I libri non si giudicano dalla copertina, si dice. Ma i dischi? Nel caso di "Ce qui tourne dans l’air", farlo porterebbe sorprendentemente vicino a ciò che si prova anche ascoltandolo. Il titolo – traducibile come "ciò che volteggia nell’aria" – già suggerisce una sospensione, un galleggiamento percettivo. E l’ascolto conferma: un’esperienza di rapimento estatico, capace di distorcere la percezione del tempo, di dilatare un attimo fino a renderlo ora, di ridurre minuti a un puro respiro. È una fusione immersiva, in cui il naturale, l’artificiale, il magico e il trascendente si intrecciano in un equilibrio che è insieme sottile e sopraffacente. E in cui echi profondi della tradizione si amplificano grazie a processi che solo la tecnologia contemporanea può modulare con una simile duttilità.
Rimaneggiando materiali e sonorità del folklore del Québec francofono, l’ensemble canadese guidato dal chitarrista e manipolatore sonoro Sébastien Sauvageau si spinge verso la classica contemporanea, il nu jazz, la ambient music elettronica. Attorno a lui, un quintetto che non accompagna, ma plasma collettivamente con le sue improvvisazioni: Dâvi Simard (violino e podoritmie), Alex Dodier (sax, clarinetto basso, synth), Stéphane Diamantakiou (contrabbasso, basso elettrico e synth bass), Sam Joly (batteria e sintetizzatori).
Che esca per Ronin Rhythm Recordings — etichetta fondata da Nik Bärtsch e di solito orientata su autori svizzeri orbitanti attorno al suo universo di jazz minimalista — è già una notizia. E fa pensare a una profonda affinità fra il formalismo spirituale del pianista e le geometrie fluide dei canadesi, che tra le proprie influenze citano, oltre a Bärtsch, anche esperienze britanniche come Portico e The Gloaming.
Dopo la breve intro "˚∆ ~ Terre ~ Horizon", la title track apre il disco come un rituale circolare: minimalismo, groove discreto e inserti vocali recitati (a cura dell'ospite Erika Angell) paiono quasi evocare, senz'altro involontariamente, la purtroppo misconosciuta esperienza dei bolzanini Croma. Il brano si basa su "Le Capitaine", traditional della baia di Sainte-Catherine, alla foce del Saguenay, ma il riferimento non è didascalico: come le acque di un fiume giunto al mare, la fonte sonora si dissolve nel processo creativo, lasciando di sé solo una corrente sommersa. L’ibridazione tra tradizione, ciclicità minimalista e ambientazione cameristica ricorda l'ipnosi strumentale di progetti come quello del bretone Fleuves o la English instrumental trance teorizzata da Robin Denselow del Guardian, che nel 2018 usava questa espressione per descrivere esperienze albioniche come Spiro o Leveret.
Più avanti nell'album, "Ce qui s’écoule" viaggia su un ostinato in 7/8 contrapposto a una pulsazione reichiana, che rintocca sorda e regolare come un meccanismo sprofondato nella sabbia. Il contrabbasso scivola libero sulle frazioni di semitono, mentre i synth gocciolano suoni come rugiada: scintillanti, malinconici, eppure mai patetici. L’impressione è quella di una natura che travolge non con la sua potenza, ma con la sua semplicità assoluta: il pulviscolo luminoso di una cascata al sole, la bruma che sale tra gli alberi, il riflesso mobile di una foglia nell’acqua. Momenti che potrebbero passare inosservati, ma che — una volta colti — colmano e sciolgono, dissolvendo le barriere tra chi ascolta e ciò che lo circonda. Emblematico di una tensione che pervade l'intero disco, il brano genera un’impressione simile a quella suscitata dalla Hidden Orchestra: non tanto per stile, quanto per l’effetto percettivo complessivo.
"Ce qui constelle", costruito su una composizione della fiddler americana Lisa Ornstein ("Les Marionnettes"), gioca con un poliritmo 5:4 che sembra tenere il tempo solo per sé. Il violino e il clarinetto si inseguono, si sfiorano e scompaiono, in una danza leggera che sembra non dover finire mai. O durare solo un respiro. In effetti, sono poco meno di dieci minuti, ma potrebbero essere molto di più o molto di meno: il tempo, qui, si svuota di qualsiasi funzione lineare.
Con "Ce qui persiste" si entra in una zona più scura, elettrica, risonante. L’avvio, con rimbalzi sonori e panoramiche stereofoniche, potrebbe ricordare certi momenti sospesi dei dischi di Peter Gabriel ("IV", "Passion", "Us"), ma la traiettoria è differente. Il brano si sviluppa per dilatazioni e compressioni, con la batteria jazzata di Joly e i fondali cupi del clarinetto basso a guidare una materia sonora densa. Un ascoltatore attento ai Godspeed You! Black Emperor o ai Talk Talk potrebbe ritrovarsi a casa. Ma se da un lato si sfiora il post-rock più atmosferico, dall’altro si entra in una spirale più estatica, una sorta di "Bitches Brew" tradotto in chiave folktronica. Nessuna esplosione, nessuna catarsi: solo una corrente magmatica che persiste.
Rispetto al precedente "Habitant" (2019), doppio album ampio e ambizioso, "Ce qui tourne dans l’air" è più compatto e — in un certo senso — più integrato. Folk tradizionale, jazz, elettronica e modern classical non si alternano, si fondono. Non c’è un elemento che prevale, ma un'alchimia che li assorbe tutti. Il risultato è un’opera che non cerca un’identità stabile, perché la sua identità è la trasformazione stessa.
Un mormorio di voci ultraterrene si apre e sfuma lungo "Ce qui ne veut pas s’éteindre" — “ciò che non vuole estinguersi”. Conclusione perfetta per un album che, nell’arco di quarantatré minuti, cattura un frammento di eternità.
15/05/2025