Csi

Tabula rasa elettrificata - Quando l'alt-rock italiano espugnò le classifiche

Che cosa ci fa un disco del Consorzio Suonatori Indipendenti in testa alla classifica degli album più venduti d’Italia? La domanda sorge spontanea il 15 settembre del 1997, quando l’ultima rilevazione Fimi/Nielsen vede la band di Giovanni Lindo Ferretti scalzare nientedimeno che gli Oasis – fenomeno britpop di maggior successo del decennio – e il loro “Be Here Now” dalla vetta della hit parade nazionale. Accadrà per una sola settimana – del resto, si è sempre detto che le cose belle durano poco – e il volume di vendite complessivo non sarà tanto superiore a quello della media dei precedenti lavori firmati Csi (ottantamila copie), ma sarà il suggello a una rivoluzione musicale tutta insita ai 90’s: il rock alternativo italiano conquistava i mercati e dimostrava tutte le sue, fino a quel momento insospettabili, potenzialità commerciali. I discografici della Black Out/PolyGram, che avevano puntato a occhi chiusi sul Consorzio, potevano fregarsi le mani. In tanti invece – inclusi giornalisti di media generalisti e addetti ai lavori mainstream – si ponevano un’altra, più radicale domanda: chi sono mai questi Csi?

(In)fedeli alla linea

Csi - Tabula Rasa elettrificataI Csi - com'è noto - altro non erano che la naturale prosecuzione di una delle esperienze più radicali e dissacranti del (post)punk italiano: quella dei Cccp – Fedeli alla linea, tornati proprio quest'anno alla ribalta con una serie di iniziative finalizzate a celebrare i 40 anni dall’uscita dell’Ep “Ortodossia”: dalla mostra “Felicitazioni! Cccp – Fedeli alla linea. 1984 – 2024” ai Chiostri di San Pietro di Reggio Emilia all'uscita del box “Felicitazioni!” che raccoglie diciotto brani storici della band di Ferretti più varie memorabilia, fino alla tripla esibizione di "Cccp in Dddr", "lo spettacolo che unisce il punk filosovietico e la musica melodica emiliana nel cuore pulsante della Repubblica Smantellata di Germania Est", in programma all'Astra Kulturhaus di Berlino (24,25 e 26 febbraio 2024). Il meritato omaggio a un'esperienza cardinale per l'intera scena rock nazionale, quella di una band provinciale italiana che riuscì a deturpare tutto quello che poteva essere tradizionalmente italiano, dalla canzonetta al ballo liscio, tritandolo in un frullatore punk a velocità supersonica.

Ma ritenere i Csi solo una versione più rassicurante dell’incarnazione originaria – come in tanti hanno cercato di fare - sarebbe profondamente sbagliato: si tratta infatti di due gruppi ugualmente innovativi e sperimentali, il cui raggio d’azione ha inciso in modo altrettanto significativo sulla scena italiana dell’epoca. La nuova incarnazione, nata tra le macerie del Muro di Berlino, dovrà giocoforza (ma in realtà con notevole ironia) adottare il nuovo acronimo dell'ex-impero sovietico in dissoluzione: Csi. L'8 dicembre 1991, infatti, con la firma dell'Accordo di Belaveža, sottoscritto dai leader di Bielorussia, Russia e Ucraina in una dacia nella foresta di Białowieża, era stata decretata la cessazione dell'Unione Sovietica come soggetto di diritto internazionale e istituita al suo posto la Comunità degli Stati Indipendenti (CSI). Pochi giorni prima Mikhail Gorbaciov si era dimesso da capo di Stato dell’agonizzante Urss.
Ferretti e compagni restano “fedeli alla linea” e ne traggono le conseguenze. Diventeranno il Consorzio Suonatori Indipendenti. Non un gruppo, ma un vero e proprio “supergruppo”. Ciò che rimaneva dei Cccp originali (Ferretti e Zamboni, il nucleo emiliano) si fonde infatti con il drappello toscano in uscita dai Litfiba, composto dal bassista Gianni Maroccolo e dal tastierista Francesco Magnelli, che già avevano collaborato all'ultimo album dei Cccp, “Epica Etica Etnica Pathos”, insieme al loro tecnico del suono e chitarrista, Giorgio Canali. Entra stabilmente in organico anche la cantante Ginevra Di Marco, futura moglie di Magnelli, mentre abbandonano la compagnia Fatur e Annarella.

Due capolavori come “Ko de mondo” (1994), graffiante collage di pensieri e riflessioni esistenziali sparse sulla contemporaneità, e “Linea Gotica” (1996), quasi un concept scaturito dal dolore per i tragici avvenimenti di quegli anni nella ex-Jugoslavia, avevano già dimostrato come, nonostante il cambio di formazione, per Ferretti e compagni fosse sempre stata “una questione di qualità”. L’ossuto sciamano dell’Appennino emiliano, con la sua poetica vibrante, mistica e magnetica, è assurto nel frattempo a guru della scena rock alternativa italiana, al punto da creare attorno al Consorzio una costellazione di artisti e musicisti assortiti. Una sorta di factory, che include gruppi come Disciplinatha e Üstmamò, con cui i Csi condividono il palco il 18 settembre 1992 nel Festival delle Colline, presso il Centro per l'Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato. Alcune fra le avanguardie più stimolanti dell'underground nazionale si alternano in scena per quello che nelle intenzioni doveva essere un appuntamento estemporaneo, ma che si trasformerà in un mini-tour nel febbraio del 1993. Quel concerto resterà stampato nella memoria collettiva grazie allo storico album live “Maciste contro tutti”.
I Csi diventano così il faro della fertile scena indie-rock nazionale. Perché – come sottolinea Lorenzo Salzano nella nostra pietra miliare di “Linea gotica” – si servono del punk “non come riproposizione pedissequa di stilemi o ideologie vetusti, ma come forma di ascesi del suono, ridotto alla ferocia di una chitarra elettrica, perché, di fronte all'inaudito, ogni ulteriore abbellimento mancherebbe di forza e pudore”. Lo stesso è chiesto alle parole: “Che dicano solo ciò che è vero e che è necessario, come strappandolo a forza alla morsa di un silenzio che l'anima, annichilita, reclama. In fondo, è la stessa intransigenza di quando i Cccp intitolavano il loro primo disco 'Ortodossia'”.

In Italia sono anni di tragiche svolte politiche e di battaglie giudiziarie. Gli anni di Tangentopoli e della dissoluzione della Prima Repubblica, ma anche dell’avvento al potere di un nuovo inquietante centrodestra, guidato da Silvio Berlusconi. Anche la geografia politica mondiale è in rapida mutazione, con Bill Clinton che, dopo la lunga era di Reagan e Bush, riporta i democratici alla Casa Bianca attraverso la sua “Third Way” centrista, che concilia le tradizionali posizioni liberiste sull'economia con una politica sociale progressista. Sulla stessa falsariga – o quasi – l’affermazione di Tony Blair nel Regno Unito, che rispedisce al Numero Dieci di Downing Street il partito laburista britannico dopo un lunghissimo esilio all'opposizione: diciotto anni passati fuori dal governo, tra la stagione ferrea di Margaret Thatcher e quella più grigia di John Major.
Pur restando all'epoca ancora fedeli alla linea (la metamorfosi politica del Ferretti recente è nota a tutti), i Csi tendono ad allontanarsi progressivamente dall’agone politico, inseguendo riflessioni esistenziali e filosofiche più che i vecchi slogan militanti. Anche quando devono fare i conti con le Cupe vampe che avvolgono i Balcani, volano più in alto, trainati da liriche sempre più ermetiche e ascetiche che Ferretti mutua anche dai suoi complessi percorsi di ricerca spirituale. Ma una sola strofa come “Ci fotte la guerra che armi non ha, ci fotte la pace che ammazza qua e là, ci fottono i preti, i pope e i mullah” riesce a spiegare la guerra in Jugoslavia più di qualsiasi trattato di geopolitica.



Viaggio in Mongolia

A spezzare la fortunata routine della tournée di “Linea Gotica”, arriva il messaggio di un burocrate della Mongolia, il paese che Ferretti sognava di visitare fin da bambino: il visto turistico, richiesto senza molte speranze anni prima, era stato accettato in cambio di una piccola elargizione al funzionario incaricato. L’invito era rivolto allo stesso cantante e al compare Zamboni, uniti dalla comune passione per quelle steppe sterminate: “Da bambino sognavo la Mongolia, era per me uno spazio di fantasia totalmente mio - racconterà il vate di Cerreto Alpi – L'avevo scelta perché il sussidiario di scuola la descriveva come l'ultimo luogo al mondo dove c'erano ancora i nomadi, dove gli uomini sono tutti pastori, allevatori e cacciatori, dove il cielo è pieno di aquile e la terra è piena di animali. Quando Massimo mi disse che aveva la stessa passione, non riuscivo a crederci”. E gli altri? Bisognava convincerli a interrompere il tour.
Per riuscire nell’impresa, i due organizzano un pranzo luculliano con tutto il gruppo in una trattoria tipica, “Canossa” di Reggio Emilia: “Li abbiamo intontiti di cappelletti, lessi, arrosti, dolci e Lambrusco a volontà – racconterà divertito Ferretti a Sky Arte in una puntata di "33 giri: Italian Masters" – Abbiamo fatto presente che io e Massimo dovevamo partire e gli altri al massimo si potevano unire. Alla fine siamo andati solo noi due, ma il tour è finito lì”.
E così Ferretti e Zamboni partono. Viaggiano attraverso la Transiberiana, tra i rottami del sogno tecnologico sovietico. Un tragitto lungo 5.700 chilometri che li porta su lande sconfinate e inospitali. Sarà documentato dal libro “In Mongolia in retromarcia”, dal docu-film di Davide Ferrario “Sul 45º parallelo” e da una serie di documentari per Geo & Geo (Rai 3) con la regia di Marco Preti. Ogni aspetto di quel viaggio dovrà entrare nei solchi del nuovo disco: le esperienze, i rumori, i sapori, le atmosfere di quei paesaggi irreali di terra, cielo e polvere, popolati spesso più da animali che da uomini.

Tornati a casa, i due amici iniziano a riversare tutto quell'immaginario in versi e suoni. Facile per chi, come Ferretti, del nomadismo (delle geografie ma anche delle culture) aveva fatto la sua ragion d’essere. Meno prevedibile, invece, che anche gli altri componenti del gruppo riuscissero a stare al passo, calandosi rapidamente in quel contesto: “Era come se avessero fatto il viaggio anche loro”, commenterà Zamboni. La splendida voce di Ginevra di Marco, il monumentale basso di Gianni Maroccolo, pilastro del rock indipendente italiano dai primi Litfiba in poi, le tastiere atmosferiche di Francesco Magnelli e la chitarra incendiaria di Giorgio Canali: tutto concorre a quel miracolo di coesione e affiatamento di nome “Tabula rasa elettrificata”.
Il titolo ha una doppia valenza: abbreviato diviene TRE, a indicare che si tratta del terzo album del Consorzio; per esteso è invece una potente immagine di una Mongolia tutta pianure e distese sconfinate, solcate soltanto da pali della luce con i fili rotti, testimonianza figurativa dell'impossibilità di elettrificare quelle terre aspre e, in definitiva, dello sfacelo dell'intero sistema comunista. È il simbolo di un annientamento, un fare deserto, una purificazione totale: una tabula rasa, però elettrificata, come a voler prefigurare, negli albori del globalismo, una comunicazione incessante fatta di pali elettrici, di energie, di comunicazioni fra questi territori lontanissimi e il mondo civilizzato. Perché, pur allontanandosi dalle posizioni filocomuniste degli esordi, Ferretti e compagni mantenevano inalterata la loro visione fortemente critica sull'Occidente. Cambiavano però l'ottica e la prospettiva generale. Il loro sguardo tornava alla purezza della terra e degli spazi sconfinati per mettere alla berlina l'esteriorità e il conformismo asfissiante del mondo consumistico occidentale.

Tutto, si diceva, riporta in Mongolia, anche la splendida immagine della copertina: un intervento pittorico su una serie di foto scattate dai due amici durante il viaggio. Ma – parola di Ferretti - “'Tabula rasa elettrificata' non è un disco esotico, ancor meno etnologico o popolaresco, forse è l'unico disco rock nella storia dei Cccp/Csi”. Ascoltare per credere il singolo che esce con largo anticipo sulla pubblicazione dell’album in una radio-version specificamente preparata dalla PolyGram, con l’amputazione della introduzione strumentale che immerge subito nel cuore della strofa. “'Forma e sostanza' è nata da una jam collettiva a notte inoltrata – racconterà Maroccolo. È stata il nostro grimaldello per farci scoprire dalle radio e dagli altri media che non consideravano la musica rock alternativa. Ci ha reso popolari e al tempo stesso ci ha condannati all’oblio: è grazie a quella canzone che siamo passati dai live nei teatri ai grandi concerti nei palazzetti. Non eravamo in grado di reggere quella pressione, ma almeno abbiamo chiuso in bellezza”. Non si fa certo fatica a comprendere il perché di quel successo: “Forma e sostanza” è un'autentica bomba sonora, con quei feedback acuminati, quella melodia ritmica, spezzata, e quell'ossessivo loop androide che sembra un effetto di chitarra col wah wah ed è invece inventato da Magnelli alla tastiera. E poi c'è il testo: “Un coacervo di pensieri filosofici concatenati tra loro nella maniera più semplice del mondo”, secondo la definizione di Ferretti, che con piglio ironico e aggressivo al contempo cantilena il suo slogan/ritornello liberatorio: “Voglio ciò che mi spetta, lo voglio perché è mio mi aspetta”. Un inno definitivo per una stagione intera, l'età dell'oro del rock alternativo italiano degli anni Novanta, di cui rivendicavano una sorta di primogenitura, se non di leadership assoluta.

Campioni del rock nazionale

Realizzato in studio tra il gennaio e il marzo 1997 a Carpineti, nel reggiano, e pubblicato nell'agosto dello stesso anno, “Tabula rasa elettrificata” è come una scossa tellurica per la scena rock nazionale. Una dimostrazione di potenza solenne e irriverente, un miscuglio spiazzante di canzoni dolci e violente che assecondano tutte le contraddizioni della vita sotto il cielo della Mongolia. Superprodotto, con strati di chitarre su strati di chitarre distorte e sopra uno sfarfallio continuo di tastiere e piatti nelle parti più potenti, cui si alternano parti quiete guidate dal basso con batteria soft e piccoli respiri di tastiere o di chitarre. Un disco che manifesta tutte le ambizioni di una band che – forse inconsapevolmente – stava uscendo dal ghetto, dalla comfort zone in cui si era auto-confinata per anni. Ma non tutti erano pronti per cogliere la portata di quella rivoluzione. Basti pensare alla celebre gaffe di Gianni Boncompagni che, scandalizzato, aveva scambiato il titolo del brano col nome del gruppo: “Bocelli è ormai il numero uno al mondo e da settimane guida le classifiche di vendita inglesi, mentre da noi in testa alla hit parade c'è un gruppo chiamato Tabula Rasa Elettrificata che nessuno, neanche i ragazzi di Macao, conoscono!”. Ci sarà anche chi, tra le stesse file dell’underground tricolore, mostrerà scomposti segni d’invidia, come Freak Antoni, leader degli Skiantos, autore di un livoroso j’accuse: “Quel pretestuoso, orribilendo (= orribile + orrendo) Consorzio-Suonatori-Indipendenti che richiama subito alla mente immagini da caseificio della bassa emiliana. Indipendenti da chi? Da che cosa? Non certo dal business discografico, sui cui marosi veleggiano a gonfie vele, come piccoli imprenditori laboriosi e organizzati proprietari della loro personale etichetta di successo nazionale. Un aroma da manifesto di propaganda socialista al di là del demodé e ben oltre l’ingenuità di un kitsch involontario, perciò understatement programmato. Molto appetibile dall’èlite colta dei giornalisti e degli intellettuali più modaioli. Gran paraculata per gonzi assetati di impegno culturale e rigore artistico. Che abboccano come lucci”.
Mimporta 'nasega, replicherà idealmente – e di fatto – Ferretti, consapevole della stravaganza della situazione che si era venuta a creare. I Csi scompariranno presto dalle vette delle classifiche, togliendo d'impaccio molti addetti ai lavori e commentatori di area nazionalpopolare. Ma qualcosa di straordinario e irreversibile si era ormai consumato.

Non è solo l’exploit di “Forma e sostanza” a spiegare il miracolo. Perché l'intero album funziona, sprigionando una massa sonora poderosa e stordente, in cui il canto afasico e salmodiante di Ferretti penetra come una lama affilata. Al posto del punk filosovietico dei Cccp, s’incuneano resoconti amari sullo sfacelo del grande disegno bolscevico. Come tra i violini mongoli a due corde, le tastiere spettrali e le chitarre noise di “Unità di produzione” (dedicata a Mosca), dove lo sviluppo comandato dell’economia si scontra con la forza di resistenza della stessa terra, che “non si può sollevare”: “Sogno tecnologico bolscevico/ Atea mistica meccanica/ Macchina automatica, no anima/ Macchina automatica, no anima/ Ecco la terra in permanente rivoluzione/ Ridotta imbelle sterile igienica/ Una unità di produzione”. È uno strappo completo, anche interiore per Ferretti, che reciderà in seguito ogni legame con il suo passato di militante comunista, pur senza rinnegarlo.
Sempre ieratico, solenne, nelle sue declamazioni, il leader riesce a piazzare affondi testuali complessi anche dietro l’apparente semplicità dell’irriverente uptempo di “Mimporta 'nasega”: “Probabili cadute su disastri annunciati/ Connessioni smarrite tempi mal calcolati/ L’apocalisse è quello che c’è già/ Mistica Bio Meccanica/ Eonica soap opera puntate quotidiane/ Assegnate le parti corrono le comparse”. Riesce a ergersi a protagonista dei brani, mostrando un’attitudine quasi cinematica in “Vicini”, dove il battito trip-hop viene squarciato dalle lancinanti distorsioni delle chitarre e da un altro dei suoi ritornelli esplosivi, e arrivando quasi a togliere il respiro nell’incalzante “Accade”, in cui ripete per ben diciotto volte di fila la frase “ciò che deve accadere accade”.

Altri brani suonano più languidi, riflessivi, come l’ode a un'Asia più immaginata che reale di “Brace” - con la voce morbida di Ginevra Di Marco a fare da contraltare all'elettricità del ritornello - come la visionaria “Ongii”, struggente istantanea del paesaggio della Mongolia dedicata all’omonimo fiume, un tempo lungo oltre quattrocento chilometri, nel ricordo della follia della distruzione del complesso dei Monasteri Ongijn Hijd da parte dei sovietici nel 1939, o ancora la preghiera ipnotica di “Gobi”, intessuta sul mantra mongolo “Om Mani Padme Hum”, e l’evocativa “Bolormaa”, che narra la storia di una contorsionista bambina e riporta sugli scudi la vocalist in un altro intervento da brividi.
Di Marco è un altro valore aggiunto del disco: si mostra interprete flessuosa, duttile, capace di mimare perfino il canto tradizionale delle donne mongole nell’innesto di voci della punkeggiante “Matrilineare”, riuscita ode alla società matriarcale di oggi e di ieri. Ma tutta la band è in stato di grazia. Le tastiere di Magnelli pennellano scenari astratti, con sfumature psichedeliche, le chitarre di Zamboni e Canali graffiano rabbiose, oscillando tra noise-rock e shoegaze, mentre il basso ossessivo di Maroccolo guida una sezione ritmica in cui il drumming di Gigi Cavalli Cocchi riesce a essere sempre asciutto e tumultuoso al tempo stesso.
Un’alchimia irripetibile che stregherà anche tanti critici e musicisti. Come ad esempio Franco Battiato, che ne scriverà la miglior recensione possibile: “Un disco eccezionale. Ritengo che tutti i brani siano molto interessanti... In 'Bolormaa' c'è una frase stupenda: ‘Monito terrorista che la retta è per chi ha fretta’… Un disco, per usare una sintesi, apocalittico. Facendo però attenzione all'utilizzo di questa parola con il suo significato originale di rivelazione. Un disco che appartiene a una concezione esistenziale nordica, con una idea di rivoluzione non nella sua accezione distruttiva. Un disco rivoluzionario”.

Logorati dal successo

Si diceva di come il caso discografico di “Tabula rasa elettrificata” sia risultato spiazzante e in definitiva perfino ingestibile per un gruppo come i Csi, destinato di fatto a sciogliersi proprio una volta giunto al culmine della sua popolarità. Forse inconsapevolmente, il Consorzio si era spinto in un territorio poco congeniale per il suo stesso approccio e metodo di lavoro. In prima battuta, però, Giovanni Lindo Ferretti regge l’onda d’urto e tenta in qualche modo di “giustificare” l’inaspettata conquista della vetta delle classifiche: “Fa colpo che i Csi improvvisamente si ritrovino al primo posto, per una settimana, nella classifica dei dischi più venduti in Italia – scriverà il leader sull'inserto Musica di La Repubblica del 1° ottobre 1997 - E perché mai? La musica vive e si nutre di contraddizioni insanabili (...) è il luogo della crescita tumultuosa, delle esperienze più profonde, è lo spazio intimo della libertà personale e, a volte, collettiva. La musica è il regno della complessità e il paradigma del nostro mondo in questi anni (…) La musica ha il potere di trasformare i singoli, determinare la società. È labile, cangiante, inafferrabile e insieme strutturata, ferrea, rigida (…) Solo un mercato piccolo, provinciale e quindi subordinato, può stupirsi per i Csi al primo posto in classifica. Doveroso, invece, come una boccata di aria pura. Promettente. Aspetto di vederci gli Üstmamò e poi i Marlene Kuntz e poi... Allora la musica moderna italiana dimostrerà a se stessa di essere adulta”.
Di lì a poco, in effetti, sarebbero usciti altri dischi italiani in grado di consolidare una scena che pareva sempre più vivace e rigogliosa: da “Ho ucciso paranoia” dei Marlene Kuntz a “Non è per sempre” degli Afterhours, da “Armstrong” degli Scisma all’omonimo dei Verdena, da “Lingo” degli Almamegretta ad “Acidoacida” dei Prozac +. Una stagione, purtroppo, precocemente svanita, al trapasso del decennio, anche per via della progressiva perdita di centralità del rock nelle preferenze del pubblico più giovane.

Ma soprattutto, di lì a poco, sarebbe svanita anche l’utopia del Consorzio. Troppo forte la pressione di un music business che stava snaturando l’essenza stessa del gruppo. Con episodi al limite, come le date estive da supporter del tour di Jovanotti, contestate da alcuni fan, ma anche la stessa grandiosità del "Mimporta ‘nasega Tour", partito da Firenze il 3 febbraio 1998 per 53 concerti, tutti sold-out. Memorabile resterà anche un’altra esibizione, testimoniata dal live “La terra, la guerra, una questione privata” uscito nel gennaio del ’98 ma relativa a una serata di due anni prima, dedicata al partigiano Beppe Fenoglio. I primi dissapori tra Ferretti e Zamboni - culminati in una frattura definitiva il 22 settembre del 1999 a Berlino, nella stessa città in cui tutto aveva avuto inizio - ma anche le difficoltà del resto della band ad adattarsi alla nuova dimensione causano delle crepe insanabili. Sarà però un altro storico evento, il live nella città martoriata di Mostar, in Bosnia-Erzegovina, a segnare idealmente la chiusura del cerchio. “I Csi sono finiti nella ex-Jugoslavia: quando abbiamo suonato a Mostar, nello stadio usato come campo di concentramento, abbiamo in qualche modo valicato il limite tra la musica e la vita”, spiegherà Ferretti.
Dopo lo scioglimento della band, avvenuta nel 2002, alcuni ex-componenti dei Csi sono confluiti nei Pgr (Per grazia ricevuta), mentre Giovanni Lindo Ferretti ha dato vita a diversi altri progetti, sia discografici che letterari, sconcertando poi i vecchi fan militanti con il suo sostegno a posizioni vicine alla destra e al cattolicesimo più conservatore (salvo poi cercare di attenuare il tutto con la rimpatriata nostalgica dei Cccp del 2023). Ma questa è decisamente un’altra storia. Così come quella - alquanto bizzarra, in verità - di una ristampa “sbagliata” del 2020 in cui la Universal utilizzerà dei premix anziché il master definitivo, facendo affiorare così imprecisioni, omissioni e perfino qualche voce fuori campo: la casa discografica ci metterà una pezza qualche settimana dopo, pubblicando nuovamente il disco.
Resteranno ai posteri le canzoni di un (super)gruppo irripetibile, simbolo di una controcultura musicale, di un attacco irriverente e spietato al sistema, che ha traghettato attraverso due decenni il pubblico alternativo italiano. Ma resterà anche il rimpianto di non averlo potuto più vedere all’opera proprio quando aveva raggiunto il culmine del suo affiatamento.

(Tratto dal volume "1997" della collana editoriale "The Past")