Vita a 33 giri

Pierpaolo De Iulis

Produttore discografico, editore, documentarista, cantante, dj, organizzatore di eventi, sociologo, agitatore: a cinquant’anni suonati, Pierpaolo De Iulis è ancora un vulcano in piena eruzione, uno tsunami di idee e progetti che travolge tutto ciò che incontra. Figura di culto nella controcultura punkeggiante italiana, ha sfogato la sua incontenibile verve dando vita a etichette (la holding Rave Up, con le succursali Records, Books e Multimedia dedicate rispettivamente a musica, libri e cinema), festival (il romano Road To Ruins), documentari ("Crollo Nervoso" il più apprezzato), libri ("Vesuvio Pop", tra gli altri), band (Ufo Diktatorz, Transex, Gli Illuminati) e prendendo parte ad autentiche epopee underground (una su tutte, la colonna romana di Luther Blissett), con un’ostinazione che gli ha permesso di trasformare le sue mille passioni in altrettante professioni. Parlantina sciolta ma concetti chiari, ci ha concesso questa chiacchierata per districarci nella sua movimentata carriera di destabilizzatore situazionista…

Quando ti sei avvicinato alla musica, e com'è nato in particolare questo interesse per generi come punk e new wave?
Appartengo a un percorso generazionale prossimo all'esplosione del punk. Nel ’77 ero piccolissimo ma percepivo già questa atmosfera che veniva fuori da rotocalchi come Odeon e L'Altra Domenica, o da giornalini come Il Monello e L'Intrepido. Il punk permeava ogni cosa e io ne ero molto incuriosito, essendo appassionato di musica sin da giovanissimo: già a 7-8 anni ero maniacalmente attratto da Rolling StonesAc/Dc e tutto quel magma indefinito che identificavo come "rock", poi arrivarono i Kraftwerk e infine il punk, che mi colpì per il suo approccio forte e sincretico. Quando senti di odiare i tuoi genitori e metti in moto un rapporto tra te e una determinata visione del mondo, individui in quell'universo di capelli dritti, vomito, odio e anarchia una ragion d'essere. Così sono diventato un punk e ho iniziato a battere i negozi di dischi di Ascoli Piceno, mia città natale (anche la mia, ndr), per cercare quella roba là: Sex Pistols, Ramones, Devo, Talking Heads, in modo ancora confuso, portandomi appunti che prendevo su riviste musicali o da servizi televisivi. Già a 12/13 anni avevo una mia identità abbastanza netta, con capelli e vestiti influenzati dallo stile che andava in quel periodo. Di dischi ne avevo già parecchi, alcuni da collezione, e facevo molti scambi con altri appassionati. Tutto nacque in quegli anni lì, diciamo dal 1978 fino al 1982.

Come e quando è nata la Rave Up?
In tutti gli anni della mia formazione musicale (specie dopo essermi trasferito a Roma per l'università) ho sempre organizzato concerti, vivendo di musica, ma l'idea di creare un'etichetta è arrivata molto dopo: prima a metà anni 90 fondando la Reverendo Moon, con cui ho pubblicato qualche compilation di beat e garage minore e alcune incisioni inedite dal primissimo punk italiano (Dirty Actions, Gags), poi qualche anno dopo con la Rave Up, con cui ho iniziato un sistematico lavoro di ricerca sul punk americano, che preferisco rispetto a quello inglese perché lo ritengo più connesso con un'istintualità rock’n’roll diretta, vivace e autentica. Ho intrapreso un lavoro di collaborazione con collezionisti e appassionati che mi ha permesso di stampare i primi dischi del catalogo: Testors, Features, Reactors e diversi altri gruppi minori di quella stagione che mi interessava esplorare, avviando un discorso seriale che prosegue ancora adesso, a distanza di quasi 25 anni.

C'è una ristampa di cui sei particolarmente orgoglioso? Ad esempio, aver pubblicato una band mitologica come i Testors deve essere stata una bella soddisfazione…
Ce ne sono diverse. Alcuni di questi gruppi sono stati stampati solo da me e solo a distanza di anni ripresi da altre etichette: oltre ai Testors, penso ad esempio ai Dogs, una band proto-punk dell'Iowa che adoro, dei rednecks molto crudi ispirati da Stooges e MC5, oppure i Go, formazione power pop newyorkese, e tanti altri frutto del mio amore per quel periodo. Ci sono alcune cose molto particolari come gli Shady Lady, un gruppo del '75 con un impatto piuttosto estremo a livello di look, da far invidia ai New York Dolls, molto sfortunati e con poca voce in capitolo nella discografia ufficiale ma riscoperti ex-post dai collezionisti. Uno degli ultimi sono stati i Punks, scoperti da me e poi recuperati da altri, un gruppo di giovani rivoluzionari bianchi legato a doppio filo con il White Panther Party di John Sinclair. Di recente la serie "Vinyl" di Scorsese e Jagger, dedicata al punk americano di quegli anni, li ha riportati in auge, e i produttori mi hanno contattato per avere i diritti di un loro brano interpretato in una sequenza dal figlio di Jagger. Inizialmente non mi ero reso conto che parlassimo dello stesso gruppo, ma appena l'ho capito li ho messi in contatto direttamente con la band, che è stata addirittura chiamata a suonare a un party di presentazione della serie! Piccole soddisfazioni. Ancora: i Rubinoos, un gruppo di pop-punk californiano degli anni 80 sempre ristampato da me, che ha vinto una causa di plagio contro Avril Lavigne, guadagnando qualche soldino…

Hai sempre ristampato solo ed esclusivamente su vinile, ben prima della furibonda "riscossa analogica" che negli ultimi tempi sta tenendo banco. Cosa ne pensi della nuova giovinezza di questo supporto? Credi che ci siano motivazioni più profonde della mera speculazione?
Il discorso è questo: il Capitale tende a mettersi in un angolo da solo, nel senso che molto spesso il commercio crea le premesse per il suo fallimento. Il passaggio dell'industria discografica dall'analogico al digitale ha generato la riproducibilità 1:1 degli album: il vinile poteva essere riversato su cassetta che però rimaneva un sottoprodotto, sia a livello di qualità acustica che di formato non poteva raccontare la stessa storia di un Lp, con il suo suono caldo e la sua copertina di grande impatto. Il cd, invece, una volta duplicato e con una fotocopia a colori della copertina, è identico all'originale, e arrivare addirittura a sovrapprezzarlo rispetto al vinile è stato un autogol clamoroso per l'industria discografica. Arrivati al download dei file si è perso definitivamente tutto: la gente si è abituata a scaricare e a non pagare più nulla, e il mercato è colato a picco. Nel corso degli anni è stata inevitabile la riscoperta del formato primigenio, più performativo a livello audio e più decorativo come oggetto, con un suo mercato che bene o male tiene. Ben venga quindi questo ritorno: io ho sempre privilegiato il vinile (anche quando faccio dj-set) perché considero il digitale un supporto inadatto a quello che voglio raccontare, e i veri appassionati hanno sempre scelto l'analogico.

Inoltre, ti sei (quasi) sempre dedicato a band del passato...
Stesso discorso: se vuoi guadagnare qualcosa con questo mestiere, devi puntare a roba che abbia un mercato stabile. Promuovere nuove band richiederebbe un enorme sforzo in più e risultati molto più incerti, mentre un gruppo che ha già una storia e un pubblico di riferimento lo piazzi facilmente e ovunque: vuoi che non trovi abbastanza appassionati tra Europa, Stati Uniti e Giappone che siano interessati anche al più oscuro gruppo proto-punk? Ciò non toglie che, occasionalmente, con la Rave Up mi sia occupato anche di contemporanei, vedi le band romane Holiday Inn e The Hand. In generale, comunque, non mi coinvolge molto la musica attuale, tende a rispecchiare il nostro presente così addomesticato dal punto di vista dei linguaggi, della tensione giovanile e della ribellione sociale.

Parliamo di una delle due filiali della Rave Up, quella cinematografica…
Essendo una persona curiosa, oltre all'aspetto prettamente musicale mi interessano anche altre forme di narrazione, e la possibilità di raccontare alcuni stili a livello documentaristico (non parlerei di cinema perché più che un autore sono appunto un documentarista, quindi un raccoglitore di interviste e materiali d'archivio) mi ha subito intrigato. Ho realizzato sei film, alcuni come regista, altri come semplice narratore, dedicati ai generi più disparati ma tutti centrati sull'Italia: il prog ("Mellotron"), il punk ("Mamma Dammi La Benza"), la new wave ("Crollo Nervoso"), l'italo-disco ("The Sound Of Spaghetti Dance"), le messe beat ("Che Il Mio Grido Giunga A Te") e addirittura la nuova canzone neomelodica napoletana ("Vesuvio Pop", accoppiato con un libro omonimo). Sono tutti fenomeni di rilevanza sociale, generazionale e resistenziale, in cui c'è una corrispondenza tra l'ascolto e una percezione diffusa che va oltre il dato musicale per diventare una rappresentazione del proprio sé e del suo rapporto con gli altri, una sorta di Io collettivo. Mi interessa molto questo aspetto (non a caso sono laureato in sociologia, oltre che in storia) e avrei voluto raccontare molte altre vicende simili, come ad esempio quella del metal italiano, ma purtroppo mancano i soldi: in alcuni momenti ho trovato interlocutori interessati a sponsorizzare iniziative di questo genere, in altri l'industria dell'intrattenimento televisivo non è stata ricettiva. In mancanza di fondi, la soluzione è cercare partner privati o istituzionali, ma è diventato difficile perché i tempi di erogazione sono molto lunghi e questo rende tutto più complesso. Mi piacerebbe continuare, ma il settore video presenta delle difficoltà esecutive ed economiche non indifferenti.

Se sei d'accordo, mi concentrerei un attimo sulle tre ore di "Crollo Nervoso", il tuo documentario più strutturato e, in qualche maniera, "epico"…
Il tutto nacque dal mio intervento come consulente e narratore su "Mamma Dammi La Benza", diretto dal regista emiliano Angelo Rastelli. Da lì mi venne l'idea di realizzare un mio documentario sulla new wave italiana, un momento molto importante per la storia del paese e molto intenso per me, che l'ho vissuto in prima persona. All'epoca avevo 16/17 anni ed ero ogni giorno preso dal testimoniare in diretta questa cosa nuova, mandando lettere, distribuendo demotape, andando ai concerti, organizzando eventi… Era una rete pre-internet molto forte, adesso è tutto molto più facile mentre all'epoca era una carboneria di piccoli gruppi affini come sensibilità, soprattutto in provincia: per dirti, ad Ascoli bisognava contattare la persona più carismatica a San Benedetto o a Teramo e incontrarsi per organizzare queste feste bellissime, in cui nascevano empatie, collaborazioni, progetti, fanzine, amori… Volevo raccontare questa epopea così ricca ed emozionante, e credo che nel documentario emerga: in tre ore per tre capitoli ("Onde Emiliane", "Firenze Sogna" e "Italia Wiva") ho documentato praticamente tutte le scene e intervistato tutti i protagonisti più importanti. Avrei voluto raccontare molto di più ma i limiti produttivi mi hanno imposto di non travalicare il minutaggio. Credo rimanga un ottimo prodotto, indipendentemente dal fatto che l'abbia realizzato io…

Beh, direi proprio di sì. E quanto all'altro ramo, quello editoriale?
Finora ho fatto uscire tre libri, "Noi Conquisteremo La Luna" (antologia di articoli giovanili del mio amico Federico Guglielmi sulla new wave italiana), "Lo Stivale E' Marcio" (saggio di Claudio Pescetelli sulle origini del punk in Italia) e "Il Luther Blissett Project a Roma 1995-1999" (sulla storia dell'omonimo movimento). Adesso sto lavorando a un altro progetto sugli anni 90 romani, una parentesi significativa che ha mosso molte intellettualità tra critica controculturale, nuovi media, hacking, performance, body art, sessualità alternativa e molto altro: un resoconto documentato di cosa è stata quella stagione, la cui ricchezza all'epoca mi sfuggì ma che ho riscoperto a distanza di anni, specie paragonata con la penuria degli ultimi tempi. Si chiamerà "Detonazione" e uscirà a Pasqua.

Tornando al cinema, un'altra grande avventura in cui ti sei imbarcato è stata (uso il passato perché, da quanto ho capito, non avrà seguito) il bellissimo festival romano Road To Ruins…
Inizialmente nacque come festival musicale dedicato al punk americano. Mi sono tolto molti sfizi, tipo portare a Roma gruppi mitizzati come Crime, Avengers, Adolescents, Angry Samoans, Zeroes, Dictators e tantissimi altri, e il tutto grazie alla possibilità di avere sponsor importanti: avendo lavorato in pubblicità, avevo capito come vendere un progetto apparentemente senza speranza proponendolo come un evento rilevante. Le spese sono sempre state coperte a monte dagli sponsor, e l'incasso dei biglietti rimaneva a me come retribuzione. E' stato divertente vedere dal vivo e conoscere personalmente queste band che amo, spesso poco prima che i gruppi si sciogliessero o i singoli membri morissero… Dopo quindici stagioni solo musicali, si passò a una concezione che univa musica e cinema, allestendo le serate in sale cinematografiche e proiettando documentari o film musicali. E' stato un buon successo, ma nel corso del tempo gli sponsor hanno iniziato a defilarsi e il mio potere contrattuale è venuto meno. Inoltre non ero più da solo, mano a mano che il festival si era ingrandito avevo integrato altre persone nello staff con cui si sono creati dei dissapori che hanno finito col minare il prosieguo dell'avventura.

Dei tanti personaggi strampalati o estremi che hai conosciuto, ce n'è qualcuno che ricordi con particolare affetto?
Moltissimi. Penso ad esempio a Sky Saxon dei Seeds, una delle più importanti band garage degli anni 60, un personaggio assurdo con cui tra l'altro suonai insieme al mio gruppo Gli Illuminati. Ma potrei citarti anche Johnny Strike dei Crime, "Handsome Dick" Manitoba dei Dictators o Cheetah Chrome dei Dead Boys, quest'ultimo un personaggio davvero eccezionale con cui sono rimasto in ottimi rapporti. Erano persone che portavano con loro delle esperienze forti e autentiche, belle da ascoltare. Uno dei motivi per cui ho organizzato eventi è sempre stato l'entrare in contatto con i racconti di queste figure. Da appassionato non si può chiedere di meglio.

Hai citato Gli Illuminati, forse il più significativo tra i tuoi gruppi musicali. Parliamo di questa idea, secondo me geniale, di rileggere le messe beat in chiave punk…
La folgorazione ci fu a 16 anni, quando frequentavo l'istituto d'arte di Ascoli, in cui insegnava un professore di fotografia ex-sessantottino, Gegè Polloni, che aveva suonato in un gruppo beat chiamato Gli Amici. Mi disse che avevano inciso un disco e io, che già all'epoca cercavo testimonianze del passato musicale della mia città, gli chiesi di farmelo avere. Mi portò una cassetta contenente tre brani, due messe piuttosto noiose e una canzone garage a tutti gli effetti, "Chinati Ai Tuoi Piedi", veloce e con un bell'assolo di chitarra. Mi fece impazzire e iniziai a subissarlo di domande, ma lui era reticente a parlarne, quasi se ne vergognasse, mentre io esaltavo quell'aspetto di rottura all'interno delle chiese dell'epoca, che offrivano spazi di ricreazione sociale per i giovani, il tutto nell'ottica di apertura del Concilio Vaticano II. Mi appassionai molto a quel fenomeno (scoprii più tardi che Gli Amici furono autori della prima messa beat in assoluto, nel lontano 1965!) e nei mercatini comprai tantissimi dischi che ho ancora, alcuni anche psichedelici o hard-rock, perché la musica cattolica si mise a sezionare e assimilare qualsiasi genere musicale. C’è questa vicenda dietro Gli Illuminati, fondati insieme a un mio carissimo amico, Tiziano Tarli, anche lui ascolano e appassionato di beat. Fu molto divertente perché confondevamo le persone, non capivano se il progetto fosse serio o faceto… Abbiamo fatto molti concerti e due Lp, "Prendi La Chitarra e Prega" e "Lumen Gentium", il primo più sul beat con canzoni di autori di quegli anni come Marcello Giombini, il secondo più psichedelico con brani nostri. Due bei dischi, devo dire, musicalmente parlando.

Assolutamente, e dal vivo eravate devastanti! Nel tuo percorso la musica e la politica tendono a intrecciarsi spesso: in che modo si sono compenetrate e arricchite a vicenda?
Quello che faccio ha sempre avuto un'accezione popolare: il prezzo dei miei dischi è sempre bassissimo, alcuni costano 7/8 euro, mi accontento di un minimo ricarico, ed è uno dei vantaggi che mi permettono di vendere dischi molto facilmente, riuscendo a smaltire in un attimo tirature considerevoli. E' un discorso ideologico, distribuire il più possibile una conoscenza che non deve rimanere una testimonianza per pochi o un appannaggio per iniziati, va data a tutti e basta. Lo penso sinceramente e continuo a farlo.

Essere un provinciale di nascita ti ha influenzato in qualche modo?
Guarda, io penso che i provinciali siano la vera forza delle metropoli: vivendo a Roma, ho verificato che le persone più attive nell'organizzare cose vengono sempre da fuori, e credo valga lo stesso anche da voi a Bologna (annuisco). C'è questa carica che vuole trascendere la noia della provincia e ha un senso maggiore del dover dare, testimoniarsi, spaccare, arrivare verso qualcosa, dove non si sa ma non ha importanza. Le maggiori energie a Roma le ho sempre trovate in studenti calabresi, abruzzesi, marchigiani o di altri luoghi. Penso sia un elemento connotante di tutti quanti i ragazzi che scappano dalle province, dove sentono l'aria mancare e fuori dalle quali trovano un spazio del possibile per dare il meglio di sé.

Quanto e come è cambiata la scena romana rispetto a quando hai iniziato?
Credo di aver dato un contributo molto forte alla scena. I Taxi, un gruppo di ragazzi giovanissimi poi diventati Giuda, facevano molto riferimento a me: li colsi in una fase in cui suonavano dell'ottimo punk ma, se non avessero incontrato una persona che avesse dato loro la possibilità di esibirsi e di incidere, forse si sarebbero sciolti, e lo stesso vale per molti altri gruppi. Penso che il mio eclettismo e la mia solidarietà abbiano trasmesso molto a tanti. Mi sembra che adesso questa cosa sia stata raccolta, Roma è piena di locali e di situazioni musicali positive, da cose più orientate al rock'n'roll fino all'electro-punk e alla synth-wave, un campionario molto piacevole e indirizzato a vivere la musica in modo diretto ed essenziale, come deve essere. Non credo nei grandi numeri, tanto di cappello per chi riesce a ottenerli ma per me uscire la sera e trovarmi in una situazione gratificante è sufficiente, vuol dire che c'è qualcosa che funziona. Un concerto da ventimila persone lo trovo annullante, mentre la carica di un gruppo autorevole e vitale è qualcosa che ti ricompensa di essere al mondo. A Roma questa energia c'è.

Visto che lo hai citato poco fa, due parole sul Luther Blissett romano, di cui sei stato un attivo animatore…
E' stata una sorta di germinazione spontanea di soggetti innamorati di alcuni argomenti. Io venivo da letture "ereticali": iniziai con il comunismo consiliarista di autori come Karl Korsch, Anton Pannekoek o Max Hoelz, gruppi spontanei e movimentisti, critici verso lo stesso leninismo. Attraverso loro sono approdato al situazionismo, che era un po' figlio di questo tipo di pensiero. Arrivato a Roma conobbi un simpatico maitre à penser di una libreria anarchica, Carlo, con cui approfondii i vari Vaneigem, Debord, Max Capa etc. Lì costruii un primo gruppettino di appassionati negli anni in cui a Roma montava la Pantera, un movimento universitario di cui non mi interessava nulla ma che incentivò una riscoperta diffusa delle teorie situazioniste (in quel periodo Rai Tre ritrasmise tutti i film di Debord) e mi permise di conoscere diversi mattacchioni, con cui costituii una lettura trasversale e metropolitana di questi autori. Eravamo pochi e molto lontani dal cliché dell'autonomo, poco "fisici", molto "intellettuali". Il Luther Blissett romano nacque come luogo destabilizzante che promuoveva iniziative provocatorie a tutto campo, come gli attacchi psichici e altre manifestazioni simboliche. Le adesioni furono molte: se Bologna a livello di scrittura fu una postazione più avanzata da cui prendemmo molto, Roma fu il secondo centro, con casi mediatici che scatenarono un certo furor a livello di immaginario, citati addirittura da "Chi L'Ha Visto?"… Era divertente, soprattutto stronzate come le feste dentro agli autobus notturni… Alcune cose serie e altre meno, tutte raccolte nel volume che ho stampato nel 2015, che troverà il suo seguito naturale in "Detonazione". Anni fa organizzammo anche una serata-tributo a quell'esperienza (a quest'ultima partecipai anche io, ndr).

Ti definiresti ancora un punk?
Assolutamente sì. E' un'attitudine: non accettare la norma, evitare di essere marginalizzati dal pensiero conforme, rifiutare le forme definitorie, scompaginare tutto e sempre. E’ come il dada e le avanguardie storiche del 900: beve non beve, dà non dà, asserisce non asserisce, si contraddice da solo. E' sottrazione e tensione costante: avanguardia, appunto. Sfido me stesso ogni giorno, non accetterò mai di sedermi canuto dietro una scrivania. L'uso di droghe, il rifiuto del lavoro, la ricerca di un'alterità di vita, il non accettare mai una forma stantia di necessità o convenzione, il rigetto per qualsiasi ruolo, che sia subordinato o dominante: tutto questo può voler dire essere punk. Tutto per me deve essere non dato, e questo vale anche nei rapporti personali o amorosi: se mancano la passione o l'eccitamento, tutto deve finire, perché la ricerca è sempre quella del piacere e dell'Assoluto. Non può esistere una norma: che tutto cada, che tutto finisca, che tutto si rimargini, che tutto riprenda. Essere insoddisfatti, questo è punk.

Discografia

Pietra miliare
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