L'outsider del Greenwich Village
Eric Andersen è uno dei personaggi più autentici, coerenti e originali fra quelli emersi dalla cosiddetta “Me Generation”, il manipolo di songwriter sviluppatosi dal beat e dalla scena folk del Greenwich Village anni Sessanta, ivi compreso il primo Bob Dylan. Il destino non ha voluto che al suo talento fossero tributati gli stessi riconoscimenti che hanno reso scintillanti, fra gli altri, i nomi di Jackson Browne, Joni Mitchell o James Taylor, ma l’impronta di Eric nell’ambito del cantautorato è di quelle indelebili. La sua lunghissima carriera inizia nel periodo successivo alla sbornia controculturale della beat generation, all'alba del movimento underground, con una serie di dischi folk in cui già si evidenziava la particolarità della sua vena compositiva.
Eric è fra tutti l'autore più introspettivo, quello più incline alla narrazione emotiva di un mondo traguardato attraverso lenti soggettive e personali. Non si tratta di intimismo, quanto piuttosto di vero e proprio lirismo e l'intensità dell'eloquio sta a Eric come l'epos militante e visionario a Bob. E se l'esordio "Today Is the Highway" (Vanguard, 1965) è un documento fedele del suono acustico che si ascoltava nel Greenwich Village di quegli anni, già i due "T 'Bout Changes & Things" (Vanguard, rispettivamente 1966 e 1967) si avventurano su territori più squisitamente folk-rock. Eric diventa un personaggio emergente nella New York dell'epoca, dedica a Phil Ochs la sua "Thirsty Boots", poi portata al successo da Judy Collins, collabora con Andy Warhol, dà vita a un disco curioso e variegato come "More Hits From Tin Can Alley" (Vanguard, 1968). L'album successivo è probabilmente il più interessante del primo periodo. L'attitudine sta a metà fra psichedelia e pop, dietro i cursori c'è Jerry Goldstein, che in quel periodo sta producendo cose come i Druids Of Stonehenge, The Foundations, ma anche Anne Murray. Ne esce fuori un incastro irripetibile di suggestioni avant sixties come "Avalanche" (Warner, 1968). L'estroversa e obliqua ricchezza degli arrangiamenti, combinata con la particolarità del timbro vocale di Eric, dà vita a grandi canzoni come "It's Comin' And It Won't Be Long", la title track e la lunga ed empatica conclusione di "For What Was Gained".
In search of a Blue River
"A Country Dream" (Vanguard, 1969) e l'album omonimo inciso per la Warner l'anno dopo sono opere di transizione. Eric sta evidentemente cercando una sua cifra espressiva per il nuovo decennio, si autoproduce in studio, ma non tutto è veramente a fuoco e i pezzi risultano spesso poco incisivi o sovrarrangiati. L'occasione per il grande salto arriva con “Blue River” (Columbia, 1972), il disco con cui Andersen guarda al profilo disadorno di Nashville e ne declina la suggestione in una sequenza di melodie bellissime, sapientemente orchestrate dalla produzione di Norbert Putnam. Siamo ai livelli di un "Blue" di Joni Mitchell, che è peraltro tra gli ospiti del disco, o del songwriting di Leonard Cohen. E se la title track si gioca la carta di quell'epos collettivo cui fino ad allora Eric non era sembrato interessarsi, "Round The Bend" scava ancora nella soggettività profonda, con accenti quasi mistici e vette di espressività vocale che ancora oggi strapazzano l'anima.
Altrove invece tutto si fa più minimale, sia che, come in "Wind And Sand", il suono si innamori dei chiaroscuri di natura, sia che l'orchestrazione brilli di pienezza cristallina, come nelle delicate "Florentine" e "Sheila". Seguiva a tre anni di distanza lo splendido e chiaroscurale “Be True To You” (Arista, 1975), con canzoni da antologia quali “The Blues Keep Fallin' Like The Rain” o i quasi nove minuti di “Time Run Like A Freight Train”. La scrittura dei pezzi, ancor prima che gli arrangiamenti e gli sviluppi compositivi, sfugge a ogni tentativo di categorizzazione. Vi convergono amore, disperazione, speranza, memoria, squarci paesaggistici e suggestioni letterarie e non riteniamo neanche in questo caso parlare di un capolavoro del cantautorato americano.
Se però questo altro modo di dire Greenwich Village è rimasto di nicchia, la causa è da imputarsi ad alcuni incidenti di percorso. La morte prematura, nel 1967, del suo appena acquisito manager, la leggendaria mente dei Beatles Brian Epstein, ebbe da subito un impatto negativo sulla carriera di Eric. Il fatto più grave accadde circa sei anni dopo, un disastro praticamente senza precedenti e mai più verificatosi da allora nella storia della musica moderna. Nel 1973, durante una ristrutturazione aziendale della Columbia Records, 40 nastri master, destinati al disco che avrebbe dovuto consacrare la carriera dell’autore dopo il salto di qualità di “Blue River”, scomparvero in circostanze mai chiarite. Mai prima né dopo quel momento si ha memoria di una casa discografica che smarrisca un intero album. Il materiale sarebbe sostanzialmente riemerso quasi vent’anni dopo (“Stages, The Lost Album”, un gioello fuori tempo massimo e forse per questo ancor più prezioso, pubblicato dalla colpevole Columbia nel 1991), ma all’epoca il danno fu incalcolabile e spiega anche il lasso di tempo intercorso e il parziale cambio di etichetta fra “Blue River” e "Be True To You". Molti treni erano a quel punto passati, né l'unicità del talento di Eric fu adeguatamente sostenuta dalla Arista, marchio gestito dal manager Clive Davis in combutta con la stessa Columbia e caratterizzato da una politica confusionaria e cerchiobottista, che in quei tardi anni Settanta affossò ben più di una carriera, soprattutto di musicisti non di primo pelo.
You Can't Relive The Past
L'album successivo “Sweet Suprise” (Arista, 1976) fu di fatto una sorta di ultimo tentativo. Fatta salva la title track capolavoro, si tratta di un disco improntato a una brillante leggerezza country, abbastanza caratterizzata dai suoni dell'epoca. Dopo di che Eric ne ebbe, a giusta ragione, abbastanza. Nei lavori a cavallo fra i due decenni, “Midnight Sun” (Wind And Sand, 1979), “Tight In The Night” (Wind And Sand, 1985) e “Movin With The Wind” (Emi, 1985), le ambizioni appaiono ridimensionate. L’autore si è trasferito in Norvegia e la sua lontananza dallo show business diventa non più un evento del destino, quanto piuttosto una scelta di vita, la cui eco è percepibile anche nella struttura e nei linguaggi del trittico, che da un lato flirtano con un pop-rock elettrico dai tratti abbastanza generici, dall'altro mantengono salda la presa di un songwriting che si pone come esigenza vitale. Le ambizioni ritornano a farsi sentire nell’ottimo “Ghosts Upon The Road” (Gold Castle, 1989), gran bell'album, realizzato finalmente con un budget meno risicato. Parte del vigore espressivo si deve agli offici del produttore Steve Addabbo, che ricordiamo con gente del calibro di Jeff Buckley e Suzanne Vega. Un disco dolente, intenso, riscaldato dal nerbo di una sezione ritmica che gioca un ruolo muscolare ed emozionale insieme.
E' con questo disco che la figura di Andersen assume i tratti del nobile e ispirato artigiano, tratti consolidatisi nel tempo e ancora oggi attuali. Fra gli album della discografia matura, ricordiamo innanzitutto il salto nel pop di "Memory Of The Future" (Appleseed, 1999) e "You Can't Relive The Past" (Appleseed, 2000), impreziosito dalla presenza di Lou Reed, coautore della title track. Disco piacevole e ispirato è anche "Beat Avenue" (Appleseed, 2003), sovrabbondante art-folk vicino alla vena copiosa di un Gene Clark. Per chi ama il genere, una vera chicca da riscoprire e godersi in una serata di inverno, magari accompagnandola con un bicchierino di Bourbon. Un filone a parte è il trittico di collaborazioni che vede Eric condividere scena e divertimento con Rick Danko e il cantautore norvegese Terje Lillegård Jensen, titolare di un'ampia e interessante discografia come Jonas Fjeld, solista e con band. Tre dischi fatti per mantenere viva la voglia di suonare e condividerla con due grandi amici e musicisti. E vale la pena ascoltare anche le due privatissime dichiarazioni d'amore rese da Andersen alla sua America bella e lontana nei due "Great American Song Series", anch'essi pubblicati dalla Appleseed, rispettivamente nel 2004 e nel 2005.
Infine, ci sono gli album di ispirazione letteraria, veri e propri esperimenti di songwriting basato su atti di immedesimazione nel mondo poetico dell’autore di riferimento. E' un percorso che ci conduce fino ad oggi, anzi ci proietta nell'immediato futuro del nostro trovatore di Pittsburgh. I titoli chiariscono di volta in volta la matrice monografica del materiale testuale: “Silent Angel: Fire And Ashes Of Heinrich Böll” (Meyer, 2017), “The Universe: The Worlds Of Lord Byron” (Meyer, 2017), “Birth Of A Stranger: Shadow And Light Of Albert Camus” (Meyer, 2018). Ora un nuovo concept su Garcia Lorca è in cantiere e sembra voler chiudere il cerchio con un’altra figura cui la statura compositiva dell’Eric Andersen autore è riconducibile: Tim Buckley.
The Songpoet
Le parole chiave dell’identità compositiva di Andersen consistono di radici, ispirazione e libertà. Nel tempo sono diversi i grandi autori di canzoni che ne sono stati influenzati. Pensiamo a Michael Stipe, Tom Waits, Stan Ridgway, allo stesso Bruce Springsteen narrativo e umbratile di “The Ghost Of Tom Joad”. Di questo diffuso affetto per uno dei più talentuosi outsider del rock americano è testimone anche la raccolta “Tribute To A Songpoet”, in cui un’ampia silloge di brani tratti dall’immenso songbook di Eric rivive in interpretazioni eterogenee che dei singoli brani, come della scrittura del protagonista rivelano sfaccettature e nuove ragioni di interesse. È una cavalcata spalmata su 3 cd ad ampio minutaggio, che va da reinterpretazioni storiche come la “Thirsty Boots” di Bob Dylan, o “You Can’t Relive The Past” mirabilmente ripresa da Syd Straw, fino alla “Before Everything Changed” di Scarlet Rivera. L’album è una sorta di colonna sonora ideale per il pluripremiato docufilm “The Songpoet”, diretto da Paul Lamont e Scott Sackett, che offre uno sguardo approfondito sulla creatività e sulla umanità di un artista complesso, multiforme e originale come Eric, la cui vicenda merita un approfondimento anche da parte delle nuove generazioni e che ha da dire emozioni universali sull’America di ieri e di oggi.
Mingle With The Universe
Nella stessa chiave di approfondimento sul personaggio si muove una recente iniziativa editoriale, la pubblicazione per la casa editrice indipendente AgenziaX, diretta dall’agitatore culturale, scrittore ed editore Marco Philopat, del libro “Mingle With The Universe. A Sixty-Year Career Celebration Of Eric Andersen”.
Il volume è scritto da Marco Fazzini, docente all'Università di Ca' Foscari, Venezia, critico, traduttore ed editore e dal critico e saggista Roberto Jacksie Saetti, già autore della biografia “Ghosts Upon The Road”, insieme al critico e giornalista Paolo Vites. In concomitanza con la pubblicazione, Eric Andersen ha ricevuto un riconoscimento alla carriera nell’ambito del “Premio Dubito”, dedicato alla memoria del songwriter e street poet Alberto Dubito, scomparso prematuramente, che ogni anno intercetta gli impulsi contemporanei espressi nell’ambito della poesia dal tessuto controculturale giovanile. Ci pare così instaurato un nesso ideale tra la poesia-canzone di Eric, forte dell’intensità di una intera vita da outsider, e i battiti urbani di una umanità nuova che vuole esprimersi, schivando le durezze, la velocità, il cinismo e tutte le altre trappole che tendono agguati alla poesia e, diremmo, alla vita stessa.
“Mingle With The Universe” ha una struttura particolare. Si tratta di un volume bilingue in cui a una lunga intervista ad Andersen sono accostati i testi in inglese e in traduzione di alcune delle sue canzoni più significative. "Conosco Eric da qualche anno – ci dice Marco Fazzini – ma la sua musica e la sua poesia mi accompagnano dai tempi della mia adolescenza. Al tempo conducevo un programma radiofonico in una delle tante radio libere dell’Italia di quegli anni e per procurarmi i dischi di Eric, all’epoca introvabili in Italia, mi feci aiutare da Peppe Videtti e Carlo Massarini. Mi mandarono delle registrazioni su musicassetta. Il libro è stato concepito e assemblato sull’onda lunga di questo affetto pluridecennale".
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"Sono un ergastolano dell'arte". L'intervista con Eric Andersen
Nonostante il tempo trascorso, la persona e l’arte di Eric conservano la freschezza di sempre. Lo abbiamo incontrato proprio in una delle serate del premio letterario "Dubito" ed è stata una chiacchierata piacevolissima. Una bella occasione per parlare di presente, passato e delle tante ipotesi di futuro reale o immaginario che un uomo e un artista di tale levatura suscita nel profondo di ognuno di noi.
Eric sei soddisfatto di "Mingle With The Universe", il libro che celebra i tuoi 60 anni di carriera?
Beh, penso che sia magnifico. La cosa sorprendente è la velocità con cui è uscito e come immagini e testi si siano ricomposti assieme all’ultimo secondo, come un treno in corsa. Sono certo che molte persone in America, soprattutto a New York, non vedranno l'ora di procurarselo.
Mi piacerebbe chiederti del tuo amore per l'Italia. Frequenti il nostro paese da sempre. Come l'hai trovato questa volta?
Vengo spesso in Italia, da tanti anni. Le città hanno un valore inestimabile, la gente, il pubblico sono straordinari, si mangia e si beve come in nessun altro posto del mondo. Però a volte ho l’impressione che le persone tendano a lamentarsi e a voler cambiare senza una ragione precisa, col risultato di finire nelle mani sbagliate. Come adesso. Certo, in questo momento è come se un'onda piena di veleno ci arrivasse da tutte le direzioni. Per esempio, io vivo nei Paesi Bassi e le cose da noi non vanno certo meglio. Quando si sente di gente che vuole eliminare tutte le persone islamiche dal paese e bruciare le loro moschee, è difficile sperare. Alla fine però credo che la cultura vera, la cultura viva, riesca sempre a sopravvivere e a imporsi.
Nel libro, appena uscito, "Mingle With The Universe", che celebra i tuoi 60 anni di carriera, si leggono tanti aneddoti, uno in particolare ci porta ancora in Italia e riguarda il tuo rapporto con Fernanda Pivano, ti va di parlarmene?
Il mio ultimo ricordo di Fernanda è di lei nel suo appartamento che si lamentava di non avere dove mettere tutti i suoi libri. E diceva che se Milano non li avesse presi, li avrebbe bruciati nel bel mezzo della città. L'ultima cosa su cui stava lavorando era la musica grunge. Stava lavorando su Kurt Cobain. Avevo in comune con lei l’amore per Alan Ginsberg e per Jack Kerouac, che ha portato in Italia a fare televisione. Lei era sposata con un architetto, ma Jack le chiese: "Vuoi sposarmi in tv? - E lei - mi piaci moltissimo, però sono già sposata". Quando ho ricevuto il Premio Tenco, lei c'era e abbiamo passato molto tempo insieme. Mi ha anche presentato Tito Schipa Jr, perché Fernanda aveva una casa proprio vicino alla sua dalle parti di Trastevere, e mi disse che avrei dovuto conoscerlo perché dava le feste più belle di Roma. Fernanda era una persona controversa, a causa del suo coinvolgimento con la letteratura beat. Però ha portato molte cose qui in Italia. E' stata lei a far conoscere Charles Bukowski agli italiani dopo esserlo andato a trovare a Los Angeles per intervistarlo.
Ancora a proposito di letteratura, mi piacerebbe che ci anticipassi qualcosa del tuo nuovo album, con il quale torni dopo tantissimo tempo a pubblicare materiale inedito e che riguarda Garcia Lorca.
È molto semplice. Prendo i suoi poemi e li metto in musica. Scrivo canzoni intorno ai suoi poemi, utilizzandoli come testi. Come ho fatto con le poesie di Lord Byron, ad esempio. La differenza è che Lorca non usa nessuna rima e da questo scaturiscono canzoni dalle forme sorprendenti e nuove. Sto anche lavorando a un album di pezzi inediti completamente miei. Andrò a New York per lavorarci.
Quando è prevista l'uscita?
Diciamo che non ho scadenze. Sono lento, perché mi diverto.
In un tuo pezzo dici anche che non si può rivivere il passato. Ci sono comunque dei momenti del passato che vorresti rivivere?
Bob Dylan una volta mi ha detto che secondo lui, invece, è bello rivivere il passato. Magari per lui è più facile perché suona senza sosta, usa sempre la stessa sala prove, può contare su palcoscenici di un determinato livello. Ecco, per me rivivere il passato è una esigenza decisamente meno sentita. L'ho detto a Bob e ci abbiamo riso parecchio.
Il pezzo di cui stiamo parlando, "You Can't Relive The Past", è stato scritto con Lou Reed. Come andò con lui?
Gli ho proposto l'idea e gli è subito piaciuta. Abbiamo lavorato sulle parole e poi siamo entrati in studio che avevamo solo quelle, senza alcuna idea della musica. Però avevamo entrambi una chitarra. All’inizio ci siamo messi a suonare una specie di country-folk, ma poi abbiamo svoltato verso qualcosa di più asciutto e di più ritmico. Cinque minuti per tirare fuori la melodia, due take e la canzone era pronta.
A proposito di canzoni del passato nel libro che ti riguarda, “Mingle With The Universe”, ne figurano 16 con una traduzione molto accurata da parte dell’autore Marco Fazzini.
Quindi avremmo dovuto includere un cd, anche se ormai nessuno possiede più un lettore cd. E’ interessante questa idea del testo proposto in due lingue… la prossima volta lo facciamo con lo spagnolo.
E che mi dici invece del film su di te, “The Songpoet”?
L’idea risale al 2011 e ci sono voluti anni per realizzarla. Ricostruisce circa 40 anni della mia carriera, anche grazie a molte foto e video che io stesso ho girato e conservato gelosamente. Ti parlo di riprese che ho fatto in posti come il Tropicana Hotel dove alloggiavano Janis Joplin, David Crosby, Leonard Cohen quando erano a Los Angeles. Il resto del materiale è stato girato nell'arco di otto anni fra Stati Uniti, Europa e Canada.
Il film è stato prodotto per la televisione americana. C’è speranza di vederlo nel resto del mondo?
Ci stiamo lavorando. La complicazione sta nel fatto che per pubblicarlo in Dvd o su Netflix ci sono problemi innanzitutto economici, legati ai diritti. Prima o poi però ce la faremo.
Abbiamo parlato di passato. Com’è invece il tuo rapporto con il futuro, dunque anche con il trascorrere del tempo?
Da un certo punto di vista è un'avventura. Da vecchio hai meno pressioni, puoi scoprire cose nuove, sperimentare. Nessuno, per esempio, ha mai fatto canzoni utilizzando le poesie di Lorca, o Lord Byron. La cosa divertente è questa. Gli artisti non possono ritirarsi mai, è come se l'arte ti infliggesse una condanna a vita, invece che a morire. Però quella è anche un po' la tua prigione.
Dunque, ecco cosa sono: un ergastolano dell’arte.
Today Is The Highway (Vanguard, 1965) | 6 | |
'Bout Changes & Things (Vanguard, 1966) | 6,5 | |
'Bout Changes 'n' Things Take 2 (Vanguard, 1967) | 7 | |
More Hits from Tin Can Alley (Vanguard, 1968) | 7 | |
Avalanche (Warner Bros – Seven Arts, 1968) | 8 | |
A Country Dream (Vanguard, 1969) | 5 | |
Eric Andersen (Warner Bros – Seven Arts, 1970) | 5,5 | |
Blue River (Columbia, 1972) | 9 | |
Be True To You (Arista, 1975) | 9 | |
Sweet Surprise (Arista, 1976) | 6,5 | |
Midnight Son (CBS, 1980) | 5 | |
Tight In The Night (Wind and Sand, 1984) | 6,5 | |
Ghosts Upon The Road (Gold Castle, 1989) | 7,5 | |
Stages: The Lost Album (Columbia Legacy, 1991) *Registrato nel 1972-73 | 8 | |
Danko/Fjeld/Andersen - con Rick Danko, Jonas Fjeld (Mercury, 1991) | 6 | |
Ridin' On The Blinds - con Rick Danko, Jonas Fjeld & Eric (Grappa, 1994) | 6 | |
Memory Of The Future (Normal, 1999) | 6 | |
You Can't Relive The Past (Norske Gram, 2000) | 6,5 | |
One More Shot - con Rick Danko, Jonas Fjeld (BMG, 2001) | 6 | |
Beat Avenue (Appleseed, 2002) | 6 | |
The Street Was Always There: Great American Song Series, Vol. 1 (Appleseed, 2004) | 7,5 | |
Waves: Great American Song Series, Vol. 2 (Appleseed, 2005) | 7 | |
Silent Angel: Fire & Ashes Of Heinrich Böll (Meyer, 2017) | 7 | |
Mingle With The Universe: The Worlds Of Lord Byron (Meyer, 2017) | 7,5 | |
Birth Of A Stranger: Shadow And Light Of Albert Camus (Meyer, 2018) | 7 |