Grandaddy - Jason Lytle

Grandaddy - Jason Lytle

Elettro-country in lo-fi

La musica dei Grandaddy riesce nell'impresa di combinare Neil Young con i Kraftwerk. Grazie a un sound che è insieme teso e malinconico, tradizionale e d'avanguardia. Un'avventura musicale nata a Modesto, nella provincia americana

di Marco Delsoldato

"Modesto è una città anti-spettacolare. Da questo punto di vista noi siamo suoi figli legittimi". Così ha risposto il chitarrista Jim Fairchild a una domanda sulla città originaria dei Grandaddy. Chi non conosce Modesto la immagina come uno di quei piccoli agglomerati urbani tranquilli, dove chiunque incontri per strada lo saluti, perché se non è un tuo amico poco ci manca. E nascere in un luogo simile può, forse, far sfuggire dalla frenesia che contraddistingue le grandi città del secondo millennio. Sarà stato questo aspetto, sommato a molti altri, a permettere a cinque ragazzi "normali" di formare uno dei gruppi più interessanti del nuovo panorama indie americano? Possibile, anzi probabile.

Era il 1992 quando Jason Lytle (voce e chitarra), Kevin Garcia (basso) e Aaron Burtch (batteria) formarono l'embrione del gruppo. Un album auto-prodotto nel 1994, il grezzo Complex Party Come Along Theories, di cui furono stampate solo 200 copie, "e l'anno successivo i Grandaddy divennero il gruppo che oggi conosciamo: ai tre membri originari ai aggiunsero, infatti, il tastierista Tim Dryden e il chitarrista Jim Fairchild. Le sonorità sono vicine al lo-fi di stampo "pavementiano", ma con una maggiore cura per la melodia che si mischia a istanti ruvidi e aspri. I due Ep Machines Are Not She del 1995 e A Pretty Mess By This One Banddel 1997 (poi riuniti dalla V2 nel cd The Broken Down Comforter Collection) testimoniano chiaramente l'approccio musicale della band, dove la semplicità è solo apparente, con gli schizzi delle chitarre e della tastiera spesso folli.

Le premesse sembrano ottime e quando, nel 1998, esce il primo "vero" album sono immediatamente confermate. Under The Western Freeway è un piccolo gioiello che riesce ad unire Neil Young ai Pavement e alla scena indie statunitense degli anni '90. Dall'acustica "Nonphenomenal Lineage" alla malinconia della strumentale title track, passando per la graffiante "A.M.180" e per la distorta "Summer Here Kids", si incontra un disco con un sottofondo sonoro sempre leggero, pur circondato da atmosfere a tratti rabbiose.

Il clamore suscitato dal successo ottenuto sorprende il gruppo: "Era il nostro primo album, per di più con un'etichetta importante. Avevamo delle aspettative, ma erano davvero piccole. Non abbiamo mai pensato di fare qualcosa di così facile o di moda da poter sperare in chissà quale successo. E la sorpresa dipende proprio da quali sono le tue aspettative. La nostra unica speranza era che qualcuno potesse apprezzare la nostra musica, non molto di più". E sono molte le persone ad apprezzare l'album, tanto da far diventare i Grandaddy un fenomeno di culto. Fenomeno che aumenta clamorosamente le sue proporzioni nel 2001, con l'uscita di The Sophtware Slump.

Il percorso, già affascinante nei lavori precedenti, diventa ancora più ammaliante e intrigante. L'iniziale dichiarazione d'amore verso gli esseri umani, con un incitamento a non cedere al progresso delle nuove tecnologie, raggiunge livelli d'intensità altissimi. L'evoluzione del suono è innegabile, ma le caratteristiche della band non mutano. Fairchild dichiara: "Questo è il nostro linguaggio, non c'è dubbio. Per quanto possiamo evolverci, non credo che ci allontaneremo troppo dalle coordinate fin qui espresse. La scrittura di Jason sta migliorando a vista d'occhio. Ora alcuni elementi sono più nitidi, i particolari meglio definiti, i significati più centrati. I testi rimangono molto semplici e continuano a muoversi su due livelli: uno più diretto all'orecchio di chi ascolta, l'altro più interessato ai grandi temi. E credo che queste siano anche le caratteristiche principali della nostra musica, con il lato intimista e minimale che si sposa con aperture melodiche più ampie e maestose". E sull'ipotesi che esista un legame con una certa dimensione pop, Fairchild è molto chiaro: "Non penso che esistano molti punti di contatto con il concetto moderno di pop-music, perché non abbiamo elementi ingannevoli né facili ammiccamenti". Ed è tutto vero, scrittura e suono sono più maturi, creando un perfetto connubio in cui domina un senso di disorientamento che si diffonde per tutto l'album. Dalla struggente desolazione di "Jed The Humanoid" alla commozione che regala il pianoforte di "Underneath The Weeping Willow", è un delirio di semplici illusioni, con una nostalgica malinconia sempre presente e mai eccessiva. Episodi come"Miner At The Dial-A-View", "Jed's Other Poem" e la conclusiva "So You'll Aim Toward The Sky" raggiungono picchi emozionali raramente rintracciabili nell'attuale panorama musicale, grazie all'unione fra chitarre ed elettronica "disturbante".

A chi li ha paragonati a un misto fra Neil Young e Kraftwerk, Jason Lytle ha risposto: "Chissà. mi viene in mente 'Trans Am' di Neil Young. Lì sembrava che lui stesso avesse invitato i Kraftwerk in session. Questi nomi possono essere dei riferimenti per dare l'idea della miscela presente nella nostra musica. In questo caso posso essere d'accordo. Non sono disposto a citare alcuna influenza precisa, ma è innegabile che sia attratto dalla possibilità di fondere il suono delle canzoni americane tradizionali con quello tecnologico dell'elettronica. Anche se, nel nostro caso, l'elettronica è più un elemento di disturbo, o al massimo di arricchimento dell'insieme. Mi piace sentire che effetto fa associare certe sonorità apparentemente aliene a un impianto rock convenzionale. Sono molto attratto dall'indescrivibilità di certi suoni, dal mistero che celano. Così come, dall'altra parte, sono ancora interessato alla pura espressività umana. Voci e chitarre hanno ancora una grande forza. L'elettronica aggiunge il mistero".

Sumday (2003) è invece un disco di transizione. Non c'è più la variabile impazzita, non c'è più il fascino dell'imperfezione e della spontaneità; rimangono, tuttavia, le straordinarie doti di songwriter di Lytle e canzoni come "El caminos in the west", "Saddest vacant lot in all the world" lo dimostrano. Il resto del disco scorre via, all'insegna di un indie pop di buona fattura, ispirato tanto dai Beach Boys quanto da Neil Young, con picchi quali il brano d'apertura, "Now it's on", la già citata "El caminos in the west", la stralunata "Stray dog and the chocolate shake", con quella tastierina che fa tanto. Grandaddy!

Excerpts From The Diary Of Todd Zilla (2005) è un corposo Ep, costruito attorno a una fumoso concept.
C'è stavolta il solo Jason Lytle, mente del gruppo ma in questo caso anche unico braccio, se si eccettua l'aiuto di Aaron Burtch, come sempre alla batteria.
"Pull The Courtains" vede i(l) Grandaddy nella migliore forma. Cantabili ma ruvidi, come si conviene. E per l'occasione si rispolvera la tastierina di "The Sophtware Slump", lasciata in soffitta da quel momento fino a oggi. "At My Post" è ricca di colori e atmosfere diverse, con quel dolce coretto di "Aaah" e quell'andamento fra l'indolenza post-rock e l'indolenza dell'America di provincia.
Permeate di malinconia sono invece la ballate "A Valley Son (Sparing)" e "Cinderland". A distinguersi, insieme a "Pull The Courtains", è "Florida". Il testo è ottimo, nella migliore tradizione scazzona e surreale di Jason Lytle. La musica è una specie di ironico hard-rock spaccone e tiratissmo, condito da tastiere e fisarmonica, con tanto di delirante assolo heavy nel mezzo. Se poi non bastasse, c'è il dolce finale di "Goodbye?", tutta crepuscolo e chitarra acustica.

Just Like The Fambly Cat (2006) dovrebbe segnare la fine della band, eppure non ha i connotati dell’addio: le sensazioni sono (quasi) quelle passate, le impressioni pure e il mezzo passo falso di Sumday dimenticato. Il concetto di base è la continuità. Il pop deviato e sintetico, intenso anche quando rasenta la leggerezza pura: spesso gli ingredienti ci sono, con il doveroso intimismo disponibile a farsi illuminare da una luce abbagliante. Non siamo ai livelli di The Sophtware Slump, va ammesso, tuttavia la distanza non è eccessiva come era lecito temere.
La vaga irrealtà di base convince ("Summer…It’s Gone") quanto l’esaltazione dell’effimero in un’estetica pop di fasulla introspezione ("Elevate Myself"), dipanando la squisitezza delle melodie in arrangiamenti adulterati e ricercati. Inevitabile, allora, notare come la cifra stilistica sia rappresentata da una delicatezza a parte e volutamente irrazionale, persuasiva e accogliente anche quando afflitta in sé stessa ("Real View Mirror", il miglior episodio del lotto).
Di rimando alcuni riferimenti annunciati dallo stesso Lytle (su tutti gli Electric Light Orchestra) in realtà evidenziano un approccio e non la resa concreta sul campo. Non hanno cambiato le regole, i Grandaddy, il gioco è sempre fra synth, distorsioni e attuazione personale (ma palese) della forma canzone, anche facendo una smorfia alla dilatazione ("Guided Down Denied"), senza rinnegare l’attitudine da artigiani della bassa fedeltà.
E se il rischio della svagatezza propositiva viene evitato con abilità ("The Animal World"), la carenza principale potrebbe rintracciarsi in alcune incertezze che, quando non volute, appassiscono le tinte in chiaroscuro utilizzate. Tuttavia, queste sono solo eccezioni, non i fili conduttori di un disco lucido e consolatorio per chi rimpiangeva certi Grandaddy. Non un miracolo, ma quello era già stato fatto, e bissare era oggettivamente impresa impossibile.

Sciolta la band, dopo un lungo periodo di crisi, Jason Lytle si è spostato dalla natia Modesto in una sperduta casetta di legno nelle cime del Montana e ha composto in circa sei mesi il suo primo Lp da solista, Yours Truly, The Commuter (2009), un lavoro in gran parte ispirato anche se non eccezionale, permeato da un'atmosfera di rilassatezza e serenità.
A prevalere, come accadeva in "Sumday", sono le canzoni soavi e lente. L'unico pezzo movimentato e rock è la piacevole "It's The Weekend". I momenti migliori del disco sono però l'opener e title track "Yours Truly, The Commuter", soave ballad introdotta da una dolce tastierina dove il quarantenne di Modesto canta "I was left for dead" ("ero dato per morto", si intende musicalmente parlando), la solare "Brand New Sun" che ha un incipit molto simile a quello di "Who'll Stop The Rain" dei Creedence Clearwater Revival e un finale in crescendo emozionantissimo, "Furget It", brano minimale accompagnato da un accordo di piano che piano piano ti entra nell'anima, e la sognante e conclusiva "Here For Good", nella quale il musicista proclama il suo intento di fare, per mezzo della sua arte, del bene, in primis a se stesso, ma anche a chi lo ascolta.
Si sbadiglia, invece, in episodi come la poco originale "Birds Encouraged Him", la lamentosa "You're Too Gone", la noiosa "Rollin' Home Alone" e "The Ghost Of My Old Dog", dedicata a un pastore australiano che fu investito da una macchina. Piacevoli ma non entusiasmanti le altre tracce, tra cui "This Song Is The Mute Button", che è introdotta dal secondo movimento della celeberrima settima sonata di Beethoven.

In definitiva, si tratta di un discreto album con alcuni pezzi ottimi ma che non ha lasciato del tutto soddisfatto il suo autore, e a cui farà seguito un disco più duro e caotico.

Nel frattempo è possibile scaricare gratuitamente dal suo sito ufficiale l'album natalizio di Jason Lyltle. Il disco si intitola "Merry X-Mas 2009" ed è composto da 7 brani improvvisati al pianoforte.

Alla fine del 2012 – mentre è in corso una reunion live dei Grandaddy foriera forse di un seguito discografico – Jason Lytle pubblica il suo secondo lavoro solista Dept. Of Disappearance (2012), concepito ancora una volta nel suo buen retiro nell’ameno stato del Montana.

 Qui Lytle sembra avere trovato una sorta di pace esistenziale fatta di camminate nei boschi, musica e beata solitudine, tanto che un pezzo come “Get Up And Go” contiene, nelle sue liriche più che essenziali e nella sua melodia ottimisticamente ariosa, un incoraggiamento che suona come un proclama di ritrovata serenità: “get up and go, / you can do it, / everything is gonna be all right”. Come se il “Dipartimento Della Scomparsa”, per il quale Jason dichiara di lavorare nel brano che dà il titolo al disco, non fosse che la realizzazione di un desiderio covato per anni da un musicista che non ha mai nascosto la sua timidezza e il suo desiderio di introspezione.

 Rispetto al precedente lavoro solista – e ai dischi dei Grandaddy – Dept. Of Disappearance non prevede particolari sterzate. Sostanzialmente ogni nota è suonata e arrangiata in quasi totale autarchia dal musicista californiano, mentre lo stile è quello che conosciamo: cantilenanti sinth analogici e pianoforte a strutturare ogni canzone in larghi crescendo ipnotici, l’acustica dalle radici folk alternata con un’elettrica satura, la garbata voce alla Neil Young raddoppiata e triplicata dai cori, vaste aperture paesaggistiche e rallentamenti improvvisi, sofferta introspezione e desiderio di raccontare. Il tutto insieme alla consueta agrodolce, onirica e a tratti scabra commistione di suoni elettronici e tradizione cantautorale, che si diverte ad accumulare citazioni più o meno subliminali, dagli Electric Light Orchestra ai Radiohead, dai Kraftwerk ai Pink Floyd, passando per la tradizione della psichedelia americana.

 Difficile indicare un episodio più riuscito dell’altro, fra dieci pezzi che risentono senz’altro di una marcata ripetitività, ma che al contempo offrono un’idea di solida e suggestiva compattezza in grado di resistere al rischio della noia. Se dovessimo sceglierne un paio, indicheremmo forse la solenne dolcezza pianistica di “Somewhere There’s A Someone” e l’estenuata complessità atmosferica della citata “Last Problem Of The Alps”, mentre convince meno la interminabile suite “Gimme Click Gimme Grid”, che chiude l’album con una sferzata di ambizione decisamente fuori contesto.

 
In definitiva “Dept. Of Disappearence” è un disco valido ma privo di punti salienti, piacevole ed ispirato ma forse anche un po’ piatto, fedele testimone comunque del fatto che Jason Lytle non ha esaurito la sua spinta creativa.

Frattanto nel marzo del 2012 i Grandaddy sono pronti per la reunion. In principio non ci sono piani a lungo termine, nel programma rientra solo qualche data in California o in festival europei come End Of The Road e Rock En Seine. Anche se non sono calendarizzati nuovi lavori in studio, l'affinità tra i cinque musicisti può dirsi recuperata in un amen. Certo poi i tempi di dilatano. Deve passare un altro quadriennio per ritrovare la band di Modesto impegnata in un tour degno di questo nome, ma l'occasione è propizia per l'annuncio che i fan attendevano: ancora qualche mese e arriverà un album di inediti. Il 3 marzo del 2017 viene pubblicato Last Place e i Grandaddy tornano davvero a casa, finalmente e pienamente, senza bisogno di ricorrere a mascherate goliardiche (Arm Of Roger) o stravaganti combutte (Admiral Radley, con gli amici Earlimart), senza più le incertezze o le mezze misure dei ritorni imbastiti un po’ alla carlona, per mero tornaconto. Serviva il rientro di Jason Lytle a Modesto, avvenuto per ragioni pratiche dopo gli anni trascorsi nel Montana prima e nella piccola mecca di Portland poi, a chiusura tra l’altro di una tumultuosa relazione di coppia. A soffermarcisi, anche questa sua rentrée californiana assume gli estremi della questione sentimentale, non potrebbe essere altrimenti. “Last Place” come estremo rifugio, quindi, il “pretty great place to hide” di cui il Nostro canta oggi con rinfrancante candore. E “Last Place” come identikit che restituisca il proprio rustico volto, anche, tracciato sulla scorta delle impressioni offerte da testimoni non proprio imparziali, gli alleati e i cultori dei bei giorni che furono.

Il quinto Lp del gruppo statunitense esce per la 30th Century Records del compagno di merende Danger Mouse, a un lustro esatto dalla rifondazione e più di due dalla precedente fatica in studio, Just Like The Fambly Cat.
E’ francamente difficile commentare questo disco e pretendere di restare obiettivi, se con le magiche invenzioni dei californiani si è andati quasi immancabilmente a nozze. Occorre essere franchi e premettere che è di un superbo auto-revival che si tratta in fin dei conti, anche per sgombrare il campo dagli equivoci come dalle preventive note di demerito dei detrattori, i militanti della fazione “evolversi o morire (e non azzardarsi a rinascere)”. Mentre lo si rileva, va però anche sottolineato che non c’è ruffianeria in questa operazione, che gli artisti sono la musica che suonano, senza troppe complicazioni concettuali, e che Last Place sarà pure un album tutto rivolto al passato, ma nel suo orizzonte si può facilmente cogliere il rasserenante lustro dei lavori onesti. Pronti, via: “Way We Won’t” serve la prima madeleine di una ricca colazione, sulla tavola imbandita il comfort della stessa atmosfera malinconica della band di Sumday, di cui par quasi di ascoltare un remake dell’opener “Now It’s On”. Per restare al medesimo riferimento, il singolo “Evermore” ha dalla sua una meravigliosa inflessione plumbea, da pastelli sporcati di grigio, che si rivela forse meno plateale del consueto formulario ma riesce accattivante come le pagine più meste e infettive di quel gioiello ancora tutto da riscoprire. “Oh She Deleter :(” funziona invece come semplice intro strumentale – memore di quelle crepuscolari di The Software Slump – per una “The Boat Is In The Barn” in cui il cantato e le peculiarità espressive di Lytle si stagliano sul fondale sonoro con particolare nitidezza, elevando il tasso di tipicità nell’ennesima ballad dolceamara della casa (compreso l’affaccio estatico, notevolissimo, che patisce forse solo la riproposizione di un cliché di cui il gruppo ha spesso abusato), mentre “Jed The 4th” è una citazione persino ovvia dell’adorabile umanoide che abitava quegli stessi solchi, con meno spregiudicatezza elettronica ma l’esatta malia acquerellata di allora.

Così a grandi linee l’atteso disco del ritorno prende a corrispondere a quelle che erano le attese, specie per via del suo bravo connubio di garbugli rumorosi e dolcezze melodiche (secondo l’inconfondibile disegno delle tastiere di Tim Dryden). Il riff della chitarra di Jim Fairchild in “Brush With The Wild” ha l’aspetto di una rutilante sirena, mentre la voce di Jason è la solita carezzevole compagna di tanti pomeriggi uggiosi. E se gli elevati coefficienti di riconoscibilità giocano un ruolo non certo secondario in fatto di lusinghe fidelizzanti, il quintetto compensa quella sensazione di pilota automatico innestato con una tenuta fisica all’altezza. All’appello non manca per fortuna nemmeno l’incarnazione più pestona e debosciata (“Chek Injin”) in genere riservata alle uscite più eccentriche tipo Excerpts From The Diary Of Todd Zilla o alle animazioni collaterali di cui si è detto, pillole di sbraco fisiologico da due minuti e via piazzate apposta per allietare gli aficionados della vena più rude e naif.

Nella seconda facciata l'album alza la posta con una certa audacia. L’impennata si innesca con “I Don’t Wanna Live Here Anymore” che è, né più né meno, proprio la canzone struggente che Jason non smetterà mai di (ri)scrivere, per fortuna. Così anche il congedo umile e bellissimo di “Songbird Son”, schiumetta electro inclusa, un promemoria di suggestioni di cui evidentemente si avvertiva il bisogno. Il tiro è quello idilliaco ma a suo modo epico dei più riusciti passaggi di ieri, compresi i lavori solisti, e in un certo senso non fa che confortarci nella consapevolezza che quel che più si lascia amare, nei Grandaddy, mai sfumerà o verrà tradito. Un discorso che vale pure, a maggior ragione, per lo spleen obliquo e marginale di quell’altra gemma che è “That’s What You Get For Gettin’ Outta Bed”: intonazione calda ma confidenziale, le svisate un po’ tristi dell’organo e proprio la fragilità che serve, non un'oncia in più o in meno. Tutto già sentito, ancora una volta, eppure esattamente come ci immaginiamo che debba essere il più gratificante, languido e pacificato dei ritorni a casa. E se questa colonna sonora si sbilanciasse nella promessa di un ideale brano-manifesto, è in “A Lost Machine” che lo si dovrà cercare, nel loop incantevole e disincantato a un tempo, nella soffice trance dream-pop o nell’ininterrotto singalong in cui si risolve. Macchine perdute e ritrovate all’improvviso, sogni dimenticati che riaffiorano nella memoria come i ritornelli ai quali sia stato affidato ben più di un pugno di minuti della nostra attenzione. Last Place è come commuoversi mentre si rivive l’estasi di un fausto rapimento.

Il tour di presentazione del disco, con le prime due date italiane da tanti anni a questa parte, è in programma per la tarda primavera del 2017. A una manciata di giorni dal via, però, il primo maggio un infarto colpisce il bassista Kevin Garcia che muore il giorno seguente, a quarantuno anni appena. Il colpo è troppo duro per rispettare gli impegni come nulla fosse e tutti i concerti in calendario vengono annullati. Inevitabilmente il futuro dei Grandaddy torna a farsi incerto.

Nel 2024 esce Blu Wav,primo album senza Kevin Garcia dopo sette anni di silenzio. Difficile capire se il ritorno sia quello della band o se siamo di fronte ad un lavoro progettato solamente dal leader Jason Lytle.
Blu Wav vorrebbe giocare su una commistione tra i generi bluegrass e new wave ma il risultato sembra più vicino ad una raccolta di brani di matrice folk eseguiti, in gran parte, con cullanti tempi in tre quarti.
Su questi morbidi e rarefatti “country suonati nel deserto” giganteggia la pedal steel guitar di Max Hart (The War On Drugs e Melissa Etheridge) che colora di tinte malinconiche la quasi totalità di  “Blu Wav” .Oltre alla chitarra quasi sempre acustica, il resto del lavoro è affidato ai synth pronti a riempire ogni frequenza e a disegnare traiettorie celesti per alzare lo sguardo dal mare di malessere con cui il buon Jason usualmente condisce nelle sue creazioni.
I rapporti finiti male, con il loro carico di rimpianto e nostalgia, sono quasi sempre al centro della narrazione. Se la separazione familiare del leader dei nonni abbia avuto una certa rilevanza, è un dubbio abbastanza consistente.
I tormenti amorosi non lasciano vie di fuga, mordono la quotidianità negli uffici di “Watercooler” con tanto di pianti nei bagni, irrompono con i ricordi di un viaggio sull’autobus di "On a Train or Bus" o sbeffeggiano con un’app maligna che fa risuonare solo le canzoni più amate dagli ex in "Jukebox App" o tormentano la coscienza con la consapevolezza di non essere stato la persona giusta in  “Long As I’m Not The One”. Solo quando i synth aprono squarci di immensità in uno dei picchi dell’album “You're Going to Be Fine and I'm Going to Hell” si ha una reale sensazione di sollievo.
L’isolamento sembra essere l’unica cura. E poco cambia che sia un luogo della mente come nel country introspettivo di “Cabin In My Mind” o in mezzo alla natura selvaggia di un parco naturale in “East Yosemite” dove tra i solenni accordi di pianoforte  e le saettanti note di stell giutar riappare il ragazzo che dormiva profondamente sotto il salice piangente  per svegliarsi di nuovo felice.
Rimangono solo a margine i temi storici della produzione della band come la fatica di adeguarsi alla mondo digitalizzato presente soltanto nei versi dell’opening track ”Blu Wav” (“Open your eyes and your laptop/ To the sunrise”) o come la nostalgia bucolica presente tra i toni  Belle and Sebastian di “Ducky, Boris and Dart”.
Certamente Blu Wav non è in grado di gareggiare con la migliore produzione della band di Modesto (Under The Western Freeway o The Software Slump), ma si rivela un album gradevole formato da un’insolita raccolta di brani trattenuti al piccolo trotto, con una prima parte anche troppo omogenea, e una seconda più viscerale sicuramente più intensa. C’è una voglia di distacco dalla produzione precedente, d’altronde che senso avrebbe una band di cinquantenni che rincorre se stessa con la tastierina e la chitarra distorta per rendere evidente la loro fatica di vivere, la loro inadeguatezza nella contemporaneità?
Blu Wav non si sa come intenderlo; essendo più simile alla produzione solista di Jason Lytle, potrebbe rappresentare la chiusura definitiva della carriera della band oppure è una fotografia di un momento di transizione della vita del leader (dei Grandaddy?) in attesa - come recita l’intro - di un “new day” l’apertura di un nuovo capitolo. Ma potrebbe essere anche sufficiente pensare che c’è ancora qualcuno rimasto in campagna a bere birra e suonare la chitarra contando le stelle.

Contributi di Matteo Lavagna ("Sumday"), Nicola Minucci ("Excerpts Fom The Diary Of Todd Zilla"), Stefano Ferreri ("Last Place"), Paolo Agnoletto ("Yours Truly, The Commuter"), Andrea Cornale ("Dept. of Disappearance"), Lorenzo Montefreddo ("Blu Wav")

Grandaddy - Jason Lytle

Discografia

GRANDADDY
Complex Party Come Along Theories (1994)

6

Machines Are Not She (Ep, 1995)

6,5

A Pretty Mess By This One Band (Ep, Will, 1996)

6,5

The Broken Down Comforter Collection (1/2, 1996)

6,5

Under The Western Freeway (Will, 1997)

7

Signal To Snow Ratio (Ep, V2, 1999)

6

The Sophtware Slump (V2, 2001)

7,5

Sumday (V2, 2003)

5

Excerpts From The Diary Of Todd Zilla (Ep, V2, 2005)

6

Just Like The Fambly Cat (V2, 2006)

6,5

Last Place(30th Century Records, 2017)

7,5

Blu Wav(Dangerbird, 2024)

7

JASON LYTLE
Yours Truly, The Commuter (Anti-, 2009)6,5
Dept. Of Disappearance (Anti-, 2012)6,5
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