto inghiottirsi e i synth che profumano di "Medazzaland".
"All'inizio sembravamo un incrocio tra Sparks, Moroder e Cerrone", disse un giorno un sincero Rhodes a un cronista intento a raccogliere le impressioni di un giovane neo-milionario: "Supernature", il più grande classico del batterista francese dedito al dancefloor, diventa una cavalcata senza freni, dai toni virili, graziata dal basso esplosivo di Taylor che sincopa a più non posso; a proposito, il bel John ha cambiato idea ancora una volta, ma si era già capito tra le righe di "Future Past": "Danse Macabre" si pone allo stesso livello dei primi due album, di "Notorious" e di "All You Need Is Now" come il lavoro più bassistico della sua carriera; le sue linee sono ovunque, eruttano, anche quando si affidano al dialogo melodico, come accade su "Secret Oktober 31st", in origine prezioso minuetto total synth risalente alle ultime ore di session di "Seven And The Ragged Tiger", che qui, con l'accompagnamento di un carillon ovviamente inquietante, assume i connotati di una ballad orchestrale che ne accentua la malinconia, anche grazie a un arricchimento armonico che offre spinta alla coda finale, ma anche nella conclusiva, e inedita, "Confession In The Afterlife", la quale, sarà per via delle sonorità scelte da Rhodes, memori dei "ringraziamenti" del 1995, suona come una curiosa e suggestiva prosecuzione della "Thank You" zeppeliniana allora reinterpretata.
John alza il livello anche di "Ghost Town": il suo groove presente e mai sbracato risolleva le quotazioni di un ritocco che poco aggiunge all'originale degli Specials, ma che sicuramente non rovina il capolavoro di Jerry Dammers (e continua a suonare profondamente britannico); e punkeggia (senza però dimenticare di aggiungere qualche ghost notes) sui ricordi indelebili di "Spellbound". Ed è sempre il rinvigorito Taylor del quattro corde a dare il via a una "Paint It Black" che terrorizzerà snob e nostalgici ma che si muove in un (in)credibile dance rock, con Le Bon che rallenta, frammenta, insinua, rilancia, coadiuvato da suono old style di Andy, vecchio cuore stonesiano (nonché protagonista un po' ovunque all'interno della scaletta); e ancora nel folle medley che unifica uno dei più bei tratti della carriera duraniana, "Lonely In Your Nightmare" alla gloriosa "Superfreak" di Rick James che irrompe paradossale e roboante.
E poi c'è Victoria, la biondina dei Maneskin, wanted dead or alive sui social italiani, chiamata dal solito John a collaborare su "Psycho Killer", scelta banale (?) ricostruzione clamorosa! Come mai i DD non hanno mai scartabellato nel repertorio degli idoli supremi Roxy? Detto fatto: i Talking Heads che escono fuori come un incrocio tra "Love Is The Drug" e "Kiss & Tell"; tre visioni differenti e comuni sull'eterna via dell'art rock.
27/10/2023