Gary Moore

Gary Moore

Il chitarrista solitario

La saga del grande chitarrista nordirlandese, dalle partecipazioni a band come Thin Lizzy e Colosseum agli incontri con leggende del blues e agli svariati progetti solisti. Sempre nel solco del suo inconfondibile stile, potente e genuino

di Mauro Vecchio

Gary Moore è decisamente nella personale lista dei primi cinque chitarristi che hanno avuto più influenza su di me, proprio lì con Jimi Hendrix, Eddie Van Halen, Stevie Ray Vaughan e Michael Schenker. Mi ha fatto letteralmente saltare le cervella sin dal primo minuto che l’ho ascoltato
(Kirk Hammett)

Il più potente, genuino, autentico chitarrista di blues-rock della sua epoca
(Jack Bruce)

Gary mi ha spalancato la strada, a me e a tanti altri chitarristi blues. Era una leggenda, un titano della musica e un uomo davvero gentile
(Joe Bonamassa)

 

Crescere a Belfast

 

Febbraio 1921. James Craig succede a Edward Carson al timone dell’Ulster Unionist Party (Uup). I suoi primi sforzi alla guida del partito sono per convincere il governo britannico a concedergli l’autogoverno, in modo da contrastare sulla scacchiera irlandese le mosse sempre più ardite dei cattolico-repubblicani. “Un sacrificio in nome della pace”, un parlamento a Belfast che nessuno vorrebbe davvero. Durante le prime elezioni politiche nel Nord Irlanda, Craig viene eletto alla nuova Northern Ireland House of Commons, diventa primo ministro e fiero sostenitore di un parlamento protestante a difesa della gente protestante. Non un bel segnale per la comunità cattolica, legata alla Repubblica e al partito Sinn Féin. Vengono dunque messe in atto misure discriminatorie da parte del movimento unionista, “non volutamente” al governo di Belfast, come ad esempio fornire agevolazioni a determinate aziende in cambio di voti. La tensione cresce negli anni esponenzialmente, mentre il mondo guarda al Nord Irlanda come a un luogo tetro, freddo e diviso.
In questo contesto, il 4 aprile 1952, nasce Robert William Gary Moore, in una famiglia protestante nell’area più leale alla corona inglese, East Belfast. Sua madre, Winnie Gallagher, è uno dei cinque figli nati da Margaret e Robert, che lavora alla Harland & Wolff, tra i tantissimi ingegneri che hanno contribuito alla costruzione del famigerato Titanic. I soldi non sono un problema nella famiglia Moore, anche grazie all’irresistibile spirito imprenditoriale del padre di Gary, Robert “Bobby”. Dalla vendita di giornali e libri all’organizzazione di concerti di musica popolare alla Queen’s Hall, Bobby Moore è un tuttofare. Ma l’apparente benessere è solo una facciata. I genitori di Gary si sono sposati nel dicembre 1951 solo perché Winnie era incinta del suo primo bambino, trasferitisi poco dopo a casa dei genitori di lui. Ma la madre di Bobby non è affatto d’accordo con un matrimonio costretto dal comune pudore, così caccia di casa Winnie che è costretta a trasferirsi al 9 di Frome Street dalla sorella Phylis, senza un soldo bucato.

Il piccolo Gary cresce comunque ricolmo di affetto, portato frequentemente dal nonno Robert a vedere le partite di calcio allo stadio. Cantante amatoriale, Robert insegna al nipote come suonare l’armonica. Qualche anno dopo, Bobby e Winnie riescono a tornare insieme, trasferendosi nel centro di Summerhill Avenue. Il giovanissimo Gary viene così iscritto alla Strandtown Primary School, dove subisce diversi episodi di bullismo a causa del suo aspetto fisico, grassoccio e poco attraente. Sono i primi tempi duri per il giovane Moore, sgridato continuamente dai maestri e con pagelle disastrose, soprattutto in condotta.
Le cose non vanno meglio a casa, dove il padre Bobby ha un carattere dominante e spesso violento nei confronti della moglie. Il suo rapporto con il padre è controverso, diviso tra rigidità e incoraggiamenti, soprattutto verso il cantare in pubblico durante una delle varie serate musicali alla Queen’s Hall. Un giorno, di ritorno dal lavoro, Bobby prende il figlio da parte e gli chiede se vuole imparare a suonare la chitarra, costruendogli addirittura un modello acustico a partire da un corpo marca Framus. Uno strumento enorme per un bambino di nemmeno dieci anni. La prima canzone che impara a suonare è “Wonderful Land” di The Shadows, senza nemmeno troppo sforzarsi. Il suo tutor lo rimprovera, “è tutto sbagliato”, così non ci pensa un secondo e decide di diventare un autodidatta.
In Gary si accende all’improvviso una luce abbagliante: suonare quella chitarra così grande rispetto alla sua statura è tutto ciò che importa nella vita. Inizia così a suonare senza sosta, all’aperto, canzoni di Elvis Presley, con l’accompagnamento dell’amico bassista David Fletcher. Il suo talento è subito cristallino, affascina piccole platee di compagni con il repertorio del Re e degli Everly Brothers. Una delle sue primissime esibizioni pubbliche è in occasione delle celebrazioni protestanti, il 12 luglio, in onore di William of Orange, pretendente al trono inglese che aveva sconfitto nel 1690 il re cattolico King James II.

È il 1964. All’età di dodici anni, Gary cambia grado scolastico, alla Ashfield Boys’ High School. Il suo rendimento non migliora affatto, odia matematica e persino lo studio della musica. Vuole solo suonare, nient’altro. Gli episodi di bullismo per il suo aspetto fisico non sono finiti, così come le urla degli insegnanti: “Gary, cosa stai fissando? Stai pensando di diventare una popstar con una enorme chitarra rossa?”. Forse non in quel momento, ma non sembra esserci altro destino per un ragazzino cicciottello che riesce a replicare ad orecchio Segovia al primo ascolto. Bobby decide così di comprargli una chitarra nuova, una Lucky Seven Fender Squire con delle corde così grosse da sembrare dei cavi.
Per Gary è arrivato il momento di fare sul serio, è decisamente pronto per la sua prima band, The Beat Boys. Sulla scena musicale nordirlandese, alla metà degli anni 60, le radio non guidano le classifiche, l’industria discografica è indietro anni luce e la maggior parte delle band sono quasi delle orchestre che suonano pop e country. Le cosiddette showband sono poco remunerative per i musicisti locali, che si limitano a esibirsi nei pub e nelle numerose hall, come quella gestita da Bobby Moore. I ragazzi cresciuti a Belfast vanno però in una direzione completamente diversa, guardano agli States (Buddy Holly, Gene Vincent) o ancora di più verso Liverpool, la terra dei Beatles. Così la pensa anche Bill Downey, due anni più grande di Gary, che si è appena procurato una chitarra Hofner per iniziare a provare con lui ogni fine settimana. Ai due si aggiunge il bassista Bertie Thompson, seguito dal batterista Robert Wilkinson, entrambi musicisti alle prime armi. Sempre foriero di incoraggiamenti verso il figlio, Bobby compra un amplificatore Vox AC30 a cui si potranno agganciare tutti, mentre Gary si mette alla testa del gruppo per iniziare a provare canzoni dei Beatles come “She Loves You”. I Beat Boys si esibiscono regolarmente alla solita Queen’s Hall, una se non due volte alla settimana, arrivando a suonare al cinema Troxy davanti a quasi mille persone, con centinaia di ragazzine urlanti quando attaccano “I Can’t Get No Satisfaction”.

Con il suo vivace spirito imprenditoriale, Bobby Moore si “propone” come manager e promoter del gruppo, vestendo i quattro ragazzi con pantaloni bianchi e magliette arancioni, visto che è di moda l’uniforme per le giovani band inglesi. Ai Beat Boys si unisce anche Barney Crothers, con la sua voce sexy e il taglio alla Elvis per far impazzire le ragazzine già abbastanza surriscaldate. Questa scapestrata boy band locale suona insieme fino agli inizi del 1966, quando Gary decide che è meglio starsene rintanato in casa a migliorare con lo strumento, quasi perdendo improvvisamente interesse per le esibizioni live. Bill Downey, che nel frattempo si è unito a The Spartans, deve partecipare con la nuova band a un contest musicale e sa che con il giovane Moore le possibilità di vittoria si innalzerebbero e non poco. Con Brian Smith alla batteria, Brian Crothers al basso e il cantante Pete McLelland, The Spartans cambiano nome in The Barons. Nel frattempo, Gary è riuscito a convincere il padre a comprargli una costosissima Fender Telecaster, uno strumento praticamente mai visto in braccio a un ragazzino in una teen band nordirlandese.
Un momento cruciale nella prima vita artistica di Gary è l’estate del 1966, quando esce su etichetta Deram il seminale “Blues Breakers With Eric Clapton” – anche noto come “Beano Album” – che porterà il chitarrista di Ripley a diventare “Dio”. È il primo abbraccio che il British blues lancia a distanza verso Gary, quasi un segnale appunto “divino”: Eric Clapton è partito negli Yardbirds proprio da una Fender Telecaster amplificata da un Vox. “Eric ha trasformato e portato al blues la mia generazione più di chiunque altro”, dirà successivamente Moore in una intervista.

Procuratosi il disco da un amico, Gary quasi non esce più di casa, ossessionato dal sound elettrico della chitarra di Clapton nell’intro squillante di “All Your Love”. “La fine della mia adolescenza”. Seguendo l’esempio del suo nuovo idolo – che forma i Cream e ne diventa il leader assoluto nonostante la giovane età – Gary vuole che i Barons abbandonino lo stantio pop in stile Beatles per virare verso il blues britannico. All’alba dei soli 15 anni, Moore è già un fenomeno, strappando applausi increduli con i suoi assoli. Ma l’avventura con The Barons è ovviamente troppo breve, termina nell’estate del 1967.
Gary passa i mesi più caldi dell’anno nella zona costiera di Millisle, trovando un piccolo lavoro temporaneo al parco giochi sulla spiaggia, per iniziare a guadagnare qualche spicciolo. È qui che fa il suo primo incontro con la famiglia Hunter: Ian e il cugino Billy, che suonano rispettivamente chitarra e basso nella band The Suburbans. Il gruppo suona di tutto, dalle cover pop al country & western, mentre Gary non ne vuole sapere. Invitato a suonare, quando sale sul palco è chiaro a tutti che la sua chitarra è la cosa migliore di tutto il concerto. Non passa molto tempo quando propone a Billy di suonare in trio, come i Cream, perché non c’è affatto bisogno di una seconda chitarra solista.

The Suburbans diventano Life dopo l’addio del cantante Reggie Carson, che non ha intenzione di discostarsi dal pop. La nuova incarnazione della band si esibisce in un paio di club sulla costa, inserendo in repertorio brani come “Beck’s Boogie”, “Hey Joe” e “Crossroads”. “Era l’unico chitarrista da me conosciuto in grado di suonare Hendrix”, dirà Billy Hunter. “Il più grande chitarrista del Nord Irlanda”, recita lo slogan sulle locandine dei concerti locali. È un periodo felice, in piena adolescenza, a bere vino sulla spiaggia insieme a Ian e Billy, lontano dal grigiore e dalle tensioni di Belfast. Ma tutti i periodi belli hanno una fine nella vita, così arriva il momento di lasciare i Life e tornare in città, dopo qualche scazzottata post-concerto ed episodi di distruzione di palcoscenico in stile Pete Townshend.
Tornato a Belfast, Moore contatta i compagni di scuola Dave Finlay (batteria) e Colin Martin (basso) per formare un vero trio in stile Cream. I due accettano senza indugio per formare i Platform Three e iniziare a suonare nei vari club della città. Il nuovo gruppo vince un contest musicale locale e viene approcciato dal manager Bill Allen, colpito dal tecnicismo di tutti. Allen punta in alto e piazza il colpo: farli suonare al locale più prestigioso, il Maritime Hotel, dove ha suonato qualche anno prima Van Morrison con i suoi Them. Ricavato da una ex-stazione di polizia, il Maritime Hotel è la risposta irlandese al Cavern di Liverpool, sempre più frequentato dai giovani appassionati di blues. È qui che Moore incontra per la prima volta un altro giovane prodigio di Cork, Rory Gallagher, mentre Allen dice a entrambi: “Voi due diventerete delle star”.

Con Brush: Skid Row

 

All’età di 16 anni, Gary Moore decide che è arrivato il momento decisivo per abbandonare i mai tanto amati studi. Bisogna perciò trovarsi un lavoro, prima nel settore delle consegne a domicilio, poi nei magazzini della British Rail. L’esperienza con i Platform Three si interrompe bruscamente quando Dave e Colin gli comunicano che preferiscono continuare con i testi scolastici. Papà Bobby gli fornisce un ultimo consiglio: lasciare Belfast per inseguire un sogno. Un giorno, all’improvviso, una band di passaggio chiamata The Method gli offre il posto vacante di primo chitarrista e soprattutto un passaggio sola andata per Dublino. The Method nascono come band specializzata in blues e soul, con un approccio abbastanza tradizionale ai due generi. Prima Clapton e poi Gallagher fanno capire al songwriter Dave Lewis che bisogna cambiare direzione, energizzando il sound con l’ingresso di un chitarrista potente e di talento. Lewis già conosce Gary – hanno accarezzato senza successo l’idea di suonare insieme – prima di venire coinvolto in un grave incidente d’auto e rimanere fuori dai giochi a lungo. Il resto di The Method vuole andare avanti, perché ci sono diversi concerti da onorare, un tour irlandese che vede tra le principali tappe l’esibizione al Club A Go Go di Dublino.

Al contrario delle showband di Belfast e dintorni, la scena musicale di Dublino pullula di vita e generi musicali alternativi. Il centro nevralgico è nell’area attorno a O’Connell Street, dove hanno sede locali come Flamingo, Apartment, 72 Club e appunto Club A Go Go, che solitamente sceglie gruppi più duri. Tra questi ci sono The Method, con Gary Moore a sostituire Dave Lewis. Quando Frank Murray, roadie della band locale Skid Row, si avvicina al palco, capisce subito che quel sound così entusiasmante non arriva dalla solita chitarra di Lewis, ma da un ragazzino capellone che volge le spalle al pubblico per suonare attaccato al suo amato amplificatore. Alla fine del concerto, Murray si precipita da Brush e lo avverte: “C’è un ragazzino al Go Go e quando finisce il concerto, dobbiamo andare a dargli un’occhiata”.
Brush è Brendan Shiels, nato a Dublino nel 1946 con un futuro già scritto da calciatore professionista. A diciotto anni, nel 1964, firma un primo contratto con il club Bohemians, ma si ritrova quasi per caso ad ascoltare un disco di Oscar Peterson intitolato “Night Train”, dove suona il bassista Ray Brown. È il classico colpo di fulmine: Brendan decide che non calcerà mai più un pallone in vita sua, devoto al suono del basso. Shiels si concentra così sulla musica, entrando in diversi gruppi di country & western prima di abbracciare il soul in The Uptown Band, gestiti dal banchiere Ted Carroll. Tra i primi manager a insistere su gruppi beat nell’area dublinese, Carroll viene licenziato dai suoi stessi protetti a causa di vecchi dissapori. Così il manager chiede a Brush se vuole seguirlo e fondare un gruppo tutto suo, su una strada sonica del tutto diversa. Shiels accetta e contatta per primo un suo vecchio compagno chitarrista, Bernie Cheevers, poi il cantante Peter Adler e il batterista Noel Bridgeman, vicino di casa della sua ragazza. Adler viene subito rimpiazzato alla voce dallo stravagante e carismatico Philip Parris Lynott, nato nel 1949 dall’amore fugace tra Philomena, ragazza irlandese, e Cecil Parris, arrivato in Europa dalla Guyana. Lasciato ai nonni materni, Philip non soffre alcun pregiudizio nel ritrovarsi a scuola con una pelle mista, mostrando sempre grande spavalderia e spirito alternativo da appassionato di musica come quella dei Cream e di Hendrix. Entrato come cantante nei Black Eagles, Lynott si fa notare nei vari club di Dublino, prima di ritrovarsi a spasso nell’estate del 1967. Mentre riflette sul futuro, viene avvicinato proprio da Brush che gli chiede di cantare “Hey Joe”.

Con il nome di Skid Row – dal sassofonista Alan Skidmore assoldato nel “Beano album” – Brush e compagni iniziano a provare nel settembre 1967, con un repertorio beat che parte da Eric Burdon, passa per i Beatles e finisce con Hendrix. Complice un’attività live di tutto rispetto, il gruppo si guadagna in pochi mesi una grande popolarità, fino all’addio improvviso di Cheevers, che decide di seguire il suo percorso professionale alla Guinness. Quando si precipita a parlare di questo ragazzino misterioso che sta suonando al Club A Go Go, il roadie Frank Murray non potrebbe scegliere un momento migliore. Brush resta di sale quando ascolta un sedicenne suonare tutto Blues Breakers nota dopo nota, non può farsi proprio scappare Gary e la sua chitarra. Moore ha tuttavia le idee molto chiare, vuole suonare il blues e gli Skid Row fanno beat. Inizialmente rifiuta l’offerta, pur sapendo che l’avventura nei Method sarà breve e che non ha alcuna intenzione di tornare a Belfast. La sua famiglia lo rivuole a casa, così Gary decide di chiedere consiglio a Bill Allen: il manager è scettico, ma sa benissimo che la scena di Belfast è troppo piccola per lui. A fare l’ultima mossa è proprio Shiels, che incontra Bobby Moore e gli promette che si prenderà cura in prima persona del giovane Gary.

Con Moore alla chitarra, gli Skid Row possono compiere il definitivo salto di qualità, abbandonare il semplice beat e le cover di brani altrui. La consacrazione di band come Cream e Jimi Hendrix Experience portano Brush e Phil a lavorare su canzoni originali, sapendo di avere a disposizione un altro virtuoso dello strumento. Il primo brano provato negli studi improvvisati del Television Club di Dublino è “Photograph Man”, sulla scia psichedelica di Sgt. Pepper’s. Il manager Ted Carroll lo fa ascoltare alla Apple Records ricevendo un sonoro due di picche. Brush lo porta all’attenzione di Philip Raymond Solomon – che gestisce gruppi come i Them e The Dubliners – senza successo. Se il primo singolo non vede la luce, il secondo tentativo, “New Faces, Old Places” viene adottato dall’etichetta Song, gestita dall’avvocato Joe Coughlan insieme al musicista Donal Lunny. Il brano, un canto dolcissimo di Lynott su un fingerpicking di folk pastorale in stile Buffalo Springfield, è accompagnato in B-side da “Misdemeanour Dream Felicity”, la prima prova compositiva di Gary che suona la sua 12 corde in un beat-jazz spiazzante in 5/4.
Il singolo non solletica le classifiche, ma c’è un problema più urgente: Phil ha problemi alla gola e deve operarsi. Brush capisce che non c’è altra opzione: se si vuole competere con i Cream, deve allontanare l’amico Lynott. Phil è disperato, ma Shiels gli propone di insegnargli a suonare il basso, permettendogli di tornare quasi subito in pista con una sua band, gli Orphanage.

Entusiasta della nuova vita dublinese, Gary non può dire altrettanto della sua situazione economica: con gli Skid Row c’è tanto lavoro, ma le 15 sterline a settimana pattuite con Brush non arrivano mai. Moore vive alla meno peggio insieme a Lynott e Johnny Duhan, voce solista nella band Granny’s Intentions, fondata come gruppo soul nel 1965 e poi protagonista nella rivoluzione psichedelica grazie alla spinta del manager degli Who, Kit Lambert. Senza un soldo, Moore è costretto a dormire per terra in un sacco a pelo, mentre Phil gli prepara la colazione ogni mattina.
Alla metà del 1969, i Granny’s Intentions stanno lavorando alla registrazione del loro disco di debutto, “Honest Injun”, quando il chitarrista John Hockedy lascia la band all’improvviso. A rimpiazzarlo temporaneamente è proprio Gary, che contribuisce alla produzione di otto tracce sulle undici totali, a partire dalla ballata country “We Both Need to Know”. L’estrema versatilità di Moore permette alla band di Limerick di concludere alla grande le sessioni per l’uscita del disco nel marzo 1970, tra un beat psichedelico a metà tra Who e Bob Dylan (“Good Eye”), un waltzer tra western e swing (“Susan Of The Country”) e numeri di puro blues (“Fourthskin Blues”). A soli 17 anni, pur partecipando al suo primo album solo da ospite, Moore ricama musica come pochi altri, trasformando un ottimo brano di psych-folk come “Rise Then Fall” in una straordinaria elegia oscura.

Il 1969 corre veloce a Dublino, piena di gruppi tra folk e psichedelia più o meno spinta. Moore è sempre meglio conosciuto in città, mentre prova le sue prime esperienze con le droghe lisergiche e perde la verginità con la sua prima ragazza, Sylvia. A dicembre gli Skid Row diventano di fatto il gruppo più popolare d’Irlanda, aprendo un concerto dei Fleetwood Mac al National Stadium di Dublino. L’esibizione di Gary è fenomenale, tanto che Peter Green – il suo nuovo idolo – chiede di incontrarlo in albergo per una jam privata che dura fino alle sei del mattino. “È il miglior chitarrista con cui io abbia mai suonato”, dirà in una intervista successiva, mandando Moore fuori di testa. L’incontro con Green è un bene per tutta la band, perché il chitarrista inglese suggerisce al manager dei Fleetwood, Clifford Davis, di scritturare gli Skid Row per l’etichetta Cbs. Davis manda a Dublino il suo produttore Mike Smith, già coinvolto in numerose hit da classifica ma anche noto come l’uomo che ha scartato i Beatles dopo l’audizione per la Decca nel 1962. La Cbs vuole registrare alcuni brani demo della band, provando a superare il flop commerciale dei singoli per la Song – l’ultimo formato dal soul-beat “Saturday Morning Man” e dal sinuoso pop-jazz “Mervyn Aldridge” – e ovviamente puntare sul talento in continua ascesa di Gary.
Nell’aprile 1970 esce il singolo in due parti “Sandy’s Gone”, ballata in bilico tra country e rock in stile The Band, che vede il primo grande assolo di Moore a una chitarra letteralmente in lacrime. Terminate le sessioni con Smith, la Cbs pubblica il disco “Skid Row” a maggio, ma la band ordina subito dopo di ritirare tutte le copie per lavorare meglio i brani e ri-registrarli con maggiore calma.

Se Gary Moore ha lasciato Belfast per inseguire la fama da musicista professionista, gli Skid Row devono lasciare l’Irlanda se vogliono fare il grande salto con un album di debutto alle porte. La band si trasferisce così a Londra, dove si esibisce alla Roundhouse mentre lavora senza sosta al rifacimento dei brani già registrati con Smith a Dublino. Prodotto dallo stesso Clifford Davis, Skid esce nell’ottobre 1970 e centra il bersaglio, arrivando nella Uk Top 30 in brevissimo tempo, spinto in particolare dal famoso dj John Peel. L’isterica “Mad Dog Woman” è il manifesto del nuovo corso, avviluppata sulle trame sincopate di basso, il canto balbuziente e il nuovo approccio da guitar hero di Moore, che velocizza il suo virtuosismo su insistenza di Shiels. Il riferimento principale è ovviamente il sound heavy dei Cream, con Brush che imita il timbro di Jack Bruce in “Virgo’s Daughter”, mentre Gary si concede una delle sue amate scale blues nella galoppante “Heading Home Again”. Anni dopo sarà lo stesso Moore a criticare la decisione di registrare nuovamente i demo incisi con Smith, puntando il dito contro una eccessiva frenesia non troppo nascosta in brani hard-blues come “An Awful Lot Of Woman”.

Ma gli Skid Row hanno forza da vendere, consci di essere l’unico trio irlandese in risposta ai grandi d’Albione. L’urlo della chitarra sul finale di “Unco-Up Showband Blues” è di quelli impossibili da ignorare, mentre la cavalcata “For Those Who Do” è come una jam impazzita in sinergia totale con basso e batteria. Se il disco non è perfetto, volendo seguire il giudizio dello stesso Moore, è proprio a causa di una certa frenesia elettrica a volte disturbante (“After I Am Gone”), ma brani come l’eclettica “The Man Who Never Was” e la prima composizione del solo Moore, la chilometrica “Felicity”, sono il battesimo del fuoco del giovanissimo talento nordirlandese.
Spinti da Peel, gli Skid Row suonano per la Bbc e poi in tour in alcuni club e college del Regno Unito. A seguire, cinque date in Danimarca a supporto dei Canned Heat, organizzate dalla Cbs per festeggiare l’entrata del disco nella classifica locale di Music Week. Ma la vera e grande notizia è lo sbarco imminente della band negli Stati Uniti, accoppiata da Clifford Davis ai Fleetwood Mac. Per i tre ragazzi irlandesi è un sogno ad occhi aperti: con un budget di 5 dollari al giorno, tra alcol e droghe, il trio parte con una residenza di cinque notti al celebre Whisky A Go Go di Los Angeles, insieme al gruppo soul-funk Pollution. Al Fillmore West di San Francisco vanno in scena insieme ai Mothers of Invention di Frank Zappa. A seguire, Chicago con i Ten Years After e Detroit con gli Allman Brothers e gli Stooges.
Più che di successi, il tour americano è pieno di marijuana, che porta Moore a diversi attacchi di panico. Brush, notoriamente dedito alla sobrietà, è furioso. Il concerto finale al Fillmore East di New York è cancellato, la band torna a casa con un volo da Boston. Il 26 dicembre 1970, boxing day, gli Skid Row si esibiscono a Belfast, uno dei rari ritorni in patria di Gary dopo la partenza per Dublino con i Method. Quando varca la soglia di casa a Castelview Road, Moore è in shock: scopre che il padre è in ospedale per trattare una sempre più forte dipendenza da alcolici, che ha nel frattempo causato la definitiva rottura con Winnie, trasferitasi dalla sorella Ellen con gli altri figli. Come se non bastasse, arriva poco dopo un altro imprevisto, perché Sylvia è incinta da quattro mesi.

All’alba del 1971 Gary e Sylvia si trasferiscono in un nuovo appartamento a East London con Paul Scully e Frank Murray – i due roadie degli Skid Row – per preparare al meglio la nascita della piccola Saoirse, prevista a maggio. Ma in questi mesi c’è da preparare anche un’altra cosa importante, il secondo disco del trio ancora una volta sotto la supervisione di Clifford Davis insieme all’ingegnere del suono Martin Birch, che ha lavorato negli anni con Deep Purple, Black Sabbath, Iron Maiden e Rainbow.
Intitolato 34 Hours perché registrato proprio in 34 ore, l’album esce in estate e include brani più lunghi che per certi versi esasperano quella frenesia sonica già presente in Skid. A partire dai quasi dieci minuti di “Night Of The Warm Witch”, che inizia con una vena progressive prima di lanciarsi in un turbinio di hard-blues tra vocalizzi sgraziati e una sezione ritmica al fulmicotone. Che a Shiels non importi un fico secco delle fortune commerciali del suo sound è evidente: composizioni come “First Thing In The Morning” sono come delle bozze suonate a cento all’ora in nemmeno due minuti, mentre “Mar” scavalla i sei con la stupenda chitarra di Moore che vira verso il formato ballad tra country e rock.
In generale, 34 Hours presenta più jam totalmente improvvisate che veri e propri brani, come ad esempio gli otto e più minuti di “Go, I'm Never Gonna Let You”, che incorpora un gusto “sinfonico” alla miscela di riff e ai primi effetti wah-wah di Moore, da esperienza di Birch con band come Black Sabbath e Deep Purple. Dopo un evitabile nuovo numero country (“Lonesome Still”), il roboante finale “Love Story” in ben quattro parti spalmate in cinque minuti.
Il disco viene accolto bene dalla critica, che tuttavia non può ignorare un pervasivo senso di stranezza, abrasività e confusione nel sound della band. Non per forza un male – gli Skid Row se ne fregano di piacere a tutti i costi – ma 34 Hours non è un ascolto per tutti e infatti vende pochissimo.

Dopo l’uscita del secondo disco, la band si imbarca per un nuovo tour nordamericano che parte dal Canada, dove suona da headliner, per proseguire sulla West Coast fino ad arrivare nuovamente al Whisky A Go Go. Nello storico locale losangelino si intravede tra gli spettatori gente come Rod Stewart, Robert Plant e John Bonham, che addirittura salgono sul palco per una jam improvvisata: gli Skid Row che suonano con i Led Zeppelin! Ma è tutta apparenza, perché la Cbs non paga gli alberghi e non ha minimamente supportato il gruppo a livello di promozione commerciale. Diverse date vengono cancellate all’improvviso per mancanza di biglietti venduti. Il tanto tempo libero porta ovviamente Gary a consumare sempre più droga, provocando l’ira di Brush, che viene ormai percepito come un dittatore all’interno del trio.
Tornata a Londra, la band si mette comunque al lavoro sul terzo disco, registrando sette tracce che non vedranno mai la luce. Il problema è evidente, tanto che sarà lo stesso Brush ad ammetterlo anni dopo: troppe influenze, troppa sperimentazione, una direzione non chiara. Oltretutto c’è un rapporto sempre più complicato tra Shiels e Moore, che sente dentro un turbinio di pensieri e fantasmi. Nel dicembre 1971 arriva la decisione definitiva da parte di Gary che ne parla prima con Bridgeman, in stato di shock. Il confronto arriva anche con Shiels, che accetta malvolentieri l’uscita dal gruppo del suo chitarrista principe, nonostante i dissapori caratteriali. A nemmeno vent’anni, Moore è pronto per il grande salto.

The Gary Moore Band

 

Uscito dagli Skid Row, Moore viene contattato in privato da Clifford Davis, che gli propone un anticipo monstre di quasi 30mila sterline per formare una band tutta sua. Gary torna a Dublino per reclutare nuovi musicisti, avendo però già scelto un secondo chitarrista negli Stati Uniti, Chuck Carpenter, innamorato del sound degli Allman Brothers che vede la presenza contemporanea di due guitar hero quasi gemelli. Su consiglio di Phil Lynott, Moore assolda il batterista di Belfast Pearse Kelly, seguito dal bassista Sam Cook, vecchio amico d’infanzia. Per amalgamare il gruppo ed evitare i pub cittadini, Clifford Davis decide di spedirli nella sperduta campagna irlandese, a County Mayo, prima di farli tornare a Londra e partire agli inizi del 1972 per un primo tour in Germania, con l’aggiunta del tastierista Jan Schelhaas.
Emergono subito grossi problemi: Carpenter ha problemi di visto e viene “invitato” dall’immigrazione a tornarsene negli States, mentre Sam Cook non convince lo stesso Moore. Viene così assoldato temporaneamente il chitarrista Nick Pickett, poi sostituito da Philip Donnelly – che ha lavorato in tour con Donovan – insieme al nuovo bassista Frank Boylan. Con questa formazione partono le sessioni di registrazione di un primo album a nome Gary Moore Band, nel tentativo (subito riuscito) di strappare un accordo con la Cbs. Nel dicembre 1972 l’etichetta compra per loro una serie di nuovi strumenti, tra cui un organo Hammond e un nuovo amplificatore per Gary.

Le prove si svolgono al Ginger Johnson’s Iroko Club di Londra, con sedute sfiancanti comandate da Moore alla guida del gruppo. La definitiva registrazione del disco viene supervisionata ancora da Martin Birch ai George Martin’s Air Studios, ma la tensione sale vertiginosamente dal momento che l’approccio dittatoriale di Gary è sempre peggio sopportata. Quando Grinding Stone viene pubblicato nel marzo 1973 c’è una spiacevole sorpresa ad attendere i suoi compagni: nella line-up viene citato un nuovo bassista, John Curtis, che non ha suonato nemmeno una nota, mentre Donnelly, Schelhaas e Boylan sono citati come contributor.
A partire dalla fuga strumentale di oltre nove minuti nella title track, il sound di Grinding Stone è di poco più definito di quello sperimentato con gli Skid Row. Moore è ora libero di pennellare boogie supersonici in stile Allman, in un mix di blues e rock sudista (“Time To Heal”) decisamente eclettico ma allo stesso tempo forse poco originale. Più fresca e ariosa la sentita ballata soul “Sail Across The Mountain”, che mette in gioco un lato più intenso e riflessivo della chitarra di Gary. C’è però ancora una certa confusione di fondo, come se Moore non sia ancora convinto della strada da percorrere: dall’organo progressive della breve e incompiuta “The Energy Dance” alla maratona di oltre diciassette minuti “Spirit”, che torna a insistere sulla doppia chitarra in una sarabanda sonica tra ritmi tribali alla Santana, verve ancora progressive, scale jazz e svisate hard-blues. Forse il manifesto del primo Gary Moore solista, adepto della musica fusion in liturgie per pochi fedeli.
Grinding Stone viene accolto tiepidamente dalla critica, che da una parte ne evidenzia l’estremo eclettismo, dall’altro sottolinea una certa confusione quando “Boogie My Way Back Home” parte con uno stornello country per finire sul semplice boogie-blues, dopo fiumi debordanti di note.

Le polemiche interne dopo l’uscita di Grinding Stone non si placano. Clifford Davis non ha budget per la Gary Moore Band e vuole che si esibisca come trio per l’imminente tour di promozione del disco, che tra l’altro registra vendite prossime allo zero. Gary è così costretto a ripartire da zero, dopo nemmeno un disco, con il bassista John Curtis e il tastierista Dave “Mojo” Lennox, ma soprattutto senza Clifford Davis, che non ha mai veramente fornito un reale supporto economico e promozionale. Il nuovo agente è John Sherry, che organizza subito un primo tour in Germania, dove scorrono i soliti fiumi di alcol, droga e più frequenti attacchi di panico. A complicare la situazione, un rapporto ormai logoro con Sylvia e un paio di relazioni infedeli durante i vari concerti in giro per l’Europa.
Nell’estate del 1973 la Gary Moore Band non è ancora riuscita a sfondare, guadagnando una media di poco più di sessanta sterline a serata. In aggiunta, Gary sembra preferire le ospitate offerte dai Thin Lizzy al Marquee di Londra, prima di aiutarli a finire un tour dopo la traumatica fuoriuscita del loro chitarrista Eric Bell. Guidati dal caro amico Phil Lynott, i Thin Lizzy hanno spaccato le classifiche britanniche con la versione della ballad tradizionale “Whiskey In The Jar”, prima di apparire al celebre programma Top of the Pops all’inizio del 1973.

Dopo l’uscita a settembre del nuovo disco “Vagabonds Of The Western World”, la band parte per un nuovo tour che vede appunto l’episodio alla Queen’s University di Belfast dove Eric Bell abbandona il palco esasperato da frizioni sulla direzione futura da intraprendere a livello sonico. Lynott chiama Moore per sostituirlo e finire il tour, mettendo temporaneamente una pietra tombale sul progetto Gary Moore Band.
L’esperienza con i Thin Lizzy è però breve, il tempo di registrare un pugno di brani tra cui la sinuosa ballata soul “Still In Love With You” inclusa nel quarto album della band, “Nightlife”. Moore lascia nell’aprile 1974, incapace di trovare una quadra nel rapporto con Phil che vuole giustamente avere il pieno controllo sulla sua stessa creatura.

Colosseum II

 

Originario di Woolwich, a sud-est di Londra, Philip John Albert "Jon" Hiseman è in pista dalla metà degli anni 60, quando Gary Moore ha poco più di dieci anni. Nel 1966 ha sostituito alla batteria un prodigio come Ginger Baker nella Graham Bond Organisation, lasciandola due anni dopo per suonare con John Mayall nell’album “Bare Wires”. Nella primavera del 1968 Hiseman si è unito al sassofonista inglese Dick Heckstall-Smith per formare una nuova band, i Colosseum. A partire dal disco d’esordio “Those Who Are About To Die Salute You” (1969), il gruppo si è posto come una pietra angolare nella fusione tra jazz, rock e blues, arrivando a un successo clamoroso. Dopo l’uscita del doppio album “Colosseum Live” (1971), il peso della fama è diventato così pesante da portare a uno scioglimento improvviso, quando il chitarrista Clem Clempson si è unito agli Humble Pie per rimpiazzare Peter Frampton. Hiseman ha così deciso di formare una nuova band, i Tempest, con il bassista Mark Clarke e il fenomeno del fusion-jazz Allan Holdsworth. Dopo aver pubblicato due album – “Jon Hiseman’s Tempest” e “Living In Fear” – i Tempest si sono sciolti nel maggio 1974 a causa di diversi problemi personali tra i membri, oltre che di una scarsa originalità sul secondo lavoro. Il timing è così perfetto: Hiseman a caccia di un nuovo progetto, Moore libero dai Thin Lizzy, seppur impelagato tra attacchi di panico, pesanti sbronze e risse da pub. Il batterista gli manda un telegramma, per sondare le sue intenzioni circa la possibilità di formare un nuovo gruppo.

Gary ha già incontrato Hiseman nel backstage dopo un concerto dei Tempest al Marquee nella primavera del 1974, poco prima dello scioglimento. Moore è già attratto dall’idea di lavorare con Jon, che lo invita a suonare in tour con il United Jazz and Rock Ensemble (UJRE). In mezzo a illustri musicisti, Gary diventa ansioso e si ubriaca spesso, mandando Hiseman su tutte le furie, ma la sua esibizione negli studi della Southern German Broadcasting convince tutti. La verità è che Jon si innamora di Moore dalle prime note, convinto che la sua chitarra sia molto più versatile di quella di Clapton. Il mix tra i due talenti si preannuncia esplosivo, come lo stesso Gary dirà alla rivista Nme, è come far incontrare la perizia strumentale della Mahavishnu Orchestra con i vocalizzi rock degli Zeppelin. Inizialmente chiamato Ghosts, il nuovo gruppo parte dal nulla, solo grazie a un prestito di circa 7000 sterline ottenuto da Hiseman con una pericolosa ipoteca sulla sua stessa casa. Moore viene pagato appena 10 sterline a settimana, mentre iniziano le prime prove in uno studio improvvisato a est di Londra. Nel ruolo di voce solista viene reclutato lo scozzese Mike Starrs, arrivato nella capitale inglese alla metà degli anni 60 senza trovare particolare successo. Il colpo successivo arriva nella primavera del 1975, quando alle tastiere si accomoda il fenomenale Don Airey, che è appena uscito dagli Hammer di Cozy Powell. Con lui arriva anche il bassista Neil Murray.

Appesantito dai debiti e dall’ipoteca sulla casa, Hiseman decide che è arrivato il momento di fare sul serio. Contatta Gerry Bron, ex-manager dei suoi Colosseum, proponendogli un lavoro per promuovere i Ghosts e trovare un contratto discografico. Bron accetta ma ordina a Jon di cambiare il nome della band per una migliore pubblicità. Riluttante, Hiseman contatta i suoi vecchi compagni e chiede loro il permesso di usare il nome Colosseum. Nell’estate del 1975 possono così iniziare le sessioni di registrazione ai Roundhouse Studios, che producono le prime incisioni demo tra cui una lunga versione corale della “Walking In The Park” di Graham Bond e “Gary’s Lament”, con il lento incedere della chitarra di Moore nell’intermezzo progressive tra architravi jazz e note blues. È di fatto il manifesto sonico dei Colosseum II, che pubblicano Strange New Flesh sull’etichetta di Bron, la Bronze, nell’aprile 1976.
Prodotto dallo stesso Hiseman, il disco si apre con lo strumentale progressive “Dark Side Of The Moog”, omaggio ai Pink Floyd con un irresistibile sinergia tra riff di Hammond e minimoog, batteria propulsiva e chitarra veloce e aggressiva. A seguire, un cambiamento di direzione quasi spiazzante, verso un sound più soul e radio-friendly nella versione di “Down To You” (Joni Mitchell) guidata dalla voce suadente di Mike Starrs. La band si lancia poi in “Gemini And Leo”, un groove funky capitanato dal basso di Murray, probabilmente reso più pesante dai gorgheggi della voce. La chitarra di Moore vira verso il rock più classico in “Secret Places”, mentre diventa eterea e jazzy sulla lunga “On Second Thoughts”. L’album si chiude con l’assolo di batteria in stile Canterbury che apre la chilometrica “Winds”, orchestrata da una sezione ritmica schizoide e conclusa con una importante battaglia tra mini-moog e wah-wah.
Subito dopo la pubblicazione, alcuni critici parlano di un debutto “esuberante e immaginifico”, mentre altri notano uno scollegamento tra idee e approcci stilistici. La verità sta forse nel classico mezzo, un disco in bilico tra grandezza tecnica e scarso appeal commerciale, il cui fallimento in classifica porta Bron ad avere più di un dubbio sull’investimento appena concesso ai Colosseum II.
La performance vocale di Mike Starrs non piace affatto ai vertici dell’agenzia di Gerry Bron, perché ritenuta troppo simile a quella di tanti cantanti da pub. A Hiseman viene perciò consegnato un robusto ultimatum: far fuori Starrs o lasciare la società di management musicale. L’ultimo concerto con il cantante scozzese e il bassista Neil Murray – anche lui viene messo alla porta nello stesso periodo – si svolge il 26 giugno 1976 alla Guildford Civic Hall. Jon comunica ai due che la band si sta sciogliendo, mentre, per completare la sezione ritmica, viene subito reclutato John Mole, scoperto dalla moglie di Jon, Barbara Thompson in un club di Londra. L’idea è quella di continuare in formazione a quattro come gruppo strumentale, affidando a Moore il compito di cantare ove sia necessario. Bron assolda il produttore Monty Babson e fornisce ai Colosseum II un budget di 60.000 sterline per altri due album, da registrare ai Morgan Studios.

Il secondo disco viene pubblicato agli inizi del 1977 con il titolo di Electric Savage, ed è aperto da una prima composizione di Moore (“Put It This Way”) che sferza l’ascolto con un riff in stile hard-rock. Dopo l’addio forzato di Starrs, la matrice strumentale fusion può volare più liberamente, garantendo alla band una identità più marcata e coerente. Le percussioni latine di “All Skin And Bone” aprono scenari illimitati per la chitarra di Gary, morbida e sinuosa sulla successiva ballad “Rivers”. Le differenze con il primo disco sono evidenti, dal momento che mancano completamente sia i vocalizzi da rocker che linee di basso più prepotenti, in nome di una sperimentazione più marcata, come nella futuristica “The Scorch”, che si sviluppa su una linea ipnotica di mini-moog su cui Moore ricama accordi hard-blues. Firmata da Hiseman e Moore, “Desperado” è una cavalcata in perfetto genere fusion sulla falsariga di alcune composizioni dei Brand X, mentre le ultime “Am I” e “Intergalactic Strut” sono firmate dal tastierista Don Airey, tra melodie jazz e percussioni più hard.

Nel gennaio 1977 Gary riceve un’offerta per tornare temporaneamente nei Thin Lizzy, che sono costretti a sostituire il chitarrista Brian Robertson finito ko dopo una lite furiosa in un pub inglese. Hiseman prova a trattenere Moore, perché Electric Savage sta andando meglio del previsto e deve essere portato in tour. Fedele alla vecchia amicizia con Lynott, Gary accetta, ma allo stesso tempo promette a Jon di tornare presto nei Colosseum II. Quando rientra alla base, non c’è alcun tour in programma, piuttosto l’offerta irrifiutabile del compositore Andrew Llyod Webber che sta lavorando insieme al fratello Julian al progetto Variations, una suite basata sul tema originale del violinista italiano Niccolò Paganini “24 Capricci”. Webber ha bisogno di una band e quando ascolta Electric Savage capisce di averla trovata. Telefona a Jon e propone ai Colosseum II una decina di giorni in studio, molto ben pagati.
Pubblicato nel gennaio 1978, Variations ottiene un successo inatteso nel Regno Unito, arrivando al secondo posto in classifica. Le vendite dell’album portano la band in tour subito dopo l’uscita, mentre Moore è ancora una volta terrorizzato all’idea di suonare con gente capace di leggere uno spartito.

Non affatto scoraggiati dalle pessime prestazioni commerciali di Electric Savage, i Colosseum II salutano Webber e nell’estate del 1977 si mettono al lavoro per la registrazione del terzo disco. Poco dopo esce War Dance, che insiste sul nuovo corso iper-strumentale a partire dall’architettura tra prog e musica medievale costruita nella title track. Il lavoro alle tastiere di Airey insieme ai riff di Moore e alla batteria decomposta di Hiseman produce quello che è ormai un marchio sonico, finemente intellettuale sulla via della fusion, ma complicato per l’orecchio dell’ascoltatore medio. In “Major Keys” torna il basso funky a far battere il piede, inframezzato da leccate quasi metafisiche della chitarra di Moore, mentre “Castles” è un’altra ballata romantica in chiave soul.
Il disco torna a spingere l’acceleratore sui binari fusion con “Fighting Back” (una delle migliori accoppiate chitarra-tastiere dell’intera discografia) e “The Inquisition”, che include parti acustiche su un ritmo andaluso. La composizione più complessa dell’album è “Star Maiden/Mysterioso/Quasar”, mini-suite con partenza melodica e finale pirotecnico in una sarabanda strumentale impazzita.

L’ultimo brano registrato in War Dance, “Last Exit”, è profetico: nell’estate del 1978 Gary Moore riceve una terza chiamata dai Thin Lizzy, probabilmente l’ultimo treno da prendere. Hiseman fiuta il pericolo e convoca una riunione negli uffici della Mca che controlla la Bronze di Gary Bron, ammettendo di essere ormai sfiduciato a causa del mancato successo commerciale della band. Un paradosso per quattro dei migliori musicisti che il Regno Unito possa offrire. Probabilmente è una questione di supporto promozionale, o di musica troppo cerebrale: i Colosseum II non sono mai riusciti a suonare davanti a più di cinquecento persone, pur esprimendo il proprio meglio dal vivo. Il tempo gioca poi un altro tiro mancino, perché siamo alla fine degli anni 70 e i gusti musicali sono dominati prima dal punk e poi dalla new wave.

Con Phil: Thin Lizzy

 

Estate 1978. Schiacciati dal proprio talento, i Colosseum II si sciolgono dopo l’uscita del terzo disco. Ad agosto, Phil Lynott contatta per l’ennesima volta Moore, convinto che non esista alcuna alternativa dopo l’uscita traumatica dello scozzese Brian Robertson, tra incomprensioni artistiche e deliri superalcolici. C’è da fare in fretta, perché parte a breve il primo tour australiano della band, in supporto all’ottavo album Bad Reputation prodotto dal guru Tony Visconti. Moore è propenso ad accettare, ma chiede a Phil di entrare regolarmente nei Lizzy ricevendo una quota uguale agli altri membri. Lynott prepara invece un contratto da dipendente, che gli offre una compensazione uguale per futuri concerti e incisioni, annullando però qualsiasi effetto retroattivo. L’accordo va in porto, ma l’ingresso di Moore nel gruppo è molto graduale: prima aiuta lo stesso Phil a registrare il suo primo disco da solista, “Solo In Soho”, poi firma un contratto parallelo con Monty Babson per lavorare subito all’album Back On The Streets, insieme al novello ingegnere del suono Chris Tsangarides, già al lavoro con i Colosseum II sugli ultimi due dischi.
Le sessioni di registrazione iniziano nei primi mesi del 1978 ai Morgan Studios, in formazione con il giovane batterista Simon Phillips – che ha lavorato con Jack Bruce – Don Airey alle tastiere, ma anche John Mole al basso e Phil Lynott agli accompagnamenti vocali. Aperto dall’energico hard-rock della title track, l’album certifica l’abbandono della complessità fusion sperimentata nei Colosseum II, virando deciso verso un sound più interessante per le classifiche, come nel rework della sensuale “Don’t Believe A Word”, già registrata dai Thin Lizzy.
La nuova chitarra blues di Gary Moore si prepara così alla nuova avventura nel gruppo irlandese, sparando riff come una mitragliatrice nell’hard-and-roll “Fanatical Fascists” vergato da Phil Lynott. Escludendo le parentesi strumentali “Flight Of The Snow Moose” e “Hurricane” – che rivisitano la fusion dei Colosseum II con una sezione ritmica più lineare – il disco è un chiaro tentativo di ammiccare all’ascoltatore dopo anni di sperimentazioni, ad esempio con la ballata romantica “Song For Donna”, dedicata al nuovo amore di Gary. Mentre “What Would You Rather Bee Or A Wasp” si scatena su un funky da ballo, la chitarra di “Parisienne Walkways” ricorda quella di Santana in “Samba Pa Ti”. L’intensità mistica del brano fa centro e scala le classifiche inglesi e irlandesi nella primavera del 1979. Il primo successo commerciale di Moore che ne aumenta improvvisamente la notorietà in terra d’Albione.

Alla fine di luglio, Moore viene annunciato ufficialmente come nuovo chitarrista dei Thin Lizzy, mentre Phil accarezza il sogno di avere finalmente una band da grandi location come è successo ai Queen. A settembre è in programma un nuovo tour americano con Ac/Dc, Journey e Reo Speedwagon, ma c’è un problema: improvvisamente, il batterista Brian Downey decide di mollare tutto, sopraffatto dallo stress, per ritirarsi a pescare nella campagna irlandese. La band non si perde d’animo e assolda Mark Nauseef, già al lavoro con Ronnie James Dio e Ian Gillan. Ma il tour statunitense è pieno di problemi, in modo particolare causati dalla sempre più pesante dipendenza di Lynott dalla cocaina, oltre che dal carattere oscuro e iracondo di Moore. Tornati a Londra – dopo una trionfale serata all’aperto nei pressi della Sydney Opera House davanti a oltre 300mila persone – i Thin Lizzy si esibiscono all’Hammersmith Odeon nel loro tradizionale concerto di fine anno, quello dedicato ai fan. Gary ha un altro momentaccio dei suoi, un attacco violento di rabbia sul palco per alcuni problemi tecnici con la chitarra.
Mentre la sua relazione con Donna Campbell va in pezzi a causa di una scappatella con una giovane bionda australiana di nome Lisa, Moore è al lavoro con Lynott nelle sessioni di registrazione del nuovo album dei Thin Lizzy. Da grande amante della poesia, Phil è ispirato dal poema patriottico di James Clarence Mangan “Róisin Dubh”, che diventa il perno delle sessioni con Tony Visconti agli Emi Marconi Studios di Parigi. Per la prima volta con i Lizzy al lavoro su un intero disco, Gary Moore apporta il suo fondamentale contributo alla chitarra solista, bilanciando la spirale auto-distruttiva in cui sta cadendo Lynott. È proprio Visconti che lo prende da parte durante una delle sedute: “Cosa cazzo ci fai in questa band?”.

Pubblicato nell’aprile 1979, Black Rose: A Rock Legend è di fatto il canto del cigno della formazione irlandese, l’ultimo classic album prima della distruzione. Dalle percussioni apocalittiche dell’iniziale “Do Anything You Want To”, i ricami chitarristici di Moore imprimono una varietà strumentale vitale per il sound dei Lizzy, una freschezza squillante al primo ascolto che ricorda per certi versi il lavoro di May all’interno dei Queen. Nonostante una voce resa più nasale dall’abuso di droghe pesanti, Lynott guida ancora alla grande la cavalcata hard-rock “Toughest Street In Town”, una delle due composizioni incentrate proprio sull’abuso di sostanze.
Il lavoro alla chitarra di Moore non è mai stato così diretto e primitivo, immergendosi totalmente nello stile Lizzy con la tecnica di un veterano del gruppo, come sulla funkeggiante “S & M” o tra le trame accelerate della hit pop “Waiting For An Alibi”. L’album rallenta dolcemente sulla ballad tropicale “Sarah”, dedicata alla neonata figlia di Lynott, prima di tornare sull’acceleratore con l’heavy-blues “Got To Give It Up”, canzone purtroppo profetica per il futuro di Phil.
Non c’è un attimo di sosta, con il rock’n’roll potenziato “Get Out Of Here” (firmato da Lynott con Midge Ure) e l’heavy-pop “With Love”. In chiusura, l’epico tour de force “Róisín Dubh (Black Rose): A Rock Legend”, mini-suite che reinterpreta diversi classici irlandesi – “Danny Boy” e “Shenandoah” su tutti – tra lampi chitarristici in chiave hard e gighe folk di altri tempi. Una delle prove più emozionanti di Gary Moore in uno degli album migliori dei Thin Lizzy, che scala le classifiche sfiorando la prima posizione nella classifica inglese alla metà del 1979.

Per la band è finalmente arrivato il momento di fare il salto decisivo, verso la grandezza planetaria, con un nuovo tour che sbarcherà negli States, poi in Uk e in tutta Europa. I Thin Lizzy sono però costretti a cancellare diverse date a causa di una presunta intossicazione alimentare di Phil, che in realtà è devastato dall’abuso di droga. La combo sostanze e alcolici diventa sempre più intollerabile per Gary, mentre Lynott non riesce a stare in piedi sul palco sbagliando spesso i testi delle canzoni. Uno scenario diametralmente opposto all’estremo professionismo sperimentato con Hiseman e i Colosseum II. La proverbiale goccia cade il 4 luglio 1979, davanti alle 50mila presenze registrate al Green Festival di Oakland con Journey, Ufo e Nazareth. L’ennesimo crollo di Phil porta Moore a pensare che sia arrivato il momento di lasciare i Lizzy per sempre. Si rifugia a Hollywood dalla nuova compagna Lisa, facendo infuriare Lynott, che decide di licenziarlo e continuare il tour come trio, senza doppio chitarrista. Alla stampa viene detto che Gary è malato, ma la notizia esce fuori e porta le principali riviste di settore ai grandi titoli sul rapporto logoro con Phil e il conseguente licenziamento. Intervistato da Bbc Radio One, Moore dichiarerà la sua versione, spiegando il suo abbandono nel bel mezzo di un tour a causa di standard musicali non più accettabili per i fan. I due non si parleranno per i successivi quattro anni.

Jet Records

 

L’uscita dai Lizzy crea non pochi problemi a Moore, perché la Warner Bros – che distribuisce negli Stati Uniti sia gli album della band che Back On The Streets – chiede formalmente la rimozione delle parti vocali di Lynott. Stesso discorso per il nuovo singolo “Spanish Guitar”, in uscita nell’ottobre 1979, che dovrebbe bissare il successo di “Parisienne Walkaways” con la sua trama intensa in stile Santana. Gary riesce poi a vincere una causa intentata dal management dei Lizzy, che lo accusa di aver acquistato una casa a nord-ovest di Londra con un “prestito” di circa 30mila sterline. La buona notizia è che il suo manager Colin Newman riesce a garantirgli un nuovo contratto discografico con la Jet Records dell’unico e inimitabile Don Arden. Nato come Harry Levy nel 1926, Arden ha iniziato la sua carriera negli anni 50 come aspirante comico, prima di lavorare come manager di artisti come Gene Vincent, Little Richard, The Animals e The Small Faces. Nel 1974 ha fondato la sua etichetta discografica facendo subito centro con gli Electric Light Orchestra, che hanno venduto milioni di copie sul mercato statunitense. Quando Moore firma per la Jet alla fine del 1979, la sua gestione viene affidata alla figlia Sharon, che non ha mai lavorato prima nel mondo del rock.
L’obiettivo della Jet Records è di trasformare Gary Moore in un nuovo Eddie Van Halen, di farlo arrivare al successo planetario in uno scenario che ammicca al genere pop-metal. Serve però una nuova band, a parte Mark Nauseef alla batteria che è già a bordo da diversi mesi. Al basso viene reclutato Tony Newton da Detroit, mentre al microfono si sistema il cantante Willie Dee, che viene scelto per le sue interpretazioni vocali in un disco dei Captain Beyond, band formata da ex-membri di Iron Butterfly e Deep Purple. La band si chiamerà G-Force, semplicemente perché “G” è il soprannome con cui Moore veniva chiamato dai compagni di classe.

Registrato agli studi Record Plant di Los Angeles, l’album G-Force esce nella primavera del 1980, il primo sulla nuova etichetta Jet Records. Fin dal primissimo ascolto dell’iniziale “You”, la nuova direzione sonica è chiarissima: il canto soul-pop di Dee guida cavalcate heavy-metal condotte dalla chitarra esplosiva di Moore, con trame sintetizzate di tastiere ad aprire un certo sound inconfondibile negli anni a venire. "White Knuckles/ Rockin' And Rollin'” alza ancora di più i decibel con un irresistibile rock’n’roll potenziato, una sorta di risposta a “Eruption” di Van Halen, sicuramente tra le cose migliori del disco.
Se brani ultra-melodici come “She’s Got You” e soprattutto “I Look At You” scivolano via senza lasciare alcun segno distintivo, il pop ammiccante e stralunato di “Hot Gossip” e “The Woman’s In Love” sembra più uscito dalla penna di Elvis Costello. In definitiva, G-Force è un disco facilmente criticabile, data l’insistenza con cui spinge verso un pop-metal da classifica, probabilmente appesantito da un lavoro di produzione troppo orchestrale da parte della Jet.

Mentre il rapporto con Lisa naufraga tra gelosie e spese folli, il management di Moore ha in programma un tour britannico a supporto dei Whitesnake. I concerti vanno bene, nessun delirio in stile Lynott. Ma il successo atteso dalla Jet tarda ad arrivare, tanto da portare a repentine riflessioni sulla band assemblata per Gary. Sharon Levy è sempre più concentrata su Ozzy Osbourne, dopo averlo incontrato per la prima volta nel 1974 e preso in gestione cinque anni dopo la cacciata dai Black Sabbath. All’inizio l’idea di Sharon è di lanciare la carriera da solista di Ozzy grazie al contributo dei G-Force, ma quando lo stesso Osbourne decide di abbandonare tutto per tornare dai figli, la possibilità sfuma. In aggiunta, il rapporto tra Moore e Dee è ai minimi termini, date le continue lamentele del cantante che non vuole registrare i pezzi più pop che invece piacciono a Sharon.
Tornato a Londra per ragionare sui prossimi passi, Gary assolda nuovi musicisti – tra cui il vecchio amico Don Airey e il bassista Andy Pyle – con l’obiettivo di registrare un album dal vivo con il produttore Tsangarides. Con il nome Gary Moore and Friends, si esibiscono per due date al Marquee all’inizio del novembre 1980.

A cavallo con il 1981 iniziano ai Morgan Studios i lavori di registrazione del nuovo album Dirty Fingers, con Charlie Huhn (ex-Ted Nugent) alla voce e Tommy Aldrige alla batteria. C’è un grosso problema: la Jet Records sta trattando con David Geffen per distribuire “la risposta inglese ai Van Halen” negli Stati Uniti, probabilmente non essendo disposta a fallire commercialmente con la band di Moore. Ex-boss della Asylum Records, Geffen in poco tempo ha già portato a bordo Donna Summer – disco d’oro con “The Wanderer” – e John Lennon con “Double Fantasy”. I G-Force non scaldano gli animi di Geffen, l’accordo salta e lascia un vuoto d’investimenti pesante da colmare. La situazione finanziaria di Don Arden non è delle migliori, tanto che è subito dopo costretto a vendere i diritti di pubblicazione della sua creatura di maggior successo, gli Electric Light Orchestra. Bloccato ai Morgan Studios e senza fondi, Moore presta la sua chitarra a diversi musicisti nel corso del 1981, da Cozy Powell al nuovo amico Jack Bruce. È però con Greg Lake che trova un sodalizio più stabile, partecipando per intero al suo omonimo album d’esordio da solista.

Aperto dal riff killer della gemma hard-rock “Nuclear Attack”, Greg Lake esce per la Chrysalis Records alla fine del 1981, rompendo con la tradizione progressive delle sue precedenti esperienze nei King Crimson e soprattutto Emerson Lake & Palmer. Lake vuole affrancarsi dal suo strumento principe, virando verso un sound più aggressivo da guitar-hero. Moore è così fondamentale per aiutarlo a crescere verso un hard-rock patinato (“Love You Too Much” e “Retribution Drive”), ma allo stesso tempo prestando le sue doti chitarristiche in brani più intensi e strutturati, su tutti il soul-blues “It Hurts” e il folk-pop intimista “Black And Blue”. Il disco è alla fine piacevole e scorre via senza particolari picchi creativi, tra uno shuffle orecchiabile (“Long Goodbye”) e scanzonate marcette marziali in salsa Irish (“For Those Who Dare”).
Mentre Gary viene ingaggiato nel tour di promozione del disco, la breve parentesi con la Jet sta per terminare, quando Sharon Levy fa capire chiaramente di non avere intenzione di continuare a promuovere Moore, presentandolo al manager Steve Barnett, che invece riuscirà a fare le fortune del chitarrista nordirlandese.

Rockin’ Every Night

 

Steve Barnett ha iniziato la sua carriera nel mondo della musica nel 1970, come agente al soldo di Gerry Bron, lavorando insieme a band come Colosseum e Uriah Heep. Poi è passato alla Nems Enterprises, agenzia fondata da Brian Epstein, prima di creare la società di gestione Part Rock con il manager di Greg Lake, Stewart Young. Quando incrocia Gary Moore, Barnett vuole procurargli finalmente un contratto discografico degno, così contatta Richard Griffiths della Virgin Music Publishing, che a sua volta convince Simon Draper, co-founder della Virgin Records. Inizialmente votata al progressive-rock, la Virgin è emersa all’alba degli anni 80 come etichetta di riferimento del pop e della new wave, promuovendo band come Culture Club, Human League e poi Simple Minds. Insieme a Richard Branson, Draper è a caccia di altri artisti per l’imminente nascita della Ten Records, una sorta di etichetta gemella che debutterà nel 1982, a dieci anni dalla fondazione della Virgin. All’inizio dell’anno, Moore si chiude negli Air Studios di Londra con il bassista Kenny Aaronson e il batterista Bobby Chouinard – entrambi in prestito dalla band di Billy Squier, gestita proprio da Part Rock – per registrare le prime versioni demo dei brani che andranno inseriti nel primo disco targato Virgin Records.
In cabina di regia si posiziona Jeff Glixman, già al lavoro con i Kansas dalla metà degli anni 70. Glixman non è soddisfatto delle registrazioni in demo, a parte l’epica “End Of The World”, che sfodera un assolo iniziale di oltre due minuti prima di lanciarsi in una cavalcata heavy con la voce inconfondibile di Jack Bruce. Per le nuove sessioni in studio viene assoldato Ian Paice alla batteria, accompagnato in sezione ritmica da Neil Murray al basso, appena liberatosi dai Whitesnake. Completata dal tasterista Tommy Eyre, la nuova line-up è pronta a fare fuoco, soprannominata Gary Moore and his Expensive Friends a causa dell’alto cachet di alcuni tra i musicisti più quotati sulla scena. Ma il gioco – anche se costoso – vale la candela, perché Corridors Of Power, uscito nell’autunno 1982, funziona alla grande e lancia la chitarra di Moore verso l’iperspazio sonico.
Il lavoro in produzione di Glixman, abbinato al talento della sezione ritmica, supera di gran lunga i tentativi pop-metal della Jet Records, come nell’iniziale “Don’t Take Me For A Loser”, che pulisce un sound aggressivo unendo melodia, chitarra metal e tastiere ipnotiche. Anche se la romantica ballad scelta come singolo, “Always Gonna Love You”, non spaccherà le classifiche, Gary Moore ha di che sorridere: vuole riabilitarsi come musicista solista, dopo un recente tour statunitense con Greg Lake dove nessuno lo riconosceva chiaramente. Tratto da un testo politico dello scrittore inglese Charles Percy Snow, l’album presenta una sola cover (“Wishing Well” dei Free), snocciolando composizioni fresche e spontanee, dal ritornello heavy-pop “Gonna Break My Heart Again” al veloce duetto chitarra-batteria “Rockin' Every Night”. Alcuni critici lodano la performance vocale di Moore – effettivamente migliore delle precedenti, più calda e penetrante – e in generale sono concordi sull’azzeccata fusione tra heavy-metal e melodia, che parte con il riff killer di “Cold Hearted” e trionfa con l’anthem drammantico di quasi otto minuti “I Can't Wait Until Tomorrow”.

Subito dopo l’uscita di Corridors Of Power, le recensioni sono positive, a testimoniare il rilancio di Gary Moore nel panorama rock internazionale. Il disco fa però fatica a scalare le classifiche, fermo alla 30esima posizione in Uk. Richard Griffiths è furioso per il mancato supporto della Virgin nella promozione dell’album nel Regno Unito, mentre in estate fervono i preparativi in vista di un imminente tour inglese. Il problema principale è rappresentato dalla scarsa capacità di Gary nel cantare e suonare contemporaneamente dal vivo, così viene richiamato prima Charlie Huhn e poi John Sloman per partire ufficialmente con due date al Marquee di Londra. Il tour viene esteso nella primavera del 1983 in Europa, includendo diversi festival con un totale stimato di circa 100mila partecipanti. Segue l’irripetibile opportunità di accompagnare i Def Leppard – sulla cresta dell’onda dopo l’uscita del disco “Pyromania” – in un tour statunitense, ma il fido Don Airey rifiuta, venendo subito rimpiazzato da Neil Carter, ex-Ufo. Nonostante esibizioni di durata ridotta (circa 35 minuti), il tour in supporto dei Def Leppard permette alla chitarra di Gary Moore di esibirsi davanti a una media di oltre 20mila spettatori a serata. Quando lo ascoltano dal vivo, diversi disc-jockey a stelle e strisce restano folgorati dallo stile del musicista nordirlandese, iniziando a pompare le sue canzoni in radio.

A testimonianza discografica dell’ottimo tour tra la fine del 1982 e quasi tutto il 1983 c’è Rockin' Every Night – Live In Japan, registrato in due date alla Kōsei Nenkin Kaikan di Tokyo nel gennaio ’83 e poi pubblicato dalla Virgin prima sul solo mercato giapponese e solo tre anni dopo in Europa. Con Sloman alla voce e la robusta sezione ritmica Paice-Murray, la band si lancia a cento all’ora sul repertorio più duro, da “Rockin’ Every Night” alle nuove hit “Rockin’ And Rollin’” e “Nuclear Attack”.
Impreziosito dalla prova vocale di Sloman e dalla batteria killer di Paice, il disco merita l’ascolto anche solo per una versione monumentale di oltre 12 minuti della gemma “I Can't Wait Until Tomorrow”.

Mentre Moore è in tour negli Usa, la Jet Records pubblica finalmente Dirty Fingers, registrato tre anni prima con la produzione di Tsangarides. Inizialmente accantonato dall’etichetta di Arden per far spazio al più commerciale G-Force, l’album debutta sul mercato con la sua grezza estetica heavy-rock, racchiusa nel già citato singolo “Nuclear Attack”. Fin dal primissimo riff di “Hiroshima”, il disco vuole prendere a pugni l’ascoltatore, roteando la sei corde in un sound cavernoso. In brani come “Kidnapped” e “Lonely Nights”, è evidente la mistura tra hard e melodia sperimentata al tempo dei G-Force, evidentemente reputata troppo debole dalla Jet per un rilascio immediato. Probabilmente anche a causa dell’insolita e scialba cover della hit “Don't Let Me Be Misunderstood” o della fiacca ballata “Rest In Peace”.
La sensazione generale è che si tratti di un album sperimentale, costituito da brani embrionali come la title track, che verrà solo successivamente ripresa come intro di “End Of The World”.

L’operazione di recupero della Jet continua pochi mesi dopo con Live, che pubblica le registrazioni dal vivo al Marquee di Londra nel novembre 1980, in formazione con Kenny Driscoll alla voce e l’ex-Kinks Andy Pyle al basso. Il disco riprende brani incisi in Back On The Streets (la title track e il successo “Parisienne Walkaways” in versione strumentale allargata) e G-Force (“You” e “Dancin”), chiudendo con la chicca “Dallas Warhead” che mette in mostra le doti alle pelli di Tommy Aldrige nella lunga parte centrale.

Prima di pianificare le prossime mosse, Moore torna a lavorare con Greg Lake sul suo secondo disco, Manoeuvres, pubblicato dalla Chrysalis nel luglio 1983. I musicisti sono gli stessi del disco omonimo di debutto, ma il risultato è un flop totale, lontano dal sound aggressivo di “Nuclear Attack”. A parte il solito riffone hard-rock nella title track d’apertura, il disco vira compassato verso il formato power-ballad (“Paralysed”), abbracciando melliflue tessiture soul (“A Woman Like You”) e melodie al limite del sinfonico (“Haunted”).

Alla fine del 1983, Gary torna in studio nel quartiere di Notting Hill per registrare il suo prossimo album, ancora una volta con il produttore Jeff Glixman. Il rapporto artistico con il bassista Neil Murray è ai minimi termini, causato da estreme divergenze sulla concezione della stessa sezione ritmica. Sul disco vengono chiamati a lavorare Mo Foster e Bob Daisley, appena licenziato da Ozzy Osbourne. Altra defezione importante, quella di Ian Paice, che parla francamente con Moore ammettendo di aver smarrito la sua capacità di tenere il tempo sul disco. Il batterista viene sostituito da Bobby "Prime Time" Chouinard, in tempo per finire l’album in pubblicazione nel febbraio 1984.
Victims Of The Future continua sulla falsariga del suo predecessore: un robusto heavy-rock in chiave melodica, a partire dalla title track che mette in mostra le doti vocali del nuovo cantante e tastierista Neil Carter. Dal vibrante hard-boogie di “Teenage Idol” alla cover marziale di “Shapes Of Things” (Yardbirds), il nuovo lavoro è una fucilata alle orecchie, pensato per ammiccare ancora di più alle classifiche e infatti arrivato fino al 12° posto nella classifica inglese.
Le doti chitarristiche di Moore rasentano la perfezione, come nella cupa bellezza di “Murder In The Skies” che è una invettiva socio-politica contro l’Unione Sovietica dopo l’abbattimento di un aereo della Korean Air Lines. Se brani come “All I Want” ricordano molto certi fraseggi degli Aerosmith, la ballata “Empty Rooms” ottiene la miglior posizione in classifica come singolo, mentre il finale sabbathiano “Law Of The Jungle” avvolge con il suo tetro incedere in oltre sei minuti tambureggianti.

In procinto di partire per un nuovo tour, Moore trova il suo nuovo bassista in Craig Gruber, già alle prese con Rainbow e Ronnie Dio. Una delle tappe programmate è sicuramente in Giappone, dove Gary torna per la seconda volta per soddisfare un pubblico sempre crescente, anche grazie al ritorno di Ian Paice che sfrutta il nome Deep Purple, istituzione nel paese del Sol Levante. Quando sbarca all’aeroporto di Norita, la crew di Moore viene letteralmente presa d’assalto da migliaia di fan, un’isteria collettiva dopo l’uscita di Victims Of The Future che manco ai tempi dei Beatles. Le date in Giappone sono un trionfo, culminato nello show al Budokan davanti a 14mila persone adoranti.
La band torna in Europa verso la primavera, prima di ripartire per un altro tour negli States senza Ian Paice, che nel frattempo è in attesa del suo terzo figlio. Il batterista non farà più ritorno, dal momento che gli verrà offerto un ricchissimo contratto per riformare i Deep Purple.

Dal trionfale tour del 1984 viene pubblicato a ottobre il doppio disco dal vivo We Want Moore!, che racchiude diverse esibizioni tra Detroit, Tokyo, Londra e Belfast. Con oltre un’ora di musica, il double album inizia al fulmicotone con l’invettiva “Murder In The Sky”, seguita da una spettacolare versione di oltre otto minuti della “Shape Of Things” marca Yardbirds. Il tour del 1984 vede un Gary Moore al top della forma, come dimostra il trittico di fuoco “Cold Hearted”, “End Of The World” e “Back On The Streets” sulla seconda facciata del primo disco.
We Want Moore! è un live sontuoso, a testimonianza di un periodo in continua ascesa per il musicista nordirlandese.

The Loner

 

Dopo il grande successo del tour mondiale di Victims Of The Future, Gary Moore decide di tornare in studio per cavalcare l’onda, all’inizio del 1985. Quando varca la soglia degli Air Studios di Londra, la schiera di musicisti a disposizione è impressionante, da Glenn Hughes (basso e voce) al ritorno di Don Airey alle tastiere. Per la prima volta si lavora con ben tre produttori, ma soprattutto c’è un rapporto antico che si è improvvisamente riacceso, quello con Phil Lynott. A dispetto dello scetticismo generale, i due uniscono le forze per incidere il singolo “Out In The Fields”, elettrico power-pop sul famigerato conflitto etno-nazionalista nordirlandese Troubles. Il ritmo martellante creato dalla sezione ritmica con l’inserimento della parte di tastiere e il ritornello orecchiabile scala le classifiche inglesi nella primavera del 1985, miglior risultato per un singolo di Moore e succoso antipasto prima dell’uscita a settembre di Run For Cover.
L’album resta ancorato al genere heavy-rock (la title track), ma vede l’inserimento di una più massiccia dose di pop melodico, come nella successiva “Reach For The Sky” condotta quasi in solitaria da Glenn Hughes. Gary decide di registrare nuovamente la hit-ballad “Empty Room”, mentre il nuovo sodalizio con Lynott produce l’incedere drammatico della marziale “Military Man”, una delle cose più interessanti di un album che convince con qualche punto interrogativo, sospeso tra la classica epopea del riff (“Nothing To Lose”), imitazioni più o meno velate del sound Van Halen (“Once In A Lifetime”) e romanticismi sintetizzati “Listen To Your Heartbeat”.
Nonostante il successo del singolo “Out In The Fields”, Gary non ha alcuna intenzione di tornare in tour insieme a Lynott, che non è mai riuscito a superare le sue pesanti dipendenze. Ritrovata l’amicizia con Phil, emerge un problema con Hughes, che vuole cambiare il nome della band in Gary Moore Band featuring Glenn Hughes, ansioso di riemergere sul palcoscenico internazionale. Di diverso avviso Steve Barnett, che lo vuole obbligare a farsi continue analisi del sangue nei mesi antecedenti all’inizio del tour. L’ex-Deep Purple viene così messo alla porta, coperto da Bob Daisley per i concerti del 1985, che vedono l’ultima esibizione con Lynott il 28 settembre all’Hammersmith Odeon di Londra. Distrutto da alcol e droghe, Phil muore per una infezione il 4 gennaio 1986, quando Gary è a Tenerife con la fresca moglie Kerry Booth.

Scosso dalla tragica morte di Lynott, Gary partecipa a maggio al Self Aid, un concerto tributo davanti a 30mila fan con tanto di reunion dei Lizzy. In un’intervista rilasciata a un giornalista svedese poco prima di morire, lo stesso Lynott aveva parlato di un nuovo singolo in arrivo con Moore, dal titolo “Over The Hills And Far Away”. Il brano fornisce la scintilla per la registrazione di un intero album tributo a Phil, che racconti in musica la terra natia. Gary passa gran parte del 1986 a provare nuove canzoni, portandole anche in tour con l’aggiunta del batterista Gary Ferguson nella sezione ritmica collaudata con il bassista Bob Daisley. La band si esibisce in diverse date in grandi spazi all’aperto nell’ultimo tour dei Queen con Freddie Mercury, partendo dalla Svezia e arrivando fino in Sudafrica.

A sorpresa, quando torna in studio per finalizzare il nuovo disco, Moore sceglie di non usare una vera batteria ma una drum machine Linn 9000. Pubblicato nel marzo 1987, Wild Frontier è un ammorbidente per le vesti metal di Gary, che aggiunge un gradevolissimo tocco Irish-folk al power-pop “Over The Hills And Far Away”, praticamente replicato quasi in formato fototessera nella title track successiva. Il grande punto debole del disco sta proprio nella scelta di campionare le parti di batteria con una drum machine, che finisce con l’appiattire buone idee. “The Loner”, ad esempio, è un ottimo strumentale con una delle versioni più intense della chitarra di Moore, mentre la cover degli Easybeats “Friday On My Mind” si perde completamente tra arrangiamenti barocchi, armonie pop e un tappeto ritmico senza alcuna verve. Meglio quando, nel tentativo di onorare la figura dell’amico Phil Lynott, il disco vira verso le ventose coste irlandesi, affidandosi alle pipes di Paddy Moloney (Chieftains) nel malinconico finale “Johnny Boy”.
Paradossalmente, pur non essendo affatto il miglior disco di Moore nel decennio, Wild Frontier sbanca le classifiche ottenendo il disco d’argento in Uk e quello di platino in Svezia, paese da tempo molto legato al suo lavoro. Pur in basso, il disco entra nella Top 200 di Billboard negli Stati Uniti ed è un risultato nemmeno sperato dato il livello di conoscenza del pubblico a stelle e strisce.

In seguito alla pubblicazione di Wild Frontier, viene programmato un nuovo tour mondiale per tutto il 1987, ma prima è necessario sostituire il batterista Gary Ferguson con Eric Singer, che ha a sua volta rimpiazzato Bill Ward nei Sabbath due anni prima. Partito alla Nec arena di Birmingham, il giro vedrà oltre 70 date nei diversi angoli del pianeta, toccando i paesi scandinavi, il Regno Unito e ovviamente l’amato Giappone. Un successo di pubblico e critica che non viene purtroppo bissato negli Stati Uniti, dove la mancanza di passaggi radiofonici e le scarse vendite relegano Moore insieme a TNT, Y&T e Ace Frehley (Kiss). Gary è stizzito – è pronto a nascere suo figlio Jack – ma deve accettare i live negli States per questioni meramente fiscali, ovvero legate allo stare lontano per un certo tempo dal Regno Unito.

Tornato in Europa agli inizi del 1988, Moore richiama Neil Carter e gli spiega che i ritmi celtici inclusi in Wild Frontier hanno avuto successo, anche dal vivo: perché non riprovarci? L’unica differenza sarà il ritorno di una batteria dal vivo, affidata al fenomenale Cozy Powell che nel frattempo si è stancato di passare da una band all’altra ed è deciso a fare il sessionman.
After The War esce nel gennaio 1989, prodotto dal solo Peter Collins con la partecipazione straordinaria di Ozzy Osbourne alla voce sul sinistro heavy sinfonico “Led Clones”, condotto in stile Led Zeppelin e infarcito di armonie beatlesiane. Aperto dalla solita miscela tra hard-rock e ritornelli pop (“After The War”), il disco accelera sull’heavy-metal (“Speak For Yourself”)  prima di collassare sullo strumentale etereo “The Messiah Will Come Again”.
Il disco è debole nelle idee e banale nell’esecuzione, come nell’hard-and-roll “This Thing Called Love”, riprendendo la tradizione sonica irlandese soltanto nella finale “Blood Of Emeralds”, che riscrive la giga con il riff roboante e la ritmica marziale. Mezzo punto in più solo per “Dunluce”, breve strumentale diviso in due parti con un solo chitarristico da brividi.

Nel marzo 1989, con il nuovo tour ai nastri di partenza, il nuovo batterista Cozy Powell sbotta contro Moore e lo abbandona, stanco di prendere ordini sul modo di suonare. Alle pelli siede l’ex-Firm Chris Slade, che parte insieme al gruppo in un nuovo giro del mondo, in location sempre più grandi. Nonostante un buon tasso di vendite dopo l’avvento di Barnett e della Virgin, la conquista dell’America rimane sempre una chimera, portando Gary a uno stato di frustrazione e nervosismo. Il vero problema è che il talento di Moore non è riuscito a inserirsi sulla scia dei grandi chitarristi inglesi (Clapton, Beck, Page), ma nemmeno in quella dei virtuosi dell’heavy come Satriani, Vai e Malmsteen. Un vero e proprio limbo, che lo ha risucchiato sia commercialmente che artisticamente, causato anche dalla cronica mancanza di un cantante fisso, di un frontman che nel mondo dell’hard & heavy è più che fondamentale. Last, but not least, la sfortuna di far uscire album in patria e provare a farli entrare nelle classifiche oltreoceano dove negli anni 80 dominano titoli come “Pyromania” (Def Leppard), “Master Of Puppets” (Metallica) e “Slippery When Wet” (Bon Jovi). Ma si parla di band con identità forti non solo a livello musicale. Abbigliamento, trucco, video: elementi accessori che sono importanti per i fan, che Gary Moore non vuole accettare perché “cosa altro ci dovrebbe essere oltre la musica?”. Arriva così un inevitabile momento di svolta, quando nell’aprile 1989 è in camerino prima di un concerto in Germania e sta strimpellando qualcosa da Mayall e i suoi Blues Breakers. Bob Daisley all’improvviso gli dice: “Hey, perché non facciamo un disco blues? Sarà la cosa più grande che farai nella vita”.

Ho ancora il blues

 

Quando termina il tour di After The War alla fine del 1989, Gary Moore ripensa a cinque anni prima, quando l’idea di un disco blues era considerata un’eresia dal suo stesso management, convinto di poterlo rendere una stella sul panorama del rock più duro. Alla fine del decennio, Gary guarda al giovane Jeff Healey, che ha guadagnato giusto un anno prima grandi consensi con il suo disco di debutto “See The Light”. Ma anche a giganti del blues più antico come John Lee Hooker, che pochi mesi prima ha rilanciato la sua carriera con il disco “The Healer”. Probabilmente a causa di un rinnovato appeal commerciale nei confronti della musica del diavolo, Steve Barnett questa volta approva l’idea. Moore è elettrizzato, ricontatta Don Airey e Andy Pyle chiudendosi in studio con il produttore Ian Taylor.
Le prime registrazioni demo sono un mix tra classici e originali, prodotti in forma grezza per permettere ai boss della Virgin di ascoltare il materiale. Il brano “Still Got The Blues (For You)” convince tutti, dando il via libera al nuovo disco con l’inserimento di Mick Weaver al pianoforte e Graham Walker alla batteria. Inatteso, l’entusiasmo di tutto il management di Moore porta a collaborazioni eccellenti, in primis quella della leggenda Albert King che viene invitato per registrare “Oh, Pretty Woman” (A.C. Willams) dal suo capolavoro “Born Under A Bad Sign”. Arrivato a Londra, King non conosce bene Gary, pensa che sia l’ennesimo ragazzino bianco che vuole fare il blues. Poi lo sente suonare, costruire architetture in twelve-bar come un veterano, accompagnato da una fanfara di fiati e con una voce insolitamente calda e sensuale. Il dialogo con la Gibson Flying V di King, meglio nota come Lucy, è la miccia che fa deflagrare l’album Still Got The Blues, pubblicato nel marzo 1990 con una copertina programmatica: il giovane Moore seduto su un divano mentre prova con una chitarra più grande di lui, mentre una foto di Jimi Hendrix campeggia appesa al muro.
In partenza a tavoletta con il boogie “Moving On”, l’album recupera il blues elettrico dalla scuola di Chicago (“Walking By Myself” dal catalogo di Jimmy Rogers) e piazza il grande colpo con l’intensa ballata soul “Still Got The Blues”, tenuta per mano da Moore con una intera sezione d’archi diretta da Gavyn Wright. Le nuove composizioni scorrono fresche e grintose, quando l’intro ripreso dai Cream fa esplodere il nuovo boogie in stile Zz Top “Texas Strut”. A seguire, l’esplosivo duetto con la chitarra di Albert Collins, “Too Tired”, mentre “King Of The Blues” fa il verso allo stile di B.B. King. L’ipnotica “As The Years Go Passing By” raggiunge un altro picco sulla morbida sezione fiati e la combo di piano e tastiere di Nicky Hopkins/Don Airey. Finalmente libero dalla schiavitù del riff heavy metal, Gary Moore può liberare tutto il suo talento, costruendo vere e proprie cattedrali soniche degne dei migliori bluesmen negli anni addietro. A incorniciare un disco eccelso, la collaborazione con George Harrison sulla fanfara beat “That Kind Of Woman” e una versione extra-lusso della “Stop Messin’ Around” dei Fleetwood Mac dell’idolo Peter Green.
L’azzardo di Moore verso il blues paga incredibilmente: il singolo “Still Got The Blues” è l’unico che riesce a piazzarsi nella Top 100 di Billboard, mentre l’intero album raggiunge la posizione 83 nella Billboard 200, portando all’agognato Disco d’oro con il benestare della Riaa. Ci voleva una musica antica per destare l’attenzione del pubblico statunitense.

L’improvviso successo dell’album porta ovviamente a un immediato ritorno in tour, a nome Gary Moore & The Midnight Blues Band, con tanto di sezione fiati anche dal vivo. Tra Europa e Regno Unito, il giro di concerti è trionfale, perché a differenza di altre volte c’è il disco giusto al momento giusto. Ma, soprattutto, perché sia critica che pubblico apprezzano una rinnovata sincerità da parte di un musicista praticamente nato per suonare il blues. Ora a suo agio anche a livello vocale, Moore scopre dal vivo un nuovo gusto di stare sul palco insieme a tanti nuovi amici, come ad esempio Albert Collins che lo raggiunge sul palco del celebre festival di Montreux nell’estate 1990. Inizialmente previsto solo per alcune settimane, il tour si allarga fino a sei mesi finendo a settembre con alcune date negli stadi come supporter di Tina Turner.
Il momento è propizio e il management spinge per un tour mondiale con tappe negli States e in Giappone, ma Gary spiazza tutti e rifiuta categoricamente. Lo stesso ritorno al blues è stato pensato per evitare lo stress dei concerti, dei lunghi viaggi lontano dai figli piccoli e da una mai sopita ansia da prestazione. In aggiunta, inizia ad avere alcuni problemi all’udito, dopo anni di volumi altissimi. Dopo la tragica morte di Stevie Ray Vaughan, Moore entra in una spirale di depressione, pur avendo la sua famiglia vicino nel nuovo trasferimento statunitense per questioni fiscali. La casa di produzione Nfl Films lo attende a Los Angeles per filmare “An Evening Of The Blues”, ma Gary non ci sente (e non solo per questioni legate a pericolose infezioni all’orecchio). La Virgin e Steve Barnett iniziano a mugugnare, perché si tratta di un’occasione irripetibile per mettersi al centro della scena a stelle e strisce, il grande punto debole finora.

Tutto quello che Moore vuole fare nel 1991 è tornare in studio per il suo secondo album blues, avidamente atteso dalla sua etichetta dopo il successo clamoroso di Still Got The Blues. Il produttore Ian Taylor cerca di togliergli pressione, facendogli presente che un bis è altamente improbabile. Per uno strano scherzo del destino, Gary ha abbracciato il blues per liberarsi della morsa dell’heavy, salvo tornare in quella della stessa musica del diavolo dopo un solo album. Mentre il processo creativo ed esecutivo di Still Got The Blues è stato libero e spontaneo, quasi immediato, quello del successivo After Hours è tortuoso, pieno di intoppi tra cui la morte dell’amica cantante Vicki Brown, a cui l’album è appunto dedicato.
Pubblicato nel marzo 1992, il disco torna alla vecchia usanza di lavorare con un numero imponente di musicisti, ben quattro bassisti tra cui il fido Bob Daisley e Andy Pyle. Se il precedente album è un omaggio alla grande tradizione dei bluesmen anglo-americani, il nuovo lavoro è molto più orientato verso un sound in stile Stax, a partire dall’iniziale “Cold Day In Hell”, che si avvale di una importante sezione fiati e di un coro femminile sul finale. Le stesse cover scelte nell’album, come il classico anni 40 “Don't You Lie To Me (I Get Evil)”, denotano un approccio più corale da orchestra soul-blues, con la chitarra meno preponderante ma incastrata all’interno di un’architettura da big band.
Non mancano però i numeri a valorizzare il talento di Moore, che piazza il colpo da novanta nella successiva ballata “Story Of The Blues”. Nello swing “Since I Met You Baby” c’è il dialogo voce e chitarra con il nuovo ospite B.B. King, seguito dal ritrovato Albert Collins nel rifacimento “The Blues Is Alright” di Little Milton, con un grande lavoro della sezione fiati nota come Memphis Horn. Dal velocissimo hard-rock di “Key To Love” (Mayall) allo struggente slow-blues “Jumpin' At Shadows”, After Hours è un disco che al di là delle difficoltà di gestazione offre un altro volto nel cambio radicale di Gary Moore da guitar-hero a bluesman raffinatissimo.

Nonostante la presenza di ottimi brani, il nuovo album non arriva neanche lontanamente alle vendite di Still Got The Blues, pur ottenendo il disco d’oro e posizionandosi ottimamente nella classifica inglese. Moore si trasferisce nuovamente negli States prima di iniziare un nuovo tour nel giugno 1992 all’Hammersmith Odeon di Londra. Le date di agosto vengono però cancellate a causa di continui problemi all’udito, con una ripresa verso fine anno che vede una data memorabile al Town and Country Club di Londra, con un duetto da brividi con B.B. King sul classico “The Thrill Is Gone”.
Diverse date del tour nel 1992 vengono registrare dal vivo per l’uscita del disco Blues Alive, che contiene diverse esecuzioni degli ultimi due dischi con l’aggiunta di alcune chicche, dalla maratona di quasi nove minuti “The Sky Is Crying” (Elmore James) all’incendiaria “Further On Up The Road”. Una sincera esaltazione dal vivo dell’ultimo repertorio dopo la svolta in twelve-bar.

BBM

 

Nel corso del 1993 Gary Moore si prende una pausa, sia dai tour che dagli studi di registrazione. Improvvisamente arriva una telefonata dall’amico Jack Bruce, che ha appena perso il suo chitarrista Blues Saraceno, accasatosi nei Poison. L’ex-bassista dei Cream deve onorare un paio di date ad agosto in Germania, così chiede a Gary se può unirsi a lui temporaneamente. L’innesto di Moore è ovviamente perfetto e la sintonia con Bruce porta subito a una proposta di collaborazione per un nuovo album. Le prime registrazioni conducono Gary a un’idea: costruire dei nuovi brani tagliati su misura per la voce robusta di Jack. A novembre, in occasione di un all-star concert a Colonia per il cinquantesimo compleanno di Bruce, a salire sul palco è un’altra leggenda dei Cream, il batterista Ginger Baker. Gary quasi non ci crede: suonare nel ruolo di Eric Clapton con due terzi di una delle sue band preferite di sempre. L’idea si fa sempre più folle, assoldare lo stesso Baker – che negli anni non ha mai avuto un rapporto propriamente idilliaco con Bruce – e partire con un progetto da zero, non come nuovo album blues di Gary Moore. Quando si presenta negli uffici della Virgin, i Cream hanno da poco guadagnato un posto nella Rock and Roll Hall of Fame, suonando per la prima volta davanti a un pubblico dal 1968. L’occasione è troppo ghiotta: riformare parte della storica band – Clapton ha infatti rifiutato – con il miglior chitarrista della scuderia. L’etichetta accetta, nascono ufficialmente i BBM, nome scelto molto semplicemente tra tantissime opzioni sul tavolo.

Il primo disco si intitola Around The Next Dream e viene pubblicato nel maggio 1994, aperto da “Waiting In The Wings” che è praticamente impossibile da distinguere da quello che era il sound incendiario di “White Room”. Mentre il wah-wah di Moore si differenzia solo per certi versi da quello claptoniano, sia la voce di Bruce che il ritmo di Baker sembrano più riecheggiare il tempo che fu. Probabilmente intrappolati da un effetto Cream reunion, i tre sembrano quasi farsi sfuggire un citazionismo eccessivo, come nella successiva “City Of Gold” che è la copia di “Crossroads”. Il lavoro di Moore è sicuramente eccelso – dalla lenta e sinuosa “Can’t Fool The Blues” al soul di “I Wonder Why (Are You So Mean To Me?)” – ma la sensazione generale all’ascolto è quella della proverbiale montagna che partorisce il piccolo roditore.
Il disco presenta comunque momenti pregevoli, dalla ballata elettro-acustica “Where In The World” alla lunga improvvisazione in chiave jazz “Why Does Love (Have To Go Wrong?)”. Il resto delude le aspettative altissime, tra un hard-pop senza verve (“Glory Days”) e un soul a ritmo di valzer (“Naked Flame”).
Nonostante qualche cattiveria sull’avvicendamento tra Clapton e Moore, l’album vende abbastanza bene arrivando al numero nove della classifica inglese. Ma l’alchimia creata in studio di registrazione si dissolve in un amen durante il tour europeo, con l’emergere dei soliti dissapori tra Bruce e Baker e la pesantezza insita in tre personalità fortissime da gestire su un palcoscenico. Acclamati dal pubblico in ogni data, i BBM alternano esibizioni a cinque stelle e litigate su volumi e amplificatori. Ad aggiungere ulteriori problemi, i continui dolori alle orecchie di Gary, che nel frattempo viene investito dalla stampa di gossip circa una presunta relazione extra-matrimoniale con una ragazza di 23 anni di nome Camilla. Il suo matrimonio con Kerry va in pezzi, così come il sodalizio con gli ex-Cream.

Moore ha certamente bisogno di riprendersi, così si concede una pausa per gran parte del 1994, lasciando al suo nuovo manager John Martin il compito di mettere insieme il suo primo compilation album, intitolato Ballads And The Blues 1982-1994, che contiene i suoi brani più soft e l’inedito strumentale “Blues For Narada”.
Dopo un più che meritato riposo, Moore pensa alla sua prossima mossa, un disco tributo alla sua più grande ispirazione sonica. Peter Green è fermo dagli inizi degli anni 80, dopo aver provato il ritorno sulle scene con dischi passati inosservati. Abbrutito da una severa forma di malattia mentale, l’ex-chitarrista dei Fleetwood Mac ha avuto da sempre una grande influenza su Gary, che ora vuole rendergli il giusto omaggio. Vengono così richiamati Andy Pyle (basso), Graham Walker (batteria) e Tommy Eyre (tastiere) per ricreare il giusto sound in stile Green, ma allo stesso tempo offrire una nuova veste sonica a brani leggendari, scelti tra l’altro accuratamente per fare in modo che lo stesso Peter riceva il massimo delle royalties.

Aperto dal blues scuola Chicago “If You Be My Baby”, l’album Blues For Greeny esce nel maggio 1995 e divide leggermente la critica, tra chi parla di un semplice esercizio discografico e chi apprezza la capacità di Moore di ricreare fedelmente il Peter Green sound. La verità sta nel mezzo, tra brani sinuosi e perfettamente eseguiti (“Merry-Go-Round” o la lunga “Driftin’”) ed effettivi esercizi di coverizzazione poco significativi, come ad esempio il rock’n’roll “Long Grey Mare” o il soul-blues “The Supernatural”, dall’album “A Hard Road”, in cui Green presta la sua chitarra a John Mayall & The Bluesbreakers. Non si può certamente parlare di un disco mancato – il finale sussurrato di “Looking For Somebody” è da antologia – ma il tributo di Moore è più un sincero tentativo di far rifiorire la carriera di un musicista perduto che un modo davvero innovativo di riproporre la sua arte.

Il tour di Blues For Greeny parte alla fine di aprile allo Shepherd’s Bush Empire di Londra, la cui esibizione viene filmata dal vivo con la presenza nel backstage dello stesso Green. Il giro di concerti è breve, tocca la Germania e poi ancora il festival di Montreux.

Un ritmo differente

 

Fine 1995. Alle prese con un dispendioso divorzio, Gary Moore ha fortunatamente ricevuto un sostanzioso anticipo da John Martin per il suo prossimo album da solista. Nella testa del chitarrista c’è un nuovo cambio di direzione, lontano sia dall’heavy-rock anni 80 che dal blues. Un sound diverso, non per forza incentrato sulla potenza della chitarra, qualcosa che risulti più contemporaneo. Viene richiamato l’amico produttore Chris Tsangarides, insieme al nuovo batterista e compositore Gary Husband. Le prime sessioni di registrazione sono in Francia, agli studi Miraval, poi alle Barbados, sempre per questioni legate al fisco che lo tengono lontano dal Regno Unito a intervalli regolari.
È una gestazione difficile e tortuosa, quella di Dark Days In Paradise, pubblicato nel giugno 1997 e spiazzante fin dai primi minuti di “One Good Reason”, iper-ballata su tappeti elettronici e svolazzate d’archi, tra pause drum and bass e accelerate quasi grunge. Quando parte il talking-blues suburbano di “Cold Wind Blows”, sembra impossibile pensare a una qualsiasi incarnazione di Moore, che gioca addirittura con il sitar in un contesto ansiogeno, come fosse Mark Lanegan. Al di là di brani più smaccatamente melodrammatici, come “I Have Found My Love In You” e “Like Angels”, l’album è sorprendentemente solido per un cambio di direzione così repentino. “One Fine Day” è una meraviglia beatlesiana con una linea di basso in stile “Rain”, mentre “Always There For You” miscela tessiture jazzy su una base elettronica atmosferica. La chitarra è per la prima volta quasi in disparte, come uno degli elementi compositivi di brani quasi bowiani come “Afraid Of Tomorrow”.
Sul finale, l’intensa ballad elettro-acustica “Where Did We Go Wrong?” e soprattutto la maratona di quasi venti minuti “Business As Usual”, che si apre con il canto melodico su architetture elettroniche ambient per poi deviare verso un sound orchestrale prima di spiccare il volo su una chitarra eterea. Con tanto di stornello tex-mex finale nella ridde track “Dark Days In Paradise”, che a colpi di marimba spazza via anni di rock pesante e perle blues.

Il cambio di rotta non viene apprezzato dal pubblico, il disco vende poco. Moore si separa dal suo manager John Martin e soprattutto dalla Virgin, che lo lascia senza un contratto discografico alla fine del 1997. Dopo il tour di Dark Days In Paradise, Gary prenota i Marcus Studio 3 per sei mesi, per lavorare insieme al produttore Ian Taylor sul prossimo disco. Nel corso del 1998 sono drasticamente cambiati i gusti di Moore, avvicinatosi al lavoro del dj Fatboy Slim e al mix di rock, ambient e techno della band inglese Apollo 440. Se in Dark Days In Paradise l’influenza della drum and bass è solo accennata, A Different Beat si concede senza pudore al dancefloor, fondendo l’epica rock con il sudore dei battiti, come nel brano di apertura “Go On Home”, che a tutti gli effetti riprende lo stile dance-rock di Fatboy Slim.
Pubblicato dalla Castle – l’unica ad apprezzare il disco in mancanza di una etichetta più importante – A Different Beat porta all’estremo le sperimentazioni del disco precedente, pompando la drum and bass (“Lost in Your Love”) e tentando una discreta fusione tra blues-rock ed elettronica (“Worry No More”) che riesce anche a centrare il bersaglio. Se di cover come quella di “Fire” (Hendrix) non se ne sentiva un bisogno impellente, i quasi dieci minuti della melliflua “Surrender” sono un esercizio interessante dopo aver frequentato la classe del rock emozionale in stile Santana applicato all’elettronica d’atmosfera.
Mixato dal collettivo inglese E-Z Rollers, il disco procede imperterrito sull’approccio drum and bass (“House Full Of Blues”), adattando il tipico sound western-blues ai ritmi di una discoteca techno londinese di fine anni 90 (“Bring My Baby Back”). Il risultato è certo spiazzante, ai limiti del blasfemo, eppure – fatta eccezione per numeri evitabili, come l’omaggio allo stesso Fatboy Slim in “Fatboy” – Moore dimostra coraggio e voglia di rinnovarsi, come nella conclusiva “We Want Love”, che si fa ascoltare gradevolmente tra bassi imponenti e svolazzi soul.

Ritorno al blues

 

Il coraggio mostrato da Moore tra il 1997 e il 1999 con Dark Days In Paradise e A Different Beat non paga in termini di vendite, tra le peggiori della sua carriera. In attesa di un altro figlio dalla nuova compagna Jo, senza un contratto discografico importante, il chitarrista nordirlandese capisce che è arrivato il momento di tornare al genere che ha fruttato di più. Il tour che segue A Different Beat vede infatti il ritorno alla musica del diavolo, ovviamente facilitato dalla sostanziale difficoltà a eseguire la deriva dance dal vivo. Gary cambia per l’ennesima volta i suoi musicisti, accogliendo il tastierista Vic Martin e il bassista Pete Rees. Su suggerimento di Don Airey, viene inoltre assoldato il batterista Darrin Mooney, dal momento che Gary Husband non è proprio un musicista adatto al genere. Il nuovo giro di concerti parte dal Regno Unito per spostarsi prima in Europa e poi nei mai frequentati paesi dell’Est, Russia ed Estonia.

Alla fine del tour si torna subito in studio con Tsangarides, per lavorare a un nuovo disco blues. A differenza del passato, Moore vuole un album più diretto, senza fronzoli, quasi registrato in presa diretta. Basta così un mese per pubblicare Back To The Blues, dato alle stampe dalla Sanctuary nel marzo 2001.
A partire dal ritmo boogie di “Enough Of The Blues”, il disco solidifica un approccio piuttosto tradizionale al rock-blues elettrico, al netto di sporadici momenti come “You Upset Me Baby” che rivisitano B.B. King in chiave orchestrale. È la prima delle poche cover inserite nel disco, seguita dal classicone “Stormy Monday” (T-Bone Walker) in una versione che, pur perfettamente eseguita, non aggiunge nulla alla sua prestigiosa legacy.
La sensazione generale all’ascolto non permette però di distinguere il sound delle reinterpretazioni – ad esempio, la frenetica “Looking Back” (Johnny Guitar Watson) – da quello dei brani originali composti da Moore ed eseguiti con musicisti piuttosto tradizionalisti. “Cold Black Night”, ad esempio, è piuttosto simile alla già registrata “Messin’ With The Kid”, mentre “Picture Of The Moon” è quasi assurdamente vicina alla hit “Still Got The Blues”. Esce così fuori un disco ben eseguito, ma svuotato da ogni originalità, pedissequo nella sua interpretazione di un genere che all’inizio del nuovo millennio avrebbe bisogno di una fresca riverniciata.

Acclamato per lo più nei paesi scandinavi – dove Moore non ha mai perso il suo gripBack To The Blues porta a un nuovo tour tra Regno Unito ed Europa. Gli ultimi giri dal vivo sono rapidi, non oltre i due mesi, perché Gary vuole trascorrere sempre più tempo con la sua famiglia. Dopo l’uscita della nuova compilation in doppio album The Best Of The Blues – che raccoglie chicche inedite come lo scatenato swing-blues “Caldonia” con Albert Collins e Albert King e una versione da brividi del classico di B.B. King “The Thrill Is Gone” – c’è un nuovo progetto all’orizzonte. Moore ripensa al sound di Jimi Hendrix, alla sua impostazione in formato power-trio, per riproporre un formato più aggressivo con musicisti più giovani. Il batterista dei Primal Scream Darrin Mooney è ancora disponibile e suggerisce il nome dell’amico bassista Cass Lewis, appena fuoriuscito dalla disgregazione degli Skunk Anansie e grande fan dei Thin Lizzy. Viene così costituito una sorta di instant team, con il nome di Scars, che partorisce molto rapidamente l’omonimo disco di debutto nell’estate del 2002.
Dagli effetti wah-wah di “When The Sun Goes Down”, il disco richiama inequivocabilmente il sound aggressivo e vintage dei grandi power-trio del passato, in primis Cream e ovviamente Jimi Hendrix Experience. Una fedeltà a tratti eccessiva visto che “World Of Confusion” è una riscrittura di “Manic Depression”, mentre la chilometrica “Ball And Chain” prende in prestito il riff di “Voodoo Child” e “World Keep Turnin' Round” è troppo simile a “Crosstown Traffic” per essere considerata un brano originale.
Scars è così un album profondamente divisivo, perché da una parte è soltanto un omaggio vintage (pur suonato benissimo), dall’altra un tentativo di rielaborare un sound antico in chiave moderna, come nel riuscito mix tra batteria jazz e tessiture elettroniche “Wasn't Born In Chicago”, che riprende la deriva contemporanea degli ultimi album. L’addolcimento con ballate come “Who Knows (What Tomorrow May Bring)?” aiuta in questo senso a capire un disco che per gran parte del tempo è un esercizio di stile e un ricordo del tempo che fu.

Il tour successivo a nome Scars viene diviso con gli Zz Top, in qualità di very special guest e non come classico gruppo d’apertura. La band prosegue l’attività live nel 2003 in compagnia di Whitesnake e Y&T allo Uk Monsters of Rock Tour, ma il disco vende pochissimo e ulteriori date vengono cancellate come quella al Festival di Montreux. Se l’idea iniziale era di continuare a lungo come Scars, il progetto naufraga dopo nemmeno un anno anche a causa di frizioni tra lo stesso Moore e Cass Lewis. Mentre Gary pensa alla prossima mossa, la Sanctuary pubblica il disco Live At Monsters Of Rock, registrato il 21 maggio 2003 alla Sheffield Hallam Arena. L’esibizione include versioni inattese di classici come “Shapes Of Thing” e “Wishing Well”, praticamente escludendo dalla scaletta i nuovi brani composti con il progetto Scars.

Nonostante il naufragio degli Scars, Moore decide di insistere nella formazione a tre con il fido Bob Daisley al basso e mantenendo Mooney alla batteria. Power Of The Blues viene pubblicato nel 2004 e segna il ritorno al blues più tradizionale, incentrato sulle versioni da Willie Dixon di “Evil” e “I Can’t Quit You Baby” in stile Zeppelin. In “Memory Pain” (Percy Mayfield) c’è sicuramente la giusta dose di sofferenza dal gusto soul, mentre la ballad “That's Why I Play The Blues” mette in mostra tutte le doti di una chitarra intensa ed emozionale. È forse proprio la potenza dello strumento che rende interessante il disco, ad esempio sullo scatenato jazz-blues “Can't Find My Baby” o sulla finale “Torn Inside”, che sembra uscita diretta dal repertorio del suo idolo Peter Green.

A sorpresa, Power Of The Blues convince la critica a tal punto da far gridare al migliore disco blues dai tempi di Still Got The Blues. Il tour del 2004 inizia come supporto a Bob Dylan in due date in Irlanda, prima di partire ufficialmente per diverse date in Europa. C’è però un problema inatteso, una severa infezione alla mano destra causata da una iniezione di steroidi, che gli impedisce anche solo di impugnare una forchetta dal gonfiore. Il tour viene cancellato, ma l’assicurazione non paga per questo tipo di problematiche, portando il conto di Moore – già non particolarmente gonfio a causa di dischi mal venduti e soprattutto di continui rifiuti a imbarcarsi in tour troppo estesi come in estremo Oriente dove invece è considerato una divinità – ad affrontare pesanti debiti con promoter, agenti e società di ticketing. Gary è così costretto a vendere a un compratore rimasto anonimo la sua Peter Green 1959 Les Paul Standard Serial No: 92038 per una cifra vicina alle 300.000 sterline. La vendita porta a un piccolo giallo: la preziosa chitarra viene avvistata a un festival a Dallas con un cartellino che reca un prezzo molto più alto. Per Moore è uno shock, convinto di aver obbligato il misterioso acquirente a non rivendere lo strumento, che finirà diversi anni dopo nelle mani di Kirk Hammet dei Metallica.

Nel 2006 viene pubblicato Old New Ballads Blues, che vede il ritorno di Don Airey alle tastiere. Il titolo del disco è auto-esplicativo, perché Moore include un leggero mix di vecchie cover, dallo standard in wah-wah “Done Something Wrong” (Elmore James) alla versione soul di “You Know My Love” (Willie Dixon), fino all’ennesima riproposizione di “All Your Love” (Otis Rush) nell’interpretazione dei Blues Breakers. L’album presenta poi un pugno di brani originali, dalla suadente versione per fiati del classico “Midnight Blues” alle atmosferiche “Gonna Rain Today” e “No Reason To Cry”. A sorpresa, le nuove esecuzioni – in primis la strumentale “Cut It Out” – suonano migliori dei grandi classici, trasformando un disco apparentemente vetusto in un piacevole ricambio d’aria.
Moore vuole portare subito in tour il nuovo album, ma Don Airey e il bassista Jonathan Noyce hanno altri impegni, così vengono richiamati Pete Rees e Vic Martin, insieme al gradito ritorno del vecchio amico Brian Downey. Alcune date vedono la band esibirsi nel corso di quello che dovrebbe essere l’ultimo tour di B.B. King. Tra una tappa e l’altra, Gary incontra il banjoista e cantante di Chicago Otis Mark Taylor, che lo invita a suonare sul suo album “Definition Of A Circle” (2007). Moore ricambia il favore invitando la sua band in tour, per la gioia di Otis che non è mai riuscito a suonare in location così prestigiose. È un periodo di grande fermento per il chitarrista nordirlandese, che segue diversi artisti blues dal vivo – primo su tutti l’amato Mayall – e si apre a musicisti sempre più interessanti, che lo portano a decidere di ritornare a un sound grezzo e diretto, senza effetti ma con il solo strumento collegato a un amplificatore.

Close As You Get, pubblicato dalla Eagle nel maggio 2007, è un’autentica sorpresa, di certo uno dei dischi blues più genuini e riusciti dai tempi di Still Got The Blues. Il sound è grezzo e potente, mentre il blues elettrico sgorga abbondante dalla chitarra senza soluzione di continuità. L’album riprende – questa volta con spontaneo fervore – vecchie cover, due da Sonny Boy Williamson (“Eyesight To The Blind” e “Checkin Up On My Baby”), una in chiave rock’n’roll da Chuck Berry (“Thirty Days”) e l’ultimo, immancabile omaggio al maestro John Mayall nello slow-blues “Have You Heard?”. Menzione d’onore per i sette minuti acustici di “Sundown” (Son House), rara ed emozionante prova di country-blues acustico in una discografia completamente votata al dio elettrico. Rispetto alle recenti prove blues, l’album rappresenta i diversi colori della musica del diavolo, spaziando dai toni hard di “If The Devil Made Whisky” a quelli più soul e intimisti di “Trouble At Home”.

Apprezzato dalla critica, il disco apre a un lungo tour nel corso del 2007 con la nuova band, tra Regno Unito, Germania e Russia. L’anno termina con una data speciale: il 25 ottobre 2007 si sale sul palco del London Hippodrome insieme a Dave Bronze al basso e Darrin Mooney alla batteria, ma soprattutto con due ospiti d’onore, Billy Cox e Mitch Mitchell. Un live d’eccezione, per il lancio del disco “Live At Monterey”, dove Moore ha il compito di rievocare la chitarra di Jimi Hendrix reinterpretando dal vivo i suoi grandi classici, da “Purple Haze” a “The Wind Cries Mary”.

I problemi non sono molto lontani

 

Terminato il tour di Close As You Get nell’estate del 2008, Gary Moore torna in studio per registrare quello che sarà il suo ultimo album, Bad For You Baby. Il disco continua a spingere sull’acceleratore sulla falsariga del precedente, partendo dalle cover di Muddy Waters – il ruggente Chicago-blues “Walkin' Thru The Park” e la jazzy “Someday Baby” – per spingersi fino ai territori di Al Kooper (la lunghissima suite soul “I Love You More Than You'll Ever Know”) e dell’antico J.B. Lenoir in uno scatenato “Mojo Boogie”. La voce roca di Moore è in grandissima forma, così come la sua chitarra che si arrampica in territori zeppeliniani sulla durezza del riff di “Umbrella Man” o sulle acrobazie rockabilly di “Down The Line”. Dalla pura melodia soul di “Holding On” – con Cassie Taylor all’accompagnamento vocale – alla sua prima volta all’armonica nella sensuale “Preacher Man Blues”, Gary Moore confeziona un’altra grande prova di ritrovata classe e verve sonica.

Estate 2008. Terminata la prima parte del tour del nuovo disco a Faro, in Portogallo, Gary e Jo decidono di fermarsi in vacanza per rilassarsi. La nuova compagna di Moore è però sempre più preoccupata dalle continue sbronze e più in generale da un mood che è tornato a farsi cupo. A ottobre, in attesa di una comparsata nel corso di uno show televisivo tedesco, il promoter locale George Hofmann invita a cena una fan di nome Petra Nioduschewski. La relazione con Gary sboccia all’improvviso, mentre Jo è a casa con i bambini e lo attende per oltre dieci giorni, scoprendo successivamente il tradimento grazie ai tabulati telefonici di un numero intestato a lei stessa. Moore decide di trasferirsi in un appartamento vicino a quello familiare, continuando la relazione con Petra tra numerosi voli in partenza su Gatwick. Alla vigilia di capodanno 2009, insieme ai sodali Pete Rees e Vic Martin, vola in Russia per una esibizione privata al Ritz Carlton Hotel di Mosca davanti al primo ministro Vladimir Putin, dietro un compenso di oltre 250.000 dollari. La band, con l’aggiunta di Steve Dixon alla batteria, inizia un lungo tour per tutto il nuovo anno, stranamente voluto dallo stesso Gary che vuole passare più tempo possibile lontano da Jo e i bambini.

A giugno esce il monumentale Essential Montreux, raccolta in ben cinque dischi per oltre sei ore di musica con l’inserimento di diverse esibizioni di Moore al noto festival svizzero dal 1990 al 2001.
Dopo aver comprato una nuova casa a Brighton, Moore inizia a convivere con la sua nuova fiamma dai capelli color platino, che però non ama la vita familiare. Visibilmente depresso e fuori forma, Gary peggiora a vista d’occhio tra cene fuori, alcol e cibo spazzatura da asporto. Il sospetto è che Petra abbia accettato di vivere con Moore solo perché cacciata dal suo ex-compagno, che quindi non provi nulla di così forte per lui. Una relazione tossica, che il chitarrista nordirlandese non ha la forza di gestire con fermezza, finendo col diventare irreperibile al telefono. Gary si abbandona a se stesso, aumenta di peso in maniera vistosa perché lascia la sua ultima dieta vegetariana concedendosi alla pancetta e a colossali bevute.
All’inizio del 2010 si torna in tour tra Russia, Giappone e Corea del Sud, ma il nuovo giro di concerti viene interrotto in primavera a causa dell’esplosione del vulcano islandese Eyjafjallajökull, che porta alla chiusura delle tratte aeree. Ad aprile Moore annuncia la fine della sua ultima band con Rees e Martin, intenzionato a cambiare ancora una volta direzione musicale su un progetto di musica celtica. A mettere ancora in difficoltà le sue finanze ci pensa una causa intentata dalla band Jud’s Gallery, che lo accusa di aver plagiato un brano intitolato “Nordrach” nella hit mondiale “Still Got The Blues”. Nel frattempo fervono i preparativi per il nuovo disco insieme a Jon Noyce, ma le prime sessioni sono un disastro a causa dello stato psico-fisico dello stesso Moore, ormai incapace di concentrarsi e di essere produttivo.
La situazione precipita durante le ultime esibizioni dal vivo nell’estate 2010, quando salta intere parti di chitarra e non riesce quasi a stare in piedi per gli alcolici. Prima delle date in Russia, Moore invita Petra a far parte della crew per il tour, portandosi appresso problematiche e litigi continui. La data di luglio al Festival di Montreux – ultima apparizione live registrata – vede il recupero a sorpresa del materiale del disco Wild Frontier, con l’aggiunta di tre brani che dovrebbero far parte del suo prossimo disco di matrice celtica.

Tra il 17 e il 20 gennaio 2011 Moore entra in studio con Noyce e il nuovo batterista Rob Green, che è una scelta particolare dato il suo rapporto sentimentale con la sua ex-moglie Kerry. Le sessioni vengono interrotte agli inizi di febbraio, quando Gary e Petra salgono su un aereo per Malaga per poi raggiungere in auto la località di Estepona, dove alloggeranno nell’hotel a cinque stelle Kempinski. Il 6 febbraio 2011, alle sette del mattino, il tecnico e amico Darren Main riceve una telefonata da parte di Petra: Gary Moore è morto alle quattro di notte, soffocato nel sonno dal proprio vomito. “Cosa è successo?”, chiede Darren a Petra. “Era tranquillo e non l’ho sentito respirare male. Non beveva dalle date in Russia”. Nessun’altra informazione, solo parole. Darren si incarica di informare i familiari, visto che Petra non ha avvisato praticamente nessuno. Prova a contattare subito Jo, perché non vuole che lo venga a sapere dai giornali. Ma non risponde. Nel frattempo Petra chiama la sicurezza dell’hotel, mentre la madre di Gary è in stato di shock. Lo vengono a sapere tutti, da Don Airey che scoppia in lacrime allo storico produttore Chris Tsangarides: nessuno può credere a quello che si dice. Nel pomeriggio, il mondo apprende che il grande chitarrista blues Gary Moore è deceduto.
“Il cuore spezzato della bellezza bionda che era l’ultimo amore del chitarrista dei Thin Lizzy Gary Moore”. Così titola il Daily Mail una settimana dopo il tragico avvenimento, ignorando sinteticamente decenni di carriera di uno dei grandi loner del rock. Petra non partecipa nemmeno al funerale, spiegando di averne già avuto abbastanza guardandolo morto nel suo letto. Le analisi post-mortem parlano all’inizio di un probabile attacco di cuore, successivamente coperte da insistenti voci che invece raccontano di un decesso in stile John Bonham: soffocamento da vomito dopo un’overdose di alcolici. Quando sono ufficialmente avviate le indagini del coroner Veronica Hamilton-Deeley, Petra non si presenta limitandosi a una testimonianza telefonica. Alla fine delle indagini, la morte di Gary Moore viene fatta risalire a una intossicazione da alcolici e cibi grassi, accelerata da patologie pregresse a livello coronarico.
La cerimonia funebre si tiene il 22 febbraio alla St Margaret’s Church di Brighton, alla presenza dei familiari e di numerosi amici musicisti, da Jack Bruce a Don Airey. L’ultima a prendere la parola è la figlia Lily: “Mio padre, un uomo di estremi e di camicie piuttosto colorate. Un padre, un uomo di famiglia, una star”.

Gary Moore

Discografia

GRANNY'S INTENTIONS FEATURING GARY MOORE

Honest Injun (Lemon Recordings, 1970)

7

SKID ROW

Skid (Cbs, 1970)

7
34 Hours (Cbs, 1971)
6,5
GARY MOORE
Back On The Streets (Mca, 1978)

6,5

Corridors Of Power (Virgin, 1982)

7

Rockin' Every Night: Live In Japan (live, Virgin, 1983)

7

Dirty Fingers (Jet Records, 1983)

5

Live (Jet Records, 1983)

6

Victims Of The Future (Virgin, 1984)

7,5

We Want Moore! (Virgin, 1984)

8

Run For Cover (Virgin, 1985)

6,5

Wild Frontier (Virgin, 1987)

5,5

After The War (Virgin, 1989)

5,5

Still Got The Blues (Virgin, 1990)

8

After Hours (Charisma, 1992)

7

Blues Alive (Virgin, 1993)

7

Ballads And The Blues (Charisma, 1994)

7

Blues For Greeny (Charisma, 1995)

6

Dark Days In Paradise (Virgin, 1997)

7

A Different Beat (Castle, 1999)

6

Back To The Blues (Sanctuary, 2001)

5

Best Of The Blues (Virgin, 2002)

Live At Monsters Of Rock (live, Sanctuary, 2003)

6

Power Of The Blues (Sanctuary, 2004)

6,5

Old New Ballads Blues (Eagle, 2006)

6

The Platinum Collection (Emi International, 2006)

Close As You Get (Eagle, 2007)

7

Bad For You Baby (Eagle, 2008)

7

Essential Montreux (Eagle, 2009)

Live At Montreux 2010 (live, Eagle, 2011)

Blues For Jimi (Eagle, 2012)

GARY MOORE BAND

Grinding Stone (Cbs, 1973)

5,5

COLOSSEUM II

Strange New Flesh (Bronze, 1976)6
Electric Savage (Bronze, 1977)6,5

War Dance (Bronze, 1977)

7
THIN LIZZY

Black Rose: A Rock Legend (Vertigo, 1979)

7,5
G-FORCE

G-Force (Jet Records, 1980)

5,5

GREG LAKE

Greg Lake (Chrysalis, 1981)

6
Manoeuvres (Chrysalis, 1983)
5
BBM

Around The Next Dream (Virgin, 1994)

5

SCARS

Scars (Sanctuary, 2002)

5,5
Pietra miliare
Consigliato da OR

Gary Moore sul web

Sito ufficiale
Testi