BEA SANJUST - THE WHITE ROCK SESSIONS – SONGS ON THE HOME VOL. I (White Rock, 2020)
alt-rock, psych-folk
Per certi versi il lavoro di Bea Sanjust è stato preveggente: soffermarsi sull’argomento “casa” giusto un attimo prima che diventasse così tanto centrale come mai accaduto prima d’ora nelle nostre vite. Proprio durante i giorni di isolamento da lockdown – anche se concepito nei mesi precedenti – arriva “Songs On The Home”, canzoni che suonano però distanti da quell’estetica casalinga “da cameretta” che caratterizzò tanto lo-fi diffuso a partire dagli anni 90. Al contrario, il nuovo progetto della cantautrice romana si presenta molto ben rifinito e arrangiato, la probabile vera svolta della propria carriera. Sì, perché le cinque tracce contenute sono tutte di ottima fattura, oltre tutto realizzate con la collaborazione di musicisti preparati e importanti, fra i quali spicca la presenza di Fabio Rondanini (Calibro 35, Afterhours e tantissimi altri). Un approccio a metà strada fra alt-rock e psych-folk, più sbilanciato verso il primo rispetto a quanto avvenne in “Larosa”, il precedente disco, risalente oramai a quattro anni fa. Ritmo e chitarre sugli scudi in “City Girl”, che avvicina la Sanjust a PJ Harvey, ma è l’insieme a uscire con una compattezza davvero invidiabile. Da applausi il twist sul finale di “Black Fur”, mentre in “Medina House” in qualche inflessione ricorda persino Dolores O’Riordan. La più distesa “In Your Arms” getta un ponte verso il secondo volume di queste “White Rock Sessions” (dal nome della piccola label che produce il tutto), che riunito al qui analizzato primo capitolo ambisce a formare un album di indiscutibile valore (Claudio Lancia, 7/10)
DEUX ALPES - TWO (RC Waves, 2020)
synth-pop
Deux Alpes è il nome del duo elettronico di stanza a Milano giunto al secondo Ep che, ça va sans dire, non poteva che chiamarsi “Two”. Una fedeltà alla linea che ritroviamo anche nelle sonorità che spaziano dall'electro retro di stampo '80/'90 al synth-pop più recente, confluendo in uno strano ibrido nord-europeo tra Faithless e Todd Terje che ha il pregio di suonare allo stesso tempo vintage e futurista senza tirare troppo nessuna delle due corde. In “Two” ritroviamo atmosfere di dancefloor d'annata (“The Boys”) e casse dritte su cui planare a tutta velocità (“Love Me Right”, con una pregevole armonia sintetica e una linea vocale che ricorda qualcosa di Robyn). I Deux Alpes prediligono una forma canzone aperta, dilatata e a tratti (forse fin troppo) smussata di ogni possibile spigolo, in cui l’ascolto diventa un viaggio attraverso scenari metropolitani eterei e illuminati dalle sole luci dei neon. Un trick di straniamento che spesso funziona, come nel singolo “Casa Mia” che sembra un omaggio ai Motel Connection o nella lunga fuga moroderiana di “Ciao, Italia” in cui fa capolino persino una chitarra slide. Ottimi i featuring, con le voci che arricchiscono senza troppo sovrastare un suono già di per sé molto denso. È per tutti questi motivi che, nonostante la loro acclarata fissazione per il numero “due”, i Deux Alpes sembrano destinati a portarsi a casa questa seconda tappa. Vedremo se sapranno confermarsi nel resto del Tour (Lorenzo Bruno, 7/10)
SAN DIEGO - Ù (Mattonella Records/Grifo Dischi, 2020)
synth-pop
San Diego è tornato con il suo secondo disco, intitolato semplicemente “ù”. Dieci pezzi che, a detta dell’artista, hanno avuto una gestazione molto lunga e che, rispetto al precedente “Disco”, presentano suoni meno stratificati e portati all’eccesso, che comportano una maggiore varietà tra una traccia e l’altra. Le sonorità marittime, marchio di fabbrica del Dj e producer, tornano ancora una volta fresche come la brezza della sera, accompagnate da testi che sono flussi di coscienza senza un’idea precisa, ossimori nati da contrasti che creano atmosfere sempre diverse anche all’interno di una stessa canzone. La malinconia, altro tratto predominante della produzione di San Diego, viene alternata a una (auto)ironia che alleggerisce in maniera naturale il tutto, strappando più di un sorriso. Il synth-pop di San Diego, un po’ 80s e un po’ figlio dei nostri tempi, fa venire voglia di ballare da soli, di cantare in macchina al tramonto, di prendere una frase e urlarla in faccia a qualcuno, di perdere una persona solo per il gusto di ritrovarla con Google Maps. Un disco che, in un momento di restrizioni e divieti, permettere di evadere, seppur solo mentalmente, verso orizzonti lontani e felici. San Diego riesce in quel piccolo miracolo che è dare ad ogni pezzo una propria identità, una storia, una narrazione isolabile da un contesto e indipendente da ciò che viene prima e ciò che verrà dopo, dando vita a sensazioni sempre diverse tra loro (Isabella Benaglia, 7/10)
COMA BERENICES - ARCHETYPE EP (La Lumaca Dischi, 2020)
progressive folk
Le chitarriste campane Antonella Bianco e Daniela Capalbo proseguono il loro percorso esclusivamente strumentale a nome Coma Berenices con un altro album breve, “Archetype”. Pur ancora priva di particolari memorabilia armonici, la loro mistura fatta un po’ con lo smarrimento degli interludi cameristici della prima Lisa Germano e un po’ con la nettezza d’orologeria di una sonata clavicembalistica di Scarlatti trova nuove sottili applicazioni: un tocco di quel country metafisico alla Uncle Tupelo in “Archè”, una base per una buona canzone dei Lorna, la seconda parte di “Keep Your Feet On The Stars”, e qualcosa del chitarrismo introverso di Tom Verlaine in “Riyad”. Pur fondandosi quasi sempre sui ritornelli e non sull’improvvisazione, la breve prima parte di “Keep Your Feet On The Stars” sembra acquisire i tratti di uno sketch jazzato. E “A L’Improviste” ha qualche grado di trascendenza nei loro unisoni dolcemente arruffati. Rispetto al primo “Delight” (2016) c’è un nuovo batterista, Andrea De Fazio dei Nu Guinea, e soprattutto il clarinetto di Gabriele Cernagora. Entrambi tendono a imbellire se non a estrudere il sound ma è sempre il lavorio delle due chitarre a condurre il gioco, al punto che ogni brano diventa una piccola suite d’avvicendamenti in uno spazio ristrettissimo che, allo stesso tempo, non perde di vista la coesione melodica. Registrato in presa diretta (Peppe De Angelis) (Michele Saran, 6,5/10)
THE DOORMEN - PLASTIC BREAKFAST (Mia Cameretta/Goodfellas, 2019)
alt-rock
I ravennati The Doormen - Vincenzo Baruzzi voce e chitarra, Luca Malatesta chitarra e cori, Tommaso Ciuoffo basso, Andrea Allodoli batteria - giungono al traguardo del quarto album in studio con una formula alt-rock che si mescola con le ormai consuete (per il gruppo) influenze new wave. Registrato in presa diretta in appena tre giorni, “Plastic Breakfast” è una collezione di dieci canzoni fresche e particolarmente dirette, a ulteriore testimonianza del lavoro della band nel ricercare un sound più schietto e senza fronzoli. Una scelta che si riverbera in brani come “My Advice” e “Shut Up”, due uptempo che devono parecchio a White Lies e affini. Ma i romagnoli, attivi ormai da oltre dieci anni, sanno anche inserire nel calderone una raffinata “Have You Ever” che ricorda certe soluzioni adottate dai Faith No More. Disponibile in digitale e in vinile per Mia Cameretta/Goodfellas (Fabio Guastalla, 6,5/10)
SABINA SCIUBBA - FORCE MAJEURE (Goldkind, 2020)
synth-pop, modern classical, avant-pop
Ex componente dei Brazilian Girls, Sabina Sciubba giunge al poliedrico esordio tirando fuori dal cassetto brani che puntano anzi tutto su una personalissima forma di synth-pop, esaltata in tracce come “Wolkentranz” (che ha il passo della hit teutonica), “You Broke My Art”, “Stars” e “La Joue”. Ma il tratto stilistico lungo le dodici tracce di “Force Majeue” cambia di continuo: così “Ile Sauvege” immerge la tradizione dei chansonnier francesi in aromi jazzy, mentre “I Know You Too Well” e “Love” approdano sulle rive del neoclassicismo. Sabina si ibrida anche con l’elettronica nella successiva “Narcissus” (nella quale la voce si avvicina a quella di Nico), per poi in “Underage Girls” trasmutarsi in punk dai modi gentili. La spinetta che caratterizza “Reve” accoglie finalmente la lingua italiana, dopo aver già utilizzato tedesco, inglese e francese. Il disco vede la partecipazione di Riccardo Onori, chitarrista con lunga militanza a fianco di Jovanotti, e del pianista Fabrizio Rat (Claudio Lancia, 6,5/10)
GUIGNOL - LUNA PIENA E GUARDRAIL (Atelier Sonique, 2020)
alt-rock
Formati a fine 90 da un trio del milanese, Pierferancesco Adduce, Alberto De Marinis e Andrea Dicò, i Guignol realizzano i vari “Guignol” (2005), “Rosa dalla faccia scura” (2008), “Una risata ci seppellirà” (2010), e “Addio cane!” (2012) secondo uno stile sempre più poetico e cantautoriale. Non è un caso che a partire da “Ore piccole” (2014) il progetto divenga una questione privata del solo Adduce con musicisti a rotazione; l’isterico “Abile labile” (2016) è forse l’apice di questa seconda fase. Dopo un “Porteremo gli stessi panni” (2018) pressoché acustico, “Luna piena e Guardrail” rilancia nuovamente la sigla. Se ballate logore come “Il vizio” non si distinguono molto dalle storie di provincia di Bertoli o Ligabue se non per l’armatura di blues elettrico, il pezzo eponimo e “Il pendolo” impiegano più epica folk-rock, un racconto-fiume e qualche solo dissonante in coda per chiudere a dovere il cerchio del patetismo. “Via Crucis” e “Un altro modo” sono così due apici formicolanti, nevrastenici (tra distorsori e un violino), e, cosa non da poco, anche concisi, aumentando per contrasto il senso di tragedia notturna. All’ottavo album Adduce più Paolo Libutti (basso), Michele Canali (batteria), Antonio Marinelli (chitarra), Maurizio Maiorano (tastiere), oltre al violino di Massimiliano Gallo e alla produzione di Giovanni Calella, pigia come mai prima sull’acceleratore del noir come riflesso della cupezza interiore. Non sbanda ma si prende qualche libertà pur di portare a casa il risultato, specie in termini di liriche raffazzonate al limite del nonsense involontario. Il miglior (cioè peggior) esempio sta nella cameristica “Zio zio”, di fatto comunque un buon sfondamento stilistico. Cover riempitiva ma calibrata e ben interpretata: “Se potessi” (Tenco) (Michele Saran, 6/10)
BRUNO BELISSIMO - TUCKER (Vulcano, 2020)
electro-pop
L’eclettico Bruno Belissimo, dj, producer e polistrumentista italo canadese, è tornato con un nuovo concept album di 9 tracce e nove illustrazioni, che raccontano il frizzante mondo di “Tucker” attraverso un groove incalzante e suoni accattivanti. Un calderone di generi diversi che si mischiano per dare vita a una wave irresistibile fatta di italo-disco, pop, elettronica e acid house. Infilarsi le cuffie per crederci: i brani spaziano dai beat freschi di “Il piacere” alle atmosfere psichedeliche di “Mi dica stronzo”, passando per i bassi che spingono di “I’m not that guy”. Il sound segue le atmosfere del precedente “Stargate Mixtape”, in modo naturale e forse in alcuni momenti un po’ ripetitivo, mixando contaminazioni diverse, a tratti dal sapore retrò (“Discoteca Lampo 2020”) e a tratti perfette per il dancefloor (“Gourmet”). Bruno si diverte a sperimentare, a innovare e ad ampliare sempre il suo linguaggio, a dare vita a un universo liquido in continua evoluzione. Come si legge dal comunicato stampa, Tucker “è un personaggio fantastico, ma non proviene da un mondo immaginario. Festaiolo di bassa lega e amante delle berline tedesche, è ossessionato dai social media su cui sfoggia un futile benessere e da cui condanna chiunque. Tucker è l’icona di quella generazione che tra lampade e sorrisi plastici ha cavalcato il turbocapitalismo lasciandoci un futuro carico di melma”. Alzate il volume, là fuori c’è una guerra da combattere! (Isabella Benaglia, 6/10)
YOSONU - NAMASTEREO (La Lumaca Dischi, 2020)
progressive
Oltre all’attività come turnista e membro di band tradizionali, il calabrese Giuseppe Costa s’impronta a uno studio invece innovativo, quasi totale, sul percussionismo, che convoglia nei suoi dischi solisti a nome Yosonu (in cui peraltro si fa anche seguace delle tecniche codificate dallo Stratos di “Cantare la voce”). I suoi pattern mirano così ad allacciare i ritmi ribattuti dei popoli mediterranei a quelli della civiltà rave, i primitivi armonici corporei aborigeni alle movenze stroboscopiche delle discoteche postmoderne. Prova ne sono “Nta” “The Deep” e “Reaction” da “Giùbox” (2016) e “Hans Reason”, “Dr One” e “Loser” dal più elettronico “Happy Loser” (2017). Anche ispirato dall’act estemporaneo improvvisato Battiti Alti con Paolo Tofani degli Area, per il terzo “Namastereo” prova ad aumentare la posta a partire proprio dalle ospitate. Un quartetto misto (legni e archi) non solo imperla ma proprio disegna lo sketch quasi Canterbury di “38.515712”, alla fine impadronendosene in toto. La pizzica hardcore-techno di “Cucumanda” (uno dei suoi pochi pezzi cantati) viene occupata nella seconda parte dal clarinetto basso di Enrico Gabrielli: compete col rombo simil-didgeridoo dell’elettronica, con le sincopi del beat, cita le vibrazioni del phasing di Steve Reich, ma alla fine non conclude il discorso. Più mirato l’intervento del canto da sirena mediterranea di Lavinia Mancusi, a punteggiare un battito simil-techno fratturato piuttosto indeciso. E il problema con i pezzi senza ospiti è proprio questo: “Tristi per caso”, “?” e pure la brevissima “Mono Moon” divagano, amalgamano in maniera anche intrigante (belli i bidoni percossi sullo sfondo), ma non suggestionano a dovere. Costa impiega molto: tante maestranze, tante implicazioni stilistiche (rubacchia anche dall’hip-hop old-school, dai Daft Punk, dai These New Puritans), tanti strumenti. Ottiene medio, gli riesce di ribadire la sua fusion non così caratterizzata, non abbastanza ipertecnologica e non abbastanza quartomondista. Non gli riesce l’enciclopedismo quando include anche un tentativo di facile ballata soul (“This Journey”) e una cantata a cappella (“See More”, basata su “Brigante se more” di D’Angiò-Bennato) pur ben congegnata tra loop vocali e polifonie ma tutta fuori contesto. Anche diverse incisioni: Reggio Calabria, Torino, Roma, missato a Mammola (Michele Saran, 5/10)
CASA - ULTIMO ESORDIO (Dischi Obliqui, 2020)
pop
In un estremo atto di schizofrenia il vicentino Filippo Bordignon ritrasforma la trasformazione colta della sua sigla Casa (“Variazioni Gracchus”, 2017, “L’inottenibile”, 2018) al suo estremo opposto, semplici canzoni acustiche, metà scarti accumulati negli anni e metà cover italianizzate, tutto registrato in una umilissima monofonica “buona la prima” con collaboratori vecchi e nuovi: “Ultimo esordio”. Dedicato all’amico chitarrista Florio Pozza (scomparso durante le prime lavorazioni dell’album), è una formalità di commiato con un che di pentimento francescano, non tanto un requiem. Spicca qualche maestranza d’accompagnamento da segnare sul taccuino: il sax soprano di Antonio Gallucci (“Oltre la metà”), la tromba di Sean Lucarello (“Brutto amore”, cioè “Love Sick Blues” di Jim Jackson), il violino di Federico Zaltron (“Suppergiù”, cioè “I’m Sorry We Met” di Jimmie Rodgers), e soprattutto gli strumenti etnici di Giuseppe Dal Bianco, zalejka, piva e duduk (“Noi e noi” e “Ruit Hora”, cioè il traditional “Kumbaya My Lord”) (Michele Saran, 4/10)
Sabina Sciubba |
Guignol |
Bruno Belissimo |
Yosonu |
Casa |