Cloud Nothings

I'm Not Part Of Me

Cloud Nothings - I'm Not Part Of Me
(2014, singolo - Inclusa in "Here And Nowhere Else", Carpark, 2014)


                                                               
                                                                                      Canto me stesso, e celebro me stesso

                                                                                      E ciò che io presumo, tu lo presumerai
                                                                                      Perché ogni atomo che mi appartiene
                                                                                      appartiene anche a te
                                                                                                                 (Walt Whitman)

La giovinezza, recita il poeta, “si fugge tuttavia” e noi possiamo farci ben poco. Lo sa bene Dylan Baldi, testa e anima dei Cloud Nothings che alla giovinezza, al suo sgusciare via in quell’attimo cui ti ritrovi improvvisamente adulto e non sai nemmeno come, ha eretto un monumento. Un monumento all’effimero. Prima di  lui  – andando a ritroso -  lo avevano fatto Kurt Cobain, Paul Westerberg e Richard Hell. La strafottente rivendicazione di un’intenzionale perdita dei valori, di uno smarrire tutto per non perdere niente (“Blank Generation” dei Voidoids); la fiera consapevolezza di non appartenere a nessuno se non a se stessi e alla dirompente vitalità dei vent’anni  (“Bastrads Of Young” dei Replacements); l’adolescenza come categoria dell’anima, come analgesico per una fanciullezza in fiore condannata a sfiorire sotto i colpi di una vita che poi, senza nemmeno avvisarti, non sparerà più a salve (“Smells Like Teen Spirit” dei Nirvana). Il problema dell’uomo non è mai stato morire, semmai il vero dramma è invecchiare. Sarà per questo che l’artista Allan Kaprow si inventò gli happening, una forma d’arte destinata a consumarsi nel qui e ora di un attimo. Quell’attimo. Salite a bordo e fate ciao all’eternità: l’eterno è adesso. Ribadirà il concetto Neil Young nel 1979: “It’s better to burn out than it is to rust”. Ecco, la musica dei Cloud Nothings è quel bruciare in fretta. E proprio per questo l’ennesima, disperata conferma che il “rock’n’roll can never die”.

In tempi in cui tutto si consuma subito senza mai bruciare veramente – dai rapporti umani costruiti a tavolino nella sala operatoria di un chirurgo plastico ai lutti collettivi che durano giusto il tempo di esibire in un selfie il proprio artefatto dolore – i Cloud Nothings stanno rimettendo al centro della musica, e dunque della vita, la necessità di appiccare il fuoco. Di buttarcisi dentro e lasciarsi ardere. Vivi. Gli ultimi tre lustri di rock e dintorni sono stati gravidi di sfavillanti linguaggi sperimentali che avevano ben poco da comunicare, di entusiasmanti revival che raramente hanno aggiunto una parola ai discorsi già formulati in passato, di neologismi che magari faranno scuola o più probabilmente collasseranno sotto il peso del loro sgargiante mutismo. Gli anni Zero ci hanno senz’altro insegnato che si può essere ancora intellettualmente brillanti, creativi, persino innovativi nei casi migliori. Tuttavia la sensazione è che manchi spesso qualcosa: l’incoscienza innata del rock’n’roll. Lo spirito punk, che vomita oggi quello che mangerà domani. Il vizio capitale di tante ottime band attuali è voler entrare nella storia senza averne una propria, di storia, progettare l’eternità scavalcando il momento, venerare i padri anziché ucciderli e diventare finalmente loro. “Kill Yr Idols”, non tutti hanno la fortuna di essere i Sonic Youth. “Il passato può essere solo creato, non ricreato”, ancora Allan Kaprow. “Attack On Memory” era qualcosa del genere. L’attimo (s)fuggente che rapisce lo sguardo e inventa la memoria, l’istante che azzanna il passato sbranando il futuro. Henri Bergson trafitto, come San Sebastiano, dai dardi elettrificati dei Mission Of Burma.

Il suo successore azzarda ancora di più. Le “Foglie d’erba” di Walt Whitman arse dalla furia tragica di Jesus Lizard e Wipers, gli assalti alla memoria dirottati sul presente, sulla vita. Quella cosa squamosa che ci sfugge di mano quando sembra che la stiamo afferrando; quella cosa la cui forza vorremmo che durasse per sempre non accorgendoci che l’eterno accade solo ora. Qui e in nessun altro posto. “Here And Nowhere Else” appunto. Il titolo del disco è tratto da un verso di “I’m Not Part Of Me”, trascinante epilogo di un album che – per foga ritmica, urgenza melodica e ferocia noise - in poco più di mezz’ora dilania la psiche. La perlustra come un lupo famelico a caccia di una preda più pericolosa di lui, stana la paura di vivere – retaggio di un’adolescenza latente che persiste nonostante i colpi bassi incassati da un mondo cinico – investendola di scudo e lancia. Ti catapulta nella guerra quotidiana, ma prima ti catechizza sui proiettili che dovrai schivare e il sangue che dovrai sputare. Tu con la spada, gli altri con i mitra. È ingiusto, certo, ma non occorre snaturarsi per accettare il duello.

Essere nel mondo essendo te stesso, essere gli altri senza dover essere altro da te; questo il senso ultimo di “Here And Nowhere Else”. “I’m Not Part Of Me” ne è l’approdo definitivo. Prima dell’attacco la chitarra esita un secondo, incespica. Quel secondo nella vita è talvolta fatale. Segna lo scarto tra il volere e il dovere, la differenza tra fare una scelta e non avere altra scelta. Se non hai sangue freddo e sicurezza sufficiente, rischi di mandare la tua esistenza a puttane, sprecare il tuo talento inseguendo ciò che non ti appartiene. Dylan Baldi però è cazzuto. Sa cosa vuole, libera un riff poderoso e mette vissuto e destino spalle al muro: qui comando io, belli. Entrano i tamburi irruenti come treni, il loro impeto travolgente è l’occasione della svolta, l’ultima corsa – sempre la stessa, da una vita - da prendere al volo. Eccolo l’attimo. Lo senti dentro. Ora o mai più: “It starts right now, there's a way I was before/ But I can't recall how I was those days anymore/ I'm learning how to be here and nowhere else/ How to focus on what I can do myself”.
È una liberazione, un tumulto solitario. La consapevolezza delle proprie azioni, il coraggio delle proprie emozioni. Non è facile, ma poi ti senti bene. “I feel fine” urla incontenibile Baldi. Arriva il bridge che conduce al ritornello. Chitarre, basso e batteria impacchettano i rimpianti che imbrigliano i ricordi, i progetti crollati sulle illusioni che li reggevano, i desideri soffocati all’afa di una vana attesa e spediscono tutto al macero: “Leave it all to memory of/ What we did when were young and/ Now you could just leave me on my own”. 
Adesso sai di cosa hai bisogno. “You are not what I really needed”. Non l’hai capito; l’hai visto, l’hai avvertito. Non sei parte di te stesso e quando te ne rendi conto, ti convinci che ormai sia troppo tardi. “I’m Not Part Of Me” dice l’esatto contrario: il treno è andato, ok, ma puoi arrivarci sempre a piedi. Non è mai troppo tardi per essere comunque adesso.

Questo il qui e ora cantato dai Cloud Nothings, band che - al pari di Japandroids e Fucked Up - si candida al ruolo di ultimo baluardo dell'immediatezza rock. Dimostrazione lampante che anche in generi dove ormai nulla di nuovo può essere più detto, lo si può dire come se fosse la prima volta: chitarre distorte, tamburi pestoni e melodie epiche urlate fino a far sanguinare la gola. Sembra facile, ma la maniera è dietro l’angolo se a guidarti non è lo spirito improvvido che fu dei Ramones come degli Husker Du. Finché quello spirito si tramanderà, ci sarà sempre una “I’m Not Part Of Me” a incendiarci l’anima.