Tuffi e immersioni musicali di Piergiorgio Pardo

Bob Gruen - The Eye of John Lennon

Bob Gruen è uno di quegli artisti che hanno contribuito a creare non solo l’iconografia, ma l’immaginario stesso del rock. Ha fotografato gente del calibro di Mick Jagger, Led Zeppelin, New York DollsElton John, i Kiss, Debbie Harry, Marc Bolan, Andy Warhol, Alice Cooper, i Clash, i Green Day, per dirne solo alcuni. Ha vissuto la New York della Factory e quella del Cbgb's. Ha condiviso l’intimità di John Lennon e Yoko Ono. Il suo stile “candid camera” è fatto di un linguaggio “rubato”, che dimentica la tecnica, o fa finta di dimenticarla a tutto vantaggio dell’umanità dell’immagine. Lo abbiamo incontrato durante il Festival Medimex di Taranto, di cui vi abbiamo raccontato lo splendido concerto dei The Smile e che quest’anno ha fatto registrare grande partecipazione a tutti gli eventi, nonché il sold-out di tutte le strutture ricettive cittadine, con biglietti venduti in oltre 30 paesi. Un Bob Gruen rilassato e sorridente, in compagnia della moglie, lusingato e divertito dall’accoglienza riservatagli dal capoluogo pugliese, entusiasta dell'organizzazione della mostra e visibilmente soddisfatto dell'affluenza di pubblico, ci ha guidati alla scoperta della mostra fotografica “John Lennon, The New York Years”, presso il MArTA, Museo Archeologico Nazionale di Taranto, che è stata una delle punte di diamante della presente edizione, in attesa della prossima, annunciata per i giorni dal 17 al 21 giugno del 2025. La nostra chiacchierata.

bob_gruenMi piacerebbe iniziare la nostra chiacchierata con il racconto di una delle tue foto più iconiche, quella che ritrae John Lennon mentre fa il segno della vittoria davanti alla Statua della Libertà. Come andò quella volta?
Come in gran parte dei miei scatti, non puoi considerare una immagine del genere frutto di una sessione vera e propria. Era il periodo in cui John Lennon attendeva di perfezionare il proprio status di cittadino americano e la presidenza Nixon era tutt’altro che propensa. Lennon organizzava grossi concerti-evento per la pace, lui e Yoko erano dei veri e propri attivisti all’epoca e personaggi come loro per la Casa Bianca erano delle spine nel fianco. Fu una mia idea, un modo per giocare d’anticipo rispetto a una possibile estromissione, e John ne fu entusiasta. Gli chiesi di assumere quella posizione, mettendosi in posa come fanno tutti i turisti che passano di là. Il messaggio era chiaro. Era un modo per dire a Nixon che non avrebbe dovuto trattare da turista una persona di cui l’America poteva essere orgogliosa. Inoltre la Statua della Libertà dovrebbe essere il simbolo dell’America che accoglie, che si evolve e che sa offrire alle persone, a tutte le persone, la chance per dare una svolta ai propri destini. Con John l'America si stava invece comportando male, negandogli dei diritti. Lo scatto aveva lo scopo di evidenziare questo controsenso attraverso la provocazione e l'ironia. Divenne subito popolarissimo. Quando John vinse la sua battaglia e fu necessaria una fototessera da apporre sui documenti americani, chiese, anche per ovvie ragioni di privacy, a me di fargliela. E così c’è sempre stata una mia foto sui suoi documenti americani di identità.

In questo periodo siamo tornati a tremare per il destino dell’America. Come prese John l’elezione di un personaggio come Nixon?
Malissimo. Bevve parecchio quella notte, diventò intrattabile e fece arrabbiare Yoko. Le chiese scusa il giorno dopo, mentre passeggiavamo a Central Park. Ero con loro, improvvisai degli scatti che poi sono diventati anch’essi famosissimi.

Emozioni fuori scena

Dai tuoi racconti emerge un rapporto molto familiare con i coniugi Ono/Lennon, come si è sviluppato?
Quando John e Yoko si trasferirono a New York, nel 1971, vennero a vivere non lontano da casa mia, nel West Village. Avevo già scattato loro delle foto durante un evento politico di beneficenza, con la Plastic Ono Band come protagonista e, a fine serata, chiesi a John se fosse interessato a vederle e gli dissi che nel caso avrei potuto anche recapitargliele, visto che all'epoca eravamo praticamente vicini di casa. Mi rispose che per lui sarebbe stato perfetto se gliele avessi lasciate sotto la porta. Una risposta del genere sarebbe stata impensabile in Inghilterra, ma a New York era diverso, i fan non erano assillanti e John era molto più rilassato. Non molto tempo dopo, nel marzo 1972, mi fu chiesto di fare delle foto in occasione di una delle rare interviste che John concedeva alla stampa. Le foto fatte all’evento gli erano piaciute molto, e comunque all’epoca ero già abbastanza noto a New York come fotografo per aver ritratto diversi artisti celebri. Spesso, nelle foto del periodo, John e Yoko sembrano nervosi, ma a sentire loro, il più delle volte era proprio la tensione dei fotografi a renderli tali. Io stesso tremavo prima di iniziare, ma dal momento in cui ci ritrovammo insieme ogni inquietudine scomparve e fra di noi si sviluppò un'atmosfera totalmente rilassata. Sembrava di fluttuare nell’aria. Alla fine dell’incontro furono loro stessi a dirmi di vederci ancora, di fare delle cose insieme. Metti anche il fatto che io ero un vero newyorkese e che John aveva voluto stabilirsi a New York perché la riteneva la città dove ogni cosa accadeva. Quando scelsero Dakota Building come abitazione erano felici come bambini.

Ricordi delle occasioni in cui hai realizzato per John e Yoko delle foto per così dire “in amicizia”?
Ce ne sono diverse, ma in particolare una la ricordo con tenerezza. Fu quando Sean compì i due mesi di età e i genitori volevano delle foto da mandare alle rispettive famiglie, in Inghilterra e in Giappone. Poi, ovviamente, ci sono le foto fatte sul terrazzo del loro appartamento nel 1974. Che è anche il ricordo di una maglietta da 5 dollari con la scritta "New York" che avevo comprato per John da un ragazzo che le vendeva in strada a Times Square. A un certo punto, vedendo lo skyline intorno a noi, mi venne in mente di chiedergli se l'avesse conservata. Tagliammo e ripiegammo le maniche e facemmo di getto le foto. Non avrei mai immaginato che potessero avere una tale diffusione. E’ uno dei pochi set che ho realizzato per John in cui lui abbia indossato degli occhiali da sole. Era bello fotografare lo sguardo di John. Gli occhi erano il suo modo più immediato per parlare alla gente.

Come userebbe oggi tutto quel carisma, secondo te?
Certamente rimarrebbe la musica lo strumento principale per dare voce alla propria visione del mondo e anche al proprio impegno sociale. Probabilmente però si divertirebbe anche a usare in modo intelligente e creativo i social network. Per mandare un messaggio di pace. Come del resto continua a fare Yoko.

Una donna, Yoko, per amico

Cosa puoi dire di un personaggio controverso come Yoko Ono, essendo entrato in modo così intimo in contatto con la coppia?
Direi che ormai qualunque risentimento nei suoi confronti si stia dissolvendo, soprattutto nelle nuove generazioni, che non si pongono certamente il problema di chi sia stato o meno la causa dello scioglimento dei Beatles. Ho visto diversi suoi concerti anche in epoca recente ed è sempre pieno di giovani che la acclamano e chiedono il bis. All’epoca credo che tutto quell’odio attorno a lei fosse frutto di un fraintendimento della sua arte. Non capivano la sua poetica, non comprendevano i linguaggi che usava e alla fine non potevano capacitarsi del fatto che un componente dei Beatles avesse scelto una così. Lei era troppo avanti.

Perfino per New York, dove c’era una grande diffusione delle avanguardie artistiche?
Sì, anche se meno che in Inghilterra, dove regnava una maggiore chiusura. Comunque era proprio la sua idea di vocalità a non essere compresa dalla gente. Io stesso ci sono entrato dopo averla accompagnata in un viaggio in Giappone e avere assistito a una sua performance di fronte al pubblico giusto. La questione riguardava proprio lo stato energetico di chi emette un suono e di chi lo recepisce. E’ qualcosa di differente rispetto al canto. In Occidente non siamo allenati a percepire questo aspetto dell’emissione vocale, che più che a un cantante l’avvicinava a un Ornette Coleman, con il quale infatti si frequentava assiduamente.

Tanto odio poteva anche essere provocato da un sentimento misogino?
Certamente. Nessuno nota il fatto che John e Yoko si incontrarono a una mostra che lei, una donna, stava tenendo da sola. Invece è una cosa importante, per nulla consueta all’epoca, che ci dà il polso di come Yoko fosse quotata nel giro delle avanguardie artistiche ben prima della sua relazione con un uomo influente come John.

Non credi che parte dell’allure negativa sia stata dovuta anche al suo carattere schivo, quasi impenetrabile?
Yoko è una donna generosa, dolcissima, affabile e qualunque sua energia è tesa verso la pace. Molto spesso chi si dedica a battaglie come la pace, l’amore, la parità di genere viene continuamente attaccato, perché gli interessi del mondo vanno in altre direzioni, come il potere o il denaro. Più conosco Yoko, più la mia ammirazione nei suoi confronti cresce. Siamo ancora grandi amici.

The "lost weekend" e gli ultimi giorni di John

E' tua la copertina di “Walls And Bridges”, il disco del cosiddetto “lost weekend”. Com’è stato frequentare John e Yoko separatamente, nel periodo in cui non stavano assieme?
In realtà, non si sono mai davvero lasciati. Erano in contatto quotidianamente. In quel periodo John beveva e aveva una ubriacatura triste, aggressiva. Bisognava gestirlo. Si sa che quando John iniziò a vedere May Pang, fu Yoko stessa a chiederle di occuparsi di lui. May lavorava per loro, percepiva uno stipendio, era la loro segretaria. John e Yoko rilasciarono due interviste, alla Bbc con Andy Peebles e alla rivista Playboy con David Sheff. Quest’ultima è anche diventata un libroLa verità su quel periodo è nelle stesse parole di John e non in quello che altri hanno detto o scritto di lui.

So che i tuoi ultimi ricordi con Lennon risalgono a poco prima che morisse, giusto?
Sì. John stava già promuovendo il nuovo album e quindi ci fu occasione di lavorare insieme. Avevo realizzato degli shooting giovedì e venerdì della settimana prima e il lunedì che hanno sparato a John ci stavo lavorando. Qualcuno mi telefonò per dirmelo e fu la chiamata più terribile che avessi mai ricevuto. Provai anche ad andare a trovare Yoko al Dakota Palace per capire se ci fosse qualcosa che potessi fare. Ma davvero nessuno avrebbe potuto fare nulla in quel momento.

Com’era John in quel periodo?
Felice. Si stava preparando per un tour mondiale, era già in contatto con Ringo. Sapevo che sarei partito con loro e che avremmo girato il mondo, dal Giappone a New York. John era anche particolarmente soddisfatto che le canzoni di Yoko cominciassero a piacere alla stampa, che le definiva d’avanguardia, e alla gente stessa. Era una persona nuova. Non beveva, voleva mangiare sano, si era convertito dal fast food alla cucina macrobiotica. Yoko aveva lavorato in un ristorante macrobiotico quando faceva gavetta come artista e John era bravissimo in cucina. Un po’ prendeva dai libri di ricette e un po’ inventava. Era anche un padre amorevole. Avrebbe dato la vita per Sean.

Sei in contatto con Sean Ono Lennon? Di recente è uscito anche un suo bellissimo disco, "Asterism".
Sì, ci è anche accaduto di lavorare insieme. E’ un grande musicista, molto creativo, ma è anche il bravo ragazzo per eccellenza, molto diverso dal padre, una persona estremamente pacifica, silenziosa e gentile con tutti.

Da Tina al dirigibile

Parliamo un po' della tua carriera di fotografo? Come hai cominciato?
Ero a un concerto di Ike e Tina Turner. Avevo portato tre o quattro rullini fotografici con me, quindi potevo sperimentare. Così ho aperto la camera per un secondo e ho catturato cinque immagini di Tina, perfettamente, approfittando della luce stroboscopica e del suo modo meraviglioso di ballare sul palco. Ne è venuta fuori una foto in cui le cinque immagini sovrapposte davano l’idea della dinamica del movimento colto mentre avveniva. Detta così sembra un’idea super-originale, ma lo ritengo un colpo di fortuna piuttosto che di genio. Grazie a degli amici riuscii a farla arrivare a Ike e attraverso di lui a Tina. Quando le persone mi dicevano: "Vorrei una foto così", rispondevo: "Sì, se balli come Tina". Comunque proprio con quella foto è cominciato tutto.

Mi racconti come è nata un’altra delle tue foto più iconiche, quella che ritrae i Led Zeppelin davanti al loro aereo personale?
Era il 1973 e io ero totalmente immerso nella scena dell’epoca a New York. Frequentavo i New York Dolls o i Kiss e non ero assolutamente addentro alla galassia Led Zeppelin. Ti dirò, prima di incontrarli non sapevo neanche chi fossero. Fui contattato dal loro ufficio stampa per fare delle foto di una loro data a Pittsburgh. L’unico modo per raggiungere il luogo del concerto era salire sul loro aereo personale e così feci. Arrivati in aeroporto, a Robert venne l’idea di chiedermi una foto davanti al loro aereo. L’aereo era enorme, così grande che non entrava nella foto, e loro sembrano piccolissimi, anche se belli da vedere.

Credo che lo scarto di proporzioni racconti bene per immagini quanto la band si sentisse pressata dall’establishment.
Sì, erano dei ventenni, per quanto immensamente bravi. Il periodo era quello delle grandi rockstar. E il rock’n’roll era anche uno stile di vita.

Tra tutti gli artisti che hai incontrato chi erano i più rock’n’roll di tutti?
I Rolling Stones. Senza dubbio. Stare vicino a loro, se riuscivi, era una cosa dannatamente eccitante.

Un'altra New York

Mi parlavi dei Kiss. Tu hai realizzato la copertina dell’album “Dressed To Kill”, rimasta famosissima. So che c’è un aneddoto anche dietro a quello scatto. Ti va di raccontarlo?
La fotografia faceva parte di una serie di scatti realizzati per una specie di fotoromanzo voluto dalla rivista “Creem”. Nella storia, Ace, Paul, Gene e Peter sono dei tranquilli impiegati che nascondono una seconda identità segreta, tipo supereroi. Quando leggono sul giornale che quella sera in città si sarebbe tenuto un concerto di John Denver, che nel fumetto si chiamava John Cleveland, decidono di salvare il mondo dalla mediocrità, quindi si cambiano in una cabina telefonica e ne escono vestiti da Kiss. Fu divertente. Nessuno di loro possedeva abiti da businessman, quindi li cercammo in giro. La giacca di Gene, ad esempio, era mia. Una parte del servizio è stata realizzata a Chelsea, all'angolo sud-ovest tra l'8th Avenue e la 23rd Street. Altre foto furono fatte agli Electric Lady Studios, dove i Kiss stavano facendo il disco. Fu divertentissimo vederli suonare in dei vestiti prestati, che non erano neanche della loro misura. Ridemmo come matti tutto il tempo. Il fumetto c’è ancora online. Ai Kiss piacque talmente che ne vollero fare la copertina del disco.

Tu hai vissuto anche un’altra New York, quella delle scene punk e new wave. Che ricordo hai di quelle situazioni?
Il ricordo preciso è che, per quanto a un certo punto tutto questo sia diventato una moda, all'inizio era realtà. I jeans dei Ramones erano sdruciti al ginocchio semplicemente perché non ne avevano altri da mettere. Se avessero potuto cambiarsi, non avrebbero indossato quei jeans. E forse anche il punk sarebbe stato diverso (ride). Con gente come i Clash o i Sex Pistols ho condiviso l’autobus per settimane, seguendoli in tour. Era tutto molto spontaneo. Come i graffiti di New York, o le serate alcoliche al Cbgb's. Una volta che fotografai Debbie Harry, lei era impegnata in realtà su un altro set. La intercettai in una pausa, senza chiederle niente di speciale. Si limitò a camminare verso di me e, guarda, non serviva altro che questo. La sua bellezza, il suo carisma e New York facevano il resto. Ho portato i Clash in cima al Rockfeller Centre, ho spiegato loro che era quella la terrazza da cui davvero si poteva dominare la città. Quando li ho fotografati, nei loro occhi c’era davvero la scintilla di chi aveva appena scoperto un mondo.