Sono passati più di quattro anni da quando abbiamo incontrato per la prima volta Adele Altro. Erano i tempi del suo fulminante esordio “Silently. Quietly. Going Away”: da quell’indie-rock così nineties, la musicista veronese ha preso strade inaspettate, incorporando mille nuove influenze. Ne abbiamo parlato - scritto, anzi - in una lunga chiacchierata in occasione dell’uscita dell’ottimo Ep “Four Covers”. Che, come sempre nel caso di Any Other, non è solo una semplice raccolta di canzoni, ma un’intera idea di mondo.
Ciao Adele! Riprendiamo il filo di un discorso che - qui su OndaRock - avevamo iniziato con un’intervista ai tempi del primo disco a nome Any Other. Ora è passato un po’ di tempo anche da “Two, Geography” e quindi si può guardare a entrambi i lavori a mente fredda: ho sempre trovato che esprimessero necessità molto differenti - un salto, non solo un’evoluzione. Cosa c’è stato in mezzo?
Ciao OndaRock! Guarda, sto riflettendo proprio in questi giorni su come sia avvenuto quel cambiamento, quel salto. Anche se penso che alla fine la mia personalità emerga in entrambi, sono decisamente due lavori molto lontani – come intenzioni, come estetica, come tematiche trattate. Non ricordo come ne parlassi quando "Two Geography" era uscito, quindi magari adesso dico cose completamente diverse, ma a guardarlo con una distanza di due anni (o più, se contiamo il tempo di gestazione) mi rendo conto che la presa di coscienza è arrivata a lavoro finito. Per quanto cerebrale fosse, per quanto mi sia messa attivamente a cercare nuovi input o ispirazioni, e per quanto avessi voglia di "cambiare aria", è stato solo alla fine che mi sono detta: guarda dove sei arrivata. Quindi per rispondere alla domanda, credo che nel mezzo ci sia stata la necessità di seguire l'istinto.
C’è stato anche un cambiamento nei tuoi ascolti? Le istanze sonore indie-rock di “Silently. Quietly. Going Away” sono proprio esplose nel secondo album. C’era molto di più, lì dentro, oltre alle “comets, stars and moons” dei Built To Spill, per dire un nome che si cita sempre - il jazz, Feist, Nina Nastasia, Jeff Mangum, Jim O'Rourke i primi che mi vengono in mente.
Decisamente, sì. Oltre all'approcciarmi a nuovi generi musicali che non avevo mai esplorato prima dei 21 anni – banalmente jazz, minimalismo o ambient – è cambiato proprio il modo di ascoltare la musica. Ho iniziato a prestare attenzione a come i dischi che mi piacevano venivano arrangiati, orchestrati, prodotti. Come venivano mixati. Uno strumento molto utile che mi ha aperto prospettive nuove è il podcast Song Exploder di Hrishikesh Hirway – ogni puntata ospita un*artista [l'asterisco è voluto!] che analizza una propria canzone, spiegando com'è stata affrontata la produzione, o la scrittura, e così via. Molto bello.
La prima volta che ti ho vista sul palco eri al Todays 2018, suonavi nella band di Colapesce ed era qualche settimana prima di “Two, Geography”. Come ricordi quei concerti? Era un gran live e sembravi davvero divertirti.
Il tour di “Infedele” è stato veramente divertente. Ho imparato un sacco di cose, ho suonato un sacco di cose e ho fatto esperienze in una dimensione in cui non avevo mai fatto capolino prima. Suonare per altre persone ti toglie anche un sacco di pressione emotiva, quindi sì, sicuramente devi fare un buon lavoro, ma lo fai senza ansie e ti puoi divertire un sacco.
L’esperienza del live ha un valore di condivisione molto importante per te, o almeno questa è stata la mia impressione in tutte le occasioni in cui ho avuto la fortuna di vederti. L’interplay emotivo con gli altri musicisti è veramente qualcosa.
È molto importante, sì. Nel bene e nel male sono una persona che mette in ballo tante cose, e chiaramente questa cosa nella musica si riversa parecchio. Dal vivo con me c'è sempre stato Marco Giudici, mio fratello non di sangue ma di cuore. Ormai condividiamo così tanto da anni, che suonare insieme è come parlare, per noi. Raccontarci i cazzi nostri. Immagino che effettivamente questa cosa possa arrivare a essere visibile anche da fuori.
E poi condivisione con il pubblico. Ricordo una volta all’Ostello Bello, parlavi dell’ammettere a se stessi di stare male. Insomma: è difficile vedere da un palco qualcuno che parli così apertamente di sofferenza psicologica; anche rincuorante, visto che sono cose da cui passiamo tutti ogni giorno e magari le nascondiamo sotto a un tappeto - ma intanto loro scavano.
Anche questa è una cosa a cui penso spesso ultimamente, alla differenza che c'è tra persona artistica e persona umana. Per quanto sia fondamentale non farsi assorbire dalla propria persona artistica (del resto, è pur sempre un lavoro), credo che ammettere di essere persone con le proprie debolezze sia molto utile. Parlare di salute mentale è una questione sociale, c'è molto stigma intorno all'argomento e spesso non si sa come stare vicini a chi non sta bene. Allora mi dico, se come artista e persona riesco a usare il mio spazio per parlare anche di questo, e magari far sentire qualcuno meno solo, perché non farlo?
Mi domandavo anche come fosse suonare “Mother Goose” tutte le sere, in effetti.
Ah, eh. Sai, dipende molto dal contesto, da come sta andando un concerto, dallo stato emotivo con cui arrivo a performare, da come sta andando la mia vita in generale in quel periodo... A volte è un'esperienza fortissima, ma a volte è anche un'azione molto meccanica. Si tratta sempre di una performance: per quanto sicuramente sia un momento crudo e vivo, è anche un'azione che è stata ripetuta più e più volte, un gesto studiato, praticato, spettacolarizzato. È un gesto vero, ma non è reale. Insomma, se suonare certi pezzi significasse rivivere ogni volta lo stato d'animo che provavo quando li ho scritti, probabilmente non suonerei più gran parte della mia discografia.
Ovviamente non è il momento migliore per discutere di musica dal vivo - c’era un tuo giro di concerti in programma, questa primavera. Parliamo allora di “Four Covers”: da dove arriva la scelta dei brani? È stato pensato come una dedica, leggevo.
Sono tutti brani di artisti che mi piacciono. Ne avevo altri in canna ("These Days" di Nico, che ogni tanto ho suonato anche dal vivo, oppure "Heaps Of Sheeps" di Robert Wyatt, per dire), ma poi ho fatto una selezione e questi erano quelli con cui mi sentivo più connessa. Per quanto riguarda la dedica, sì. Sono pezzi che parlano a un altro più che di un altro, quindi nel suonarli e nell'affrontarli in studio c'è stata questa prospettiva. Ci ho messo molto amore, nel farli. Spero che questa cosa emerga all'ascolto.
Apri con la rilettura del tema di “Eternal Sunshine Of The Spotless Mind”: a pensarci ora Gondry e i suoi effetti speciali analogici ricordano il modo in cui tu sembri anche giocare mentre fai musica. Certo che quel film è proprio speciale, e pure la colonna sonora.
Sì, la colonna sonora è di Jon Brion, che personalmente adoro – sia come compositore, che come produttore. Ha anche fatto un disco solista che si chiama "Meaningless" (io lo ascolto su YouTube perché non lo trovo da nessun'altra parte), molto bello. Ha anche delle idee sulla composizione e sulla produzione che condivido molto, è una grande fonte di ispirazione.
Poi c’è “Cocoon”, fisica quanto l’originale di Bjork.
Amo amo amo Björk. È pazzesca qualsiasi cosa faccia, che sia la produttrice, l'attrice o la performer.
La mia preferita è “White Ferrari”: primo, perché mi ha ricordato il modo in cui Mark Linkous disturbava i brani di “Good Morning Spider”; secondo, perché rende chiaro quanto la scrittura di Frank Ocean sia imprendibile: sembra un brano instabile, fatto di niente, eppure torna tutto. Non mi sarei mai aspettato di sentirla in una veste simile, e invece l’hai fatta davvero tua.
Leggevo un commento di Frank Ocean su "White Ferrari", e diceva che in studio aveva fatto un sacco di versioni e che non gliene tornava mai nessuna. Ho avuto un'esperienza analoga: è un pezzo incredibile, pazzesco nella scrittura, ma veramente difficile da approcciare dal punto di vista della produzione e dell'arrangiamento. Ci sono molte sezioni diverse, non ha una struttura ripetitiva, è più un discorso con la sua progressione – e rendere le varie parti che lo compongono coerenti dal punto di vista estetico e della produzione non è facile.
L’Ep è uscito il 5 giugno, e quel giorno tutto il ricavato delle vendite è andato a Emergency Release Fund. Mi racconti di questa scelta?
È il pride month, il mese dedicato alla comunità LGBTQ+. L'Emergency Release Fund si occupa di raccogliere fondi per pagare le cauzioni di persone transgender in attesa/nell'eventualità di un processo, spesso detenute insieme a persone che non corrispondono al proprio genere (per fare un esempio, è probabile che una donna trans venga detenuta non insieme a altre donne, ma insieme agli uomini). La detenzione è molto più pericolosa per chi è trans, rispetto a chi è cis. Visto quello che sta succedendo negli Usa, visto che gli attivisti e le attiviste LGBTQ+ sono sempre state in prima linea nella maggior parte delle lotte politiche, e visto che rischiano molto in questi giorni – ancor di più se non sono bianche – mi sembrava utile fornire il mio supporto in questo senso.
Ecco: nella recensione dicevo che la tua musica è un invito ad agire e a prendersi cura del mondo intorno. Dalle cose che fai emerge una visione chiarissima: ricordo questo dibattito a Cremona - “Che genere di talento?”, si chiamava - e c’eravate tu, Laura Agnusdei e Rita Lilith Oberti dei Not Moving. Dalle tue parole veniva fuori un fastidio proattivo: c’era rabbia verso il patriarcato, ma pure l’obiettivo evidente di non farsi definire e limitare da esso. Fare la tua cosa, no matter what.
Sì, direi che è così. È un discorso difficile: da una parte la tua identità viene influenzata dal mondo di cui sei parte – con tutte le limitazioni del caso se non sei un uomo bianco, cis, etero – ma dall'altra non vuoi passare la tua esistenza artistica e personale a farti definire da quello che ti limita dal punto di vista sociale.
Ripensando a quei discorsi, mi è venuto in mente un articolo che qualche mese fa Brit Marling ha scritto per il New York Times - “I don’t want to be the strong female lead” - e parlava di come nel cinema contemporaneo si siano moltiplicati i personaggi femminili forti, che però sono modellati su rappresentazioni di rapporti di potere classicamente maschili, soggioganti. La stessa reazione a uno schema binario, no?
Decisamente sì. C'è una forte tendenza alla castrazione di tutto quello che non rientra nel binarismo uomo-donna bianco e capitalista. Guarda, io stessa non mi definisco né donna, né ragazza. Non mi identifico con il femminile, non sono una ragazza, eppure tutti mi dicono donna di qua, donna nella musica di là, e io ne parlo perché mi rendo conto che condivido parte della mia esperienza con le donne. Ma io sono non binaria, uso il femminile solo perché questa lingua mi obbliga a scegliere, ma è molto diverso. La mia etichetta lo sa, il mio management lo sa, i miei amici lo sanno. Non ho nemmeno mai nascosto di essere queer. Eppure se hai le tette sei una donna. Eh no, non è esattamente così. Io ho le mestruazioni ma mi sento qualcosa di diverso da una donna o da un uomo.
Cosa possiamo aspettarci dalla prossima metà di 2020, da Any Other?
È difficile rispondere, perché si possono fare progetti, ma purtroppo non dipende strettamente da noi se i nostri progetti possono avviarsi oppure no. Come tutti, sto ricaricando le pile, e cerco di essere pragmatica giorno per giorno. Per ora mi sa che è così.
Grazie per il tempo che hai dedicato a queste domande (per fortuna che era solo un Ep e non un album intero!)
Grazie a te! Mi ha fatto piacere fare questa chiacchierata.
(12/06/2020)
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Her Era: la slackerwritress italiana di Enrico Viarengo Immaginati di incontrare un amico che non vedevi da tanto tempo e che ti chieda che musica fai. Che pezzo gli suoni?
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