Un po’ di storia
Quanto la vicenda dei Deep Purple sia stata movimentata è cosa ben nota, al punto da condurre loro stessi a titolare le fasi della loro carriera e i cambi di formazione con dei “marchi” (Mark). Quello che nella memoria collettiva rimane il marchio storico è nominato Mark II e vede la formazione dei loro album giudicati dalla critica mondiale in qualità di capolavori, ovvero “In Rock” (1970), “Machine Head” (1972) e il celeberrimo “Live In Japan” (ancora del 1972), considerato universalmente uno dei più significativi dischi dal vivo di tutti i tempi.
Una band che pur era partita nel 1968 con intenti ben educati, con quel “Shades Of Deep Purple” e “Book Of Taliesyn” ad abbracciare un repertorio fondamentalmente melodico, certo con rimandi blues ma anche con un evidente interesse per quanto i Beach Boys, i Beatles (in particolare e per ammissione), il Bob Dylan di “Blonde On Blonde”, i Pink Floyd di Syd Barrett, i Velvet Underground & Nico (e in Italia Le Stelle di Mario Schifano), Jimi Hendrix Experience, Frank Zappa & The Mothers of Invention, The Soft Machine, The Doors avevano fatto fino a quel momento, andando a rendere la forma canzone un atto creativo tout court, colorato con armonizzazioni desunte da tradizioni orientali, citazioni classiche, jazz, evoluzioni inaspettate nell’arco di brani anche di breve durata, sonorità ricercatissime, citazioni letterarie colte.
In breve… la musica popolare stava diventando un fenomeno di espansione culturale, linguistica e formale di proporzioni inaudite. Non era più solo concepita come musica per essere ballata ma anche per l’evoluzione “progressista” di coscienza e mente. Il linguaggio delle avanguardie visive nella pop art di Warhol e nel movimento Fluxus (arte performativa intesa come libero flusso di coscienza a fondere diverse discipline ma in modo dichiaratamente divertente, anche in azioni estreme) aveva avvicinato anche il nascente rock’n’roll che stava diventando “cosa seria”.
Tutti i musicisti dell’epoca furono chiamati a maturare un’identità massivamente distinguibile in termini di forma e sostanza, pena l’esclusione dalla grande occasione di entrare nell’Olimpo di un genere, “la musica popolare” che con il boom economico, la diffusione a basso prezzo di mezzi di riproduzione del suono (hi-fi, vinili, musicassette) era entrata nelle case di tutti con le poche televisioni di Stato, le radio e i club ormai centri di aggregazione culturale.
C’erano sì mode, ma iniziavano a contare elementi quali il contenuto dei versi di un brano, il “saper suonare/cantare” e in un modo inedito. Gli artwork delle produzioni discografiche erano curati da artisti di fama internazionale (pittori, fotografi, grafici). Si organizzavano happening multidisciplinari, per coinvolgere il pubblico in manifestazioni artistiche tali da “essere comunque un’esperienza”. Festival a basso costo coinvolgevano migliaia di giovani da tutto il mondo in concerti che duravano più giorni e con appena qualche ora di silenzio (qualora questo non fosse previsto concettualmente dalle composizioni stesse). C’era tutto da inventare, capitali per farlo e la gente desiderava questa cosa tantissimo.
Detto oggi, tutto ciò sembra una fiaba e anche sciocca, ma è storia. Ciò che è ben poco fiabesco è cosa si fece di questa possibilità. Qualcuno i mezzi culturali per cavalcare quest’opportunità li aveva, qualcun altro per nulla, altri avevano da studiare, molto e in fretta. Nell’immenso calderone di pubblicazioni discografiche che vi furono, c’è stato chi ebbe fortuna subito e a lungo, chi ebbe vita breve bruciata da eccessi, chi il successo lo ottenne 20-30-40 anni dopo, chi fu lodato e poi rinnegato o ampiamente ridimensionato col tempo. Troppa gente cadde nella trappola dell’esibizionismo di forma, qualcun altro in eccesso di austerità nella ricerca a fronte di pochi mezzi per dare a questa una credibilità.
I Deep Purple in tutto ciò ebbero poche ma buone intuizioni e seppero farle fruttare al massimo. Di certo, all’inizio suonarono alle orecchie di molti assai naive, poi pretenziosi quando scelsero di proporsi con un “Concerto per Gruppo e Orchestra” a firma del loro tastierista Jon Lord, opera che davvero non aveva sostanza a sufficienza, se non in rarissimi tratti, per poter lasciare il segno se non in qualità di esperimento avventuroso. Sapevano suonare ma non al punto da potersi porre sul piano di musicisti di estrazione classica e jazz e non erano certo “poeti” nella scrittura di liriche per i loro testi. Neanche campioni nel capire cosa le avanguardie attorno a loro stavano realmente combinando. C’era però qualcuno attorno a loro (Led Zeppelin, Jimi Hendrix, Iron Butterfly su tutti) che nel mentre aveva tentato un irrobustimento del suono blues in chiave assai elettrica, agguerrita, d’impatto, e in questo loro erano particolarmente capaci, probabilmente più degli altri. Sapevano esprimersi in “potenza di suono”, in impatto diretto. Pochi accordi, i loro, con qualche sofisticazione nelle trame di assoli di derivazione classico-barocca a far duellare chitarra elettrica e organo, armonizzazioni modali, riff granitici non di rado presi “in prestito” e mai restituiti a band meno conosciute e/o “rivali”, a leggende in ambiti distanti dal mondo rock (rispettivamente agli It’s A Beautiful Day, Warpig, Astrud Gilberto e Gil Evans e poi Led Zeppelin e molti altri).
La “voce Gillan”: un canto esteso e potente come il rombo di un aereo
Proprio con il loro “Concerto per Gruppo e Orchestra” del 1969 era entrato a far parte della band un tizio di nome Ian Gillan (estensione massima incisa D2-D6, nel 1979) che cantava anche nei musical. Uno che sulla base di nuove convinzioni nate nella musica popolare (Yma Sumac), classica e nel free jazz (Patty Waters), era convinto si potesse cantare “fuori registro” in qualità di “voce estesa” (“Nuova vocalità nell’opera contemporanea” l’aveva definita il mezzosoprano di fama mondiale Cathy Berberian, pur compagna del compositore Luciano Berio) e un certo Tim Buckley in America in quella direzione stava iniziando a fare faville. Lo faceva con due tecniche ad uso nei musical: il “belting” e il “voicecraft”.
Cos’è il “belting”? È una tecnica che permette di eseguire una parte delle note che normalmente cantiamo nel passaggio in aria (falsetto incluso) in voce di petto e dunque piena. Questo permette di mantenere potenza e brillantezza anche nelle note più acute, ma è una tecnica che richiede un grande sforzo fisico, perché il suo uso comporta l’impiego attivo di molta muscolatura del nostro corpo, andando a effettuare quello che in gergo si definisce “ancoraggio”. Non a caso, questa tecnica era in uso dei cantori gesuiti che invitavano a intendere i suoni più gravi sul tallone e la pianta del piede, quelli più acuti in punta. Andando ad eseguire “sirene” con questa tecnica e abbassando il mento, si riuscivano a raggiungere frequenze acute e ricche di armoniche ma di grazia solo se con adeguato abbassamento laringeo e morbidezza aritenoidea (come nel canto da male alto di Peter Hammill, non distinguibile da una voce femminile), cosa che a Gillan non è mai appartenuta.
Cos’è il “voicecraft”? Si tratta di una tecnica di profonda conoscenza dell’uso laringeo nel canto, ma che non intende la fonazione come “atto globale”. Viene spesso usata in supporto al “belting” a chiarire possibili conformazioni della bocca, delle gote, del setto nasale, della mandibola, degli occhi, delle sopracciglia e della fronte, nel canto, al fine di ottenere particolari sonorità e una voce più “estesa” e controllata nel fraseggio. Una tecnica originariamente impiegata solo nel musical e nelle interpretazioni pop, ma poi anche nel canto barocco. Il mezzosoprano Cecilia Bartoli ne fa uso da diversi anni, suscitando dissapori da parte di colleghi per via del fatto che questa tecnica abolisce ogni possibile arte scenica a coinvolgere il viso (ma anche petto e addome), portato ad assumere posizioni alquanto bizzarre e generando una vocalità “scarsamente organica nell’idealizzazione a scomparti del corpo in relazione al suono”. Il tutto in completo disaccordo con l’impostazione barocca tipica, che esclude ogni tipo di forzatura applicata alla voce e che ripudia anche ruoli lirici otto-novecenteschi (“il tenore di spinta”). Stessa cosa dicasi per il Metodo Funzionale di Gisela Rohmert, che invita a cantare solo in registro (con debita eccezione per falsetti deboli, flautofonie e “fry” accennati), in perfetto accordo con il proprio apparato fonatorio, senza la minima tensione corporea (neanche un dito di un piede o un sopracciglio attivati per errore) in un completo abbandono dove il suono, con portamenti estremi e gran cura di armonici, integra imperfezioni (stonature, presenza di muco su bordo cordale) e non cerca alcuna impostazione o intonazione perfette.
Quando Gillan incontrò queste tecniche, erano ambedue agli albori: è lecito considerarlo di conseguenza un vero e proprio pioniere in materia. Quanta consapevolezza ci fosse, dunque, nel suo canto in termini tecnici non ci è dato di saperlo. Il registro originario del cantante inglese era quello di baritono leggero (oggi bass-baritone che si rifiuta di cantare da basso) ma veniva chiaramente spinto fino a toccare frequenze tenorili con potenza non certo di grazia ma con ricchezza di armonici assai importante. Non solo, ben poco interessato alle frequenze gravi, il cantante puntava all’impiego del “falsettone rinforzato”. Con questa tecnica e citando in parte Franco Fussi in “La Voce Artistica”: “Gli interaritenoidei sono attivi, il triangolo d’insufficienza glottica non è più presente, il suono non è più velato (povero di armonici), e l’area glottica si chiude completamente a ogni ciclo vibratorio delle corde vere, si manifesta un abbassamento della scatola laringea (per induzione volontaria) che consente, tramite un incremento dei fenomeni armonici e per guadagno di spazio di risonanza, l'emissione di un suono più ricco e rotondo (la nota emessa va a trovare pienezza tramite l’impiego dei risuonatori alti, altrimenti rimarrebbe strozzata in gola) nel quale sono tuttavia facilmente riconoscibili le caratteristiche del falsetto (inteso come suono non del tutto assimilabile a quello di una voce femminile)”. Nel falsettone dunque non vi è “sfiato” (Giuliano Sangiorgi, Carmen Consoli, Moltheni), c’è impiego di poca aria nell’adduzione cordale, abbassamento laringeo indotto, tensione aritenoidea spinta.
A questo Gillan aggiunge ferrea tensione dell’addome nell’atto dell’appoggio e del sostegno del diaframma (come in certe tradizioni siberiane per il canto difonico) pur a vibrare assieme alle corde vocali, impiego dei risuonatori di testa. Il tutto al fine di ottenere urla isteriche e potentissime, a coprire registri di contralto, mezzosoprano e soprano (ripeto urlato, perché di base con questo canto Gillan è contraltista, “male alto” e non “male soprano” - come nel caso di Tim e Jeff Buckley per fare un esempio pratico - il suo è stato canto “di spinta” e dunque lesivo alla lunga), tenute in lunghi fraseggi vibrati dal suono argenteo ma a tratti “strappato”, non molto diverso da quanto fatto in materia da leggende del canto “black” come Screamin’ Jay Hawkins e Little Richard (“Lucille” fu rivista dai Deep Purple e non a caso).
Questo metodo da lui impiegato in “Jesus Christ Superstar” nel ruolo di Cristo nell’orto dei Getsemani fece furore a partire dal prima citato “In Rock” e nel brano “Child In Time” (in buona misura rubato agli It’s a Beautiful Day) che già a partire dal 1969 venne eseguito dal vivo nelle repliche del “Concerto” di cui prima, suscitando grande interesse.
Detto tutto questo, non è possibile muovere alcuna critica nei riguardi di chi usa o ha usato tecniche vocali definite eterodosse. Demetrio Stratos, Diamanda Galas, Lisa Gerrard (ma anche Kate Bush ed Elizabeth Frazer), Meredith Monk, Joan La Barbara, Bobby McFerrin, Phil Minton, Jaap Blonk, Catherine Jauniaux, Dagmar Krause con gli ultimi Art Bears, Roberto Laneri, Tran Quang Hai, John De Leo, Dalila Kayros, Coucou Sèlavy, Katya Sanna, Romina Daniele, Sajncho Namčylak, ad esempio. E poi Nicola Sedda e Georgia Brown, in questo caso signori da Guinness dei primati ricercati a tutti i costi in quanto a estensione e senza troppo badare a qualità timbriche. Questi sono oltre a tanti citati nel corso di questo saggio e tra un’incalcolabile schiera (a considerare solo quelli provenienti dalla Rassegna di Musica Diversa Omaggio a Demetrio Stratos si scriverebbe un’enciclopedia), “ricercatori vocali per eccellenza”, attenti a ogni suono emissibile o comunque a una gamma assai importante in quanto a polimorfismo di carattere e modi (non solo estensione), perché sono proprio questi pionieri ad aprire le porte a nuove possibilità che poi vengono introdotte anche nella musica pop, studiati clinicamente (così come i sopranisti Manzotti e Christofellis) e applicati alla musica classica contemporanea per via del lavoro di foniatri e logopedisti ormai esperti in materia (nonché spesso loro stessi cantanti) e in stretto contatto con compositori.
In quanto a “pop” vedasi e si ri-ascoltino in Italia i casi di Mina e certi suoi fraseggi da voce-strumento (“black” in particolare) vertiginosi (tra il 1968 e il 1980 in misura più estrema), Antonella Ruggiero, Giuni Russo (maestra assoluta e irripetibile nel canto di ricerca estremo applicato alla musica “leggera” per certa parte della sua carriera), Mango, Petra Magoni e ora Alberto Nemo. La stessa cosa vale per un fenomeno pop anni 80 come Klaus Nomi e il suo canto da male soprano applicato a un electro pop solo a tratti raffinato. Vedasi nel canto lirico l’esperienza di Laura Catrani e quella di Cristina Zavalloni. Tutto ciò senza contare i maestri di “growling”.
Esistono “poetiche” che esulano dal “bel canto”, in alternativa alle quali la musica e il canto si sarebbero fermati al 1900 (e lì stanno pian piano tornando) e come cantanti avremmo solo automi ai quali si continuano a preferire, a livello popolare almeno e pur nella lirica, cantanti ben poco “educati” come Luciano Pavarotti o Maria Callas che come dice la direttrice d’orchestra Beatrice Venezi “oggi non vorrebbe nessuno manco in un coro”.
Nota: leggenda tra tante vuole che un fan della band si prese la briga di registrare la voce di Gillan riprodotta dagli amplificatori e di misurarla in decibel, andando a rapportarla al rombo di un aereo in partenza. “A quale delle frequenze che un aereo produce durante le pur diverse fasi del decollo?”, verrebbe da dire. Tenendo conto che il rombo di un aereo raccoglie tra le frequenze umanamente udibili una gamma di armoniche che va al di sotto dell’ottava zero fino alla 9, verrebbe pur da affermare “complimenti alla marca degli amplificatori” (Vox AC30 e Marshall Major in buona misura). Un’altra racconta di un incidente alle corde vocali occorso durante il 1973, in seguito al quale fu chiamato un elicottero a portar via il cantante. A voi l’ardua sentenza per distinguere tra realtà e finzione: vedi "Child in Time" live, 1970.
Dagli anni 70 a “Perfect Strangers”
Un suono granitico poteva a questo punto essere generato dalla band senza aver timore di coprire frequenze vocali. Un suono “hard” o se vogliamo “heavy” e dunque “massivo” e dichiaratamente rumoroso (basti pensare alla fragorosa e puramente rumoristica introduzione di “Speed King” da “In Rock”). Bastava aggiungere a questo testi che raccontavano in maniera diretta di sesso, vite condotte fino all’eccesso, e viverle quelle vite, tra alcol e desiderio di successo, senza badare a regole di sorta, aggiungere al tutto una gran dose di narcisismo e di competizione anche all’interno del gruppo, ed ecco una miscela esplosiva, destinata a durare appena quattro anni, ma con un successo e un lascito enormi a livello globale.
Dissidi interni motivati da ragioni di ego al limite dell’infantile e con abbandoni del combo con lettere (nel caso dello stesso Gillan) alle quali non seguì alcuna risposta da parte degli altri. Tanti i cambi di organico a chiamare virtuosi di strumento e corde vocali (Glenn Hughes, David Coverdale, Tommy Bolin, Randy California e in futuro Steve Morse, Joe Satriani… tra i più famosi) fino a capire che quel Mark II era decisamente il modo migliore per far soldi (per la realizzazione di un disco con il marchio di successo furono offerti alla band dalla Polydor due milioni di dollari) e che forse era meglio metter da parte astii vari per un disco o magari qualcuno in più.
Il rientro al Mark II con “Perfect Strangers” del 1984 fu accolto dal pubblico in modo calorosissimo e portò la band inglese a tour ancora più fortunati che in passato, a vendite strabilianti, ma a un riscontro di critica ben poco unanime. Chi amava il metal (genere che ormai era al suo acme creativo) e dunque la critica “di settore” non badava granché a contenuti e sottigliezze, voleva ascoltare solo un certo tipo di suono, energia, tecnica e una buona produzione (da wall of sound), tutte cose presenti alla perfezione in questo album che dai fan fu considerato “uno dei migliori dischi di ritorno alle origini di tutti i tempi”. Chi si aspettava un rientro che non andasse a ricalcare in maniera calligrafica quanto fatto nei primi 70's e pur con una riduzione formale in chiave Aor (Adult Oriented Rock) evidente, rigettò il disco senza mezzi termini. In buona misura, infatti, in questo album i Deep Purple non fanno null’altro che ricalcare le proprie orme, andando a rubare a sé stessi giri armonici e linee melodiche (“Knocking At Your Back Door” non si capisce se è “Smoke On The Water” con un refrain preso dai Toto o cos’altro…), andando quindi ad agire male sulla “sostanza”, perché la forma nel disco è indiscutibile. Un’eccezione è rappresentata dalle bellissime armonie di “Under The Gun”, fosche e prodighe di modulazioni da tonalità minore a maggiore su un riff di organo tra intervalli cromatici, begli intrecci corali, assoli o fraseggi vorticosi o dal carattere sinfonico nel caso di Blackmore, d’interesse e tensione narrativa importanti.
Tutti i membri qui arrivavano da esperienze altre (Rainbow, Black Sabbath, Whitesnake, Gary Moore Band) che li avevano resi più maturi e dunque in grado di poter fare anche meglio che in passato. La tecnica di Blackmore era divenuta assai più interessante, a gestire intervalli distanti tra loro senza perdere smalto nel suo amato valore dato alla “velocità d’esecuzione” tra intervalli assai prossimi e terzinati; non solo, aveva acquistato in tocco, registri timbrici, uso della leva, eleganza, lirismo drammatico (“Wasted Sunset”), cose che i metal hero contemporanei (con i quali tecnicamente talvolta non poteva competere) spesso non sapevano manco cosa fossero.
Lord aveva introdotto suoni di synth e mini-Moog con i quali mostrava grande padronanza, pur non rinunciando al suo dichiarato amore per la musica barocca (J. S. Bach) e per il suono del suo Hammond, condotto a pura distorsione sonica. Paice aveva ricalibrato i suoni delle sue pelli su timbriche più acute, cosa in uso in quegli anni e pure aveva voluto usare break ritmicamente sofisticati senza più eccedere in velocissime rullate. Il basso di Glover aveva mantenuto solidità e a tratti acquisito un tiro funky.
Tutti migliorati, dunque, eccetto uno… il cantante. Se è vero che le “voci estese” vanno naturalmente incontro a una perdita di estensione con gli anni (in buona misura dai 40-50 anni in poi), ma se usate correttamente, in assenza di malattie importanti e con ausilio di supporti foniatrici e di logopedisti, possono ottenere ottimi risultati fino a 60 anni almeno, come gli altri della band ma forse anche più, Gillan non si era risparmiato in consumo di alcol, droghe, tabacco e tour ad effetto “surmenage” (sovraccarico di fatica), e la sua voce (come quella di Robert Plant, che era naturalmente un baritono dal registro più grave e poi Nina Hagen) ne aveva assai risentito, da giovanissimo, già dal 1973 (pur con qualche ritorno a una forma persino superiore nel 1979). Su “Perfect Strangers” il suo canto è assai, troppo nasalizzato. L’impiego di un’esasperata tendenza ad aprire il suono “lateralmente”, con bocca atteggiata a sorriso sgraziato ma spesso con mento portato in avanti, gli aveva sì permesso di conservare un registro baritonale anche spinto ma ormai assai acidulo, finto (poi in qualche modo emulato da Axl Rose pur con un’identità ben più estremizzata, laddove la nasalizzazione diveniva “stregonesca”).
Non solo, il falsettone era ormai ridimensionato di quasi un’ottava e soprattutto era divenuto sporco, poco potente, spesso con l’impiego di tanta aria nell’emissione fino a divenire “screaming” (“Under The Gun”) ma completamente afono (a dispetto della pienezza di armoniche in materia di un Mike Patton). In un solo brano (“Hungry Daze”) si cercano suoni più gravi, e sporcati dall’impiego anche di corde false (fry), che risultano davvero interessanti e degni di una possibile nuova cifra stilistica cavalcabile, ma non considerata, purtroppo. C’è però in un brano la capacità di lavorare su fraseggio in modo assai interessante e si tratta della title track, e di questa parleremo, per quanto sia proprio questo un brano in cui la “citazione” di “Kashmir” dei Led Zeppelin diviene a tratti importante, seppur gestita senza cadere nel plagio, idea che oggi non esiste più in epoca di “citazionismo sdoganato” (a nascondere l’incapacità di creare qualcosa di nuovo), ma che all’epoca creava fastidio in chi ascoltava e disagi legali a chi lo compiva.
“Perfect Strangers/Under The Gun” – Una nuova forma
Il brano che dà nome al disco è in tonalità di Re- per approdare nel refrain nella relativa tonalità maggiore, Fa. È in 4/4, ma il riff chitarristico che appare come “ponte/variazione” dopo il primo ritornello riserva sorprese, alternando ad esso un 5/4. A monte dell’introduzione per Hammond distorto che rievoca direttamente alcuni classici del combo dei primi 70 (“Space Truckin’” live 1972 su tutte) ma in chiave più epica e del canto che torna a insistere sui soliti Sol e La acuti da baritono spinto, già a 00’48 il brano introduce novità. La sequenza discendente di note dal Sol al Mi, come in una sorta di melisma arabo, richiama direttamente alla mente il brano dei Led Zeppelin prima enunciato (ma Plant in generale, si potrebbe citare pure “Achilles Last Stand”). Da 1’02 la cosa si fa sempre più evidente e da 1’09 a 1’17, non fosse che per una questione timbrica, la sequenza ascendente di ribattuti sincopati di Mi/Fa/Sol/La fino alla parola “past” sdoppiata con sovraincisione e immersa in quintali di riverbero con un portamento mediorientale verso frequenze più gravi, non fosse per il timbro, è puro marchio Zeppelin.
La sequenza della strofa si ripresenta parimenti una seconda volta con tra 1’51 e 1’54 su “all your life”, un’acciaccatura cromatica (Sib) della voce a richiamare Plant in modo più che calligrafico. La modulazione in maggiore da 2’01 è però cosa deliziosa e riprende alcune soluzioni pop dell’epoca con bei cori di grazia che abbandonano in nasalità a favore di un canto non dissimile da quello di Jon Anderson degli Yes in quegli anni (Aor) sulle sue frequenze medie. A 2’15 si ripresenta la modulazione in minore che fa pieno capolino con il riff granitico di chitarra a cui ho accennato più volte. Magnifico, senza dubbio, nonostante il citazionismo più volte riferito e qui in una chiave epic-doom. Roba che ha fatto scuola, ad ogni modo. Fa sorridere che sullo stesso riff, come a sottolinearne la derivazione, Gillan ritorni a cantare con vocalizzi arabeggianti. Si ricade su una strofa senza variazioni significative di forma e sostanza (a parte una battuta raddoppiata e un rapido lick/fraseggio di chitarra). Stessa cosa per ritornello e ripetizione di riff (questa volta ad libitum e in fade out) sul quale però in questo caso assieme a un paio di vocalizzi “gillaniani” si innesta un solo per sintetizzatore su scale arabeggianti di Lord su frequenze acute e assai evocativo. Per tutto l’andamento, la batteria marziale di Paice, ma con accenti magistrali ad alterare la percezione di “regolarità” del pezzo, sembra suonata dal compianto Bonham, ma con rotondità di suono assai ben ridotta, a vantaggio di un sound più sferragliante e metal. Il tutto con un andamento che lo spartito definisce “misterioso”.
Il testo abbandona l’immediatezza grezza di un tempo a favore di un racconto “epico”:
Sto restituendo la eco di un punto nel tempo
E brillano volti lontani
Mille guerrieri che ho conosciuto
E ridendo quando appaiono gli spiriti
Tutta la tua vita
Ombre di un altro giorno
recita la seconda strofa, come in uso in casa Iron Maiden ma pur raccontando di una storia d’amore conclusa, come il ritornello chiarisce, pur annunciando un nuovo ciclo della band:
E se mi senti parlare al vento, devi capire,
dobbiamo restare perfetti sconosciuti
Cos’è, dunque, “Perfect Strangers” in quanto brano? Un pastiche perfetto e sintetico tra anni 70 e 80 dell’hard rock, a fotografare per intere generazioni cosa il genere tutto (non solo i Deep Purple) abbia rappresentato prima delle derive estreme del metal.
C’è però nell’album un pezzo che fa storia a sé, un po’ come anticipato nelle prime note di presentazione, e si chiama “Under The Gun”. Passato completamente in sordina e per nulla considerato da fan e critica, il brano raccoglie ogni elemento che ha fatto grande i Purple che furono, senza far ricorso a idee altrui raccolte al fine di svecchiare la propria immagine e riesce pure a dire qualcosa di nuovo nell’ambito dell’hard rock grazie alla genuinità della creazione e a una scrittura raffinatissima, pur non sempre immediata. L’accordo iniziale, ad esempio, un Mi- che con l’impiego di una seconda minore (Fa naturale) più che una sensazione di “instabilità” ben si associa all’idea di un cupo incidere aggressivo e tipico del genere, ben sostenuto peraltro dall’Hammond distorto di Lord. Lo stesso accordo risolve ma non rapidamente, lasciando l’idea di un ostinato granitico e “sgradevole” a chi non è avvezzo alle armonie di primo 900 (più o meno chiunque), con un passaggio in Fa e poi in Sol.
Di suo, il canto propone una scala discendente dal La al Mi (con prima nota ribattuta) a dare una carattere non estraneo alla scrittura di Aleksandr Nikolaevič Skrjabin (1872/1915) più che a modi mediorientali di sorta (sarebbe il caso in materia di fare ricordare ai sostenitori degli Area International POPular Group quanto l’attenzione al Medio Oriente in musica fosse cosa ben integrata e trasformata nella musica classica da almeno 100 anni e nel rock d’oltralpe dalla fine degli anni 60 almeno). Il ripiego dell’armonia in Re comporta un frenetico “rock boogie”. La voce di Gillan, qui mantenuta su un registro acuto ma non sgradevole, tutta gestita su risuonatori acuti senza spinta ma con timbro aggressivo, roco a tratti, al minuto 1’15 raggiunge un ribattuto di Si scendendo con assoluta precisione su Fa e Mi con un intervallo di quarta diminuita di difficile concepimento nel rock senza avere una cultura classica alle spalle (Blackmore che pure il brano firma? O forse Jon Lord che non risulta firmatario per battaglie legali più che per autentica e possibile paternità del brano?). Ancora una volta i cori risultano di tradizione progressive e Aor (si è parlato prima di Yes e non a caso) ma tutto il brano è difatti una sorta di summa di quanto i Deep Purple hanno saputo esprimere nella loro fusione tra prog e hard di derivazione dal blues, “tradotto dai bianchi” in una formula imbastardita e più aggressiva.
Al minuto 1’47 il solo di Blackmore, che qui predilige un suono sporco ma senza rinunciare a un tono epico. Al minuto 2’17 una sorta di apoteosi, con un primordiale “blasting” (battito a raffica, in uso nel metal estremo ma ben anticipato nel jazz decenni prima da Tony Williams con Miles Davis, ad esempio, come filler, ovvero riempitivo in mezzo a un fraseggio di passaggio, a sottolineare la fine o l’inizio degli assoli di musicisti) di Paice su tessitura ritmica frammentata. È un momento assai importante per l’epoca, in cui i Mayhem ancora non erano nati ma che proprio a passaggi come questo fecero riferimento per coniare una propria cifra. Non è un caso che qui compaia pure uno “screaming” primordiale di Gillan a mescolare corde false (in gran compressione) e vere su un Si acuto inteso in una sorta di slide/glissato/portamento discendente. A coronamento il Bpm si dimezza e inizia un “solo” di chitarra dal carattere sinfonico tardo-classico/romantico a chiamare in causa nell’andamento gli amati Vivaldi, Bach, ma nel risultato i compositori russi, Modest Petrovič Musorgskij e certo suo trionfalismo, su tutti. Si riprende con strofa, ritornello e nuovo “solo” chitarristico conclusivo in fade out ancora più ispirato e tra i più belli della carriera di Blackmore tutta.
Da sottolineare come la stereofonia nel brano sia stata impiegata con dovizia assoluta a trattare il panpot (rimbalzo di suoni da un canale all’altro) in modo eccellente dal produttore del disco, Roger Glover.
E il testo? Di certo non ha attirato amicizie tra i proseliti del “christian rock”… Recita, ritornando a temi pacifisti espressi in modo machista ma “sensibile” già in passato:
Ci viene ordinato di morire o prendere questa terra,
stupidi bastardi e fanatici della religione,
così al sicuro nelle loro fortezze del castello.
Si voltano come una madre piange sotto la pistola.
Quando gli uomini coraggiosi cadono sotto cieli cremisi
c'è una tristezza riflessa negli occhi di un soldato.
Le lacrime si asciugheranno per quelli che uccido.
Non ricordare più i loro nomi, ma qualcuno lo farà,
è l'unico modo per vincere.
Fanculo gli sciocchi che pensano che ciò sia glorioso,
Chissenefrega di quelli come noi, sotto la pistola
Forse non un’opera letteraria, ma certo la sintesi di un pensiero e di un’attitudine del periodo. Oltre a quanto scritto nella tante volte citata “Child In Time” in cui c’era un “uomo cieco che stava sparando al mondo davanti agli occhi di un bambino che osservava la linea disegnata tra il bene e il male, il buono e il cattivo”, il ricordo va “The Knife” dei Genesis e a “R.I.P.” del Banco del Mutuo Soccorso.
Cosa racconta dunque “Under The Gun”? Che di certo non è il valore attribuito alla musica nel solo tempo in cui viene pubblicata a renderla importante, bella o brutta, ma che molto spesso un’analisi retrospettiva può riservare sorprese assai grandi e qui è il valore della critica musicale (la riscoperta di Bach nel Romanticismo e di Gesualdo da Venosa a metà Novecento, dopo secoli di “dimenticanza”) quanto dello studio della musica, tutta, d’ogni genere e latitudine.
E il disco nella sua totalità com’è? Bello o brutto? È storia, che piaccia o no.