In viaggio per il mondo
di Giuliano Delli Paoli
Li avevamo raggiunti diversi anni fa e li ritroviamo in occasione dell'uscita del loro nono album, "The Thread That Keeps Us", un lavoro che in parte mescola le carte ma che conserva il loro spirito gipsy e gitano con un approccio romanzato e una discreta indigazione nei confronti del mondo e delle sue consuete problematiche. A risponderci è il cantante e chitarrista Joey Burns, che ci svela i segreti di questa ultima opera e del loro amore infinito per la dimensione live.
Il 26 gennaio 2018 sarà pubblicato "The Thread That Keeps Us". Cosa dobbiamo aspettarci da questo nuovo disco? Avete qualche stuzzicante segreto da svelarci in merito?
John e io recentemente abbiamo parlato a lungo di andare in Europa e registrare qualcosa anche lì. Noi ci identifichiamo molto con l'estetica europea, in particolare apprezziamo la cultura e la celebrazione della diversità del linguaggio e delle arti in generale. Tuttavia, dopo le ultime elezioni presidenziali americane, John e io volevamo concentrare maggiormente la nostra attenzione sul Nord America ed esaminare alcuni dei temi che ci hanno colto di sorpresa. Sembra esserci stato un notevole passo indietro dopo il successo e l'approccio aperto dell'amministrazione Obama. Alcune divergenze politiche, che si tratti di cambiamenti climatici, trattamento verso le minoranze e gli immigrati, o uguaglianza dei redditi, rappresentano in realtà grandi temi che continuano a stupirci e che hanno influenzato molto il nuovo album. Abbiamo fatto una discreta quantità di registrazioni nella Contea di Marin e mentre eravamo lì ho iniziato a sviluppare personaggi e una storia che si intrecciava attraverso i vari testi. Il segreto è amore e speranza di fronte all'avidità, alla corruzione, e tocca a due personaggi adolescenti aiutare a salvare la loro città dall'essere sovrastata dallo sviluppo e dalla rovina dell'ambiente. Concentrandomi su questi personaggi, sono riuscito ad affrontare tutte le grandi preoccupazioni quotidiane e seguire il loro percorso che è parallelo al nostro.
Ho sempre quantificato la vostra meravigliosa musica come un crossover di sensazioni polverose e parimenti intense, qualcosa di caldo e “secco” allo stesso tempo. Come nacque l'idea di fondere l'anima "polverosa" della California, i rimandi acustici a Morricone e al vecchio Far West, all’immaginario e alla musica decisamente più "piccante" e "caliente" del Messico?
Siamo ciò che ascoltiamo e nella nostra band ci sono un sacco di influenze musicali che in qualche modo sono in contrasto tra loro e stranamente anche complementari. Non ci penso molto e cerco di pianificare come o perché questi elementi si incontrano. Suppongo che rifletta in qualche modo chi siamo, dove viviamo e il mondo dei suoni che amiamo. Cerchiamo costantemente nuovi stili e strumenti musicali o viaggiamo in tutto il mondo incontrando nuovi musicisti. Siamo fortunati in quanto l'impulso fisico aiuta a spingere la scrittura creativa e la musica che infine produciamo. Le collaborazioni avvengono più spesso di quanto possiamo immaginare, sia sul palco che in studio. La tecnologia ha reso relativamente facile rimanere in contatto o raggiungere altri musicisti. Amo la musica, la cultura e la storia delle Americhe e tutto questo mi ha ispirato a trovare diverse connessioni musicali. Mi avvicino sempre con il massimo rispetto e voglio combinare sia la fragilità delle tradizioni, sia lo spirito sperimentale dell'avventura in una vena contemporanea. Voglio reinventare e dare un nuovo significato ad alcune di queste voci e storie. Proprio come lo scrittore Cormac McCarthy, mi piace usare la mia casa nel deserto di Sonora come sfondo simbolico per i temi più profondi e oscuri dell'uomo e della natura. Sono cresciuto vivendo sulla costa del Pacifico e sono ossessionato dal richiamo delle onde dell'oceano. Nel silenzio e nella quiete delle notti del deserto, mi trascina e mi allontana dal sonno e mi porta a “camminare” tra la coscienza e il mondo dei sogni. I fantasmi che attanagliano i vicoli e i vari arroyo non conoscono confini o differenze di lingua, sono tutti unificati dalla loro passione eterna che li ha resi dei drifter per tutta la vita.
Nel primo singolo di lancio, "End Of The World Winth You", si avverte una profonda riflessione circa il caos che avvolge il mondo contemporaneo. Quali sono le problematiche planetarie che oggi vi sconvolgono maggiormente?
Sono sicuro che in qualche modo non sono diverse da quelle vissute da chi è cresciuto negli anni '70. Ogni generazione ha la propria crisi da affrontare e a cui reagire. Oggi queste crisi sembrano solo più intense e le oscillazioni con cui si verificano più estreme. Come potremmo mai trovare l'amore, la luce e il tempo giusto vivendo sotto queste pressioni? Il più grande incubo per me è la capacità di dubitare anche della scienza di base e del buon senso. Rivendicare la devozione del proprio cuore e chiudere un occhio sulle tante ideologie misogine, razziste ed egoiste è sempre più difficile. L'ambiente sta cambiando rapidamente. Ad esempio un mio volo aereo da Tucson a San Francisco fu cancellato a metà giugno. Dovevo lavorare al nuovo album ma c’era un caldo record. Mi chiedo: quando la gente dirà che tutto è davvero abbastanza e quante altre persone devono morire per la circolazione delle armi negli Stati Uniti prima che vengano applicate leggi e controlli di base? È pazzesco tutto questo e continua a esserlo sempre più.
Sono passati 21 anni dal vostro album d'esordio. Quanto siete cambiati da allora e cosa conservate con maggior cura del vostro primo passato?
Non avrei mai immaginato che la band continuasse a essere ancora così forte. Sapevamo che volevamo sempre lavorare insieme ed essere coinvolti con la musica e le varie collaborazioni. Abbiamo provato a lavorare con musicisti e addetti ai lavori che fanno questo lavoro per i motivi per noi più giusti e con la massima passione. Questo tipo di percorso è rimasto sempre inalterato, coerente a una linea di lavoro che presenta alti e pochi bassi. Siamo incredibilmente fortunati e ci sentiamo sempre molto fortunati ad essere ancora in grado di suonare musica per il pubblico di tutto il mondo. È un grande dono. Questo è il motivo per cui adoro fare tour e collaborare, ed è una delle ragioni per cu siamo ancora così uniti. Vogliamo condividere e vogliamo imparare. Queste qualità sono gli aspetti più importanti di ciò che facciamo e di ciò che siamo.
"The Black Light" è un album assolutamente magnifico. Uno di quei capolavori indiscussi degli Anni Novanta. Sul nostro sito abbiamo deciso di glorificarlo con una speciale recensione pochi mesi fa, premiandolo come pietra miliare del rock. Quanto siete legati a quel disco e quanto ha influenzato il vostro successivo cammino? Inoltre: c'è un momento della vostra carriera, oppure un album in particolare, che considerate come spartiacque?
Grazie per le parole gentili. Mi piace molto l'album "The Black Light" e ho riversato molto tempo e amore per creare quell'album. Cattura un momento davvero magico nella mia vita, quando ero pronto per un cambiamento e volevo allontanarmi da Tucson. Quindi sono molto riconoscente che le persone abbiano risposto in lungo e in largo a quell'album. Ho un'idea di tornare in studio con gli stessi strumenti usati all’epoca, per riprendere quella stessa alchimia e scoprire dove ci conduce oggi. Un altro album fondamentale che abbiamo realizzato è stato "Feast of Wire" del 2003. Ricordo di aver consegnato l'album alla casa discografica e qualcuno mi ha detto "non ci sono singoli radiofonici". Sorrisi e annuii con la testa. "Abbiamo bisogno di loro?", ho chiesto, "o abbiamo bisogno di un album con materiale molto forte che ti porti attraverso arrangiamenti e momenti inaspettati nel cuore della buona musica?". Alcune storie e canzoni di quell'album sono tra le mie preferite della nostra produzione, e mi diverto ancora a suonarlo dal vivo durante le nostre tournee. Ogni album, incluso l'ultimo, ci porta da qualche parte in cui non siamo mai stati. Inseguiamo sempre una scoperta e una scintilla è ciò che illumina la nostra strada.
Recentemente, siete passati da una musica più cinematografica e prettamente strumentale a una struttura più "lineare" e "pop" con ottimi risultati, e senza accantonare la vostra anima di fondo. Quando avete deciso di dare ancora più peso alle parole oltre alla parte strumentale?
Sì, così come cambia la marea, muta anche la nostra musica e la nostra scrittura. Diversificare le parole è un processo naturale, perché esse sono cruciali per quello che vogliamo e ci sentiamo in dovere di dire. Abbiamo anche avuto la fortuna di continuare a scrivere e registrare strumenti per colonne sonore per film o documentari. Quindi, se sei interessato, dai un'occhiata a questi film e documentari (in cui abbiamo collaborato per le musiche) per saperne di più sul filo strumentale che amiamo intrecciare:
Circo (Aaron Schock, 2010)
The Guard (John Michael McDonagh, 2011)
The Lure ( Agnieszka Smoczyńska, 2015)
The Guardians (Sarik Andreasyan, 2017)
Nel nuovo album ci sono tre tracce strumentali o sequenze che si collegano a queste nostre esperienze. Enjoy!
In "Edge Of The Sun" avete esplorato i generi più tradizionali e suonati della musica statunitense. Avete allestito un tributo alle musiche del centro e Sud America (soprattutto messicana e caraibica). Come nascono i vostri "omaggi"? C'è un percorso precostituito, qualcosa di profondo, insomma un messaggio di fondo che genera tutto questo? Oppure è soltanto un approccio del tutto naturale e istintivo?
È tutto istintivo. Anni fa ho visto un film intitolato "Latcho Drom (safe journey)" di Tony Gatliff. Lui seguì i musicisti zingari dall'estremo oriente attraverso il Medio Oriente , l'Europa e finì in Spagna con il Flamenco. Per quanto mi riguarda, sto seguendo quella vena blu che avvolge tutto il mondo e sono particolarmente incuriosito dal mix di musica indigena, afro ed europea che si trova nelle Americhe. Jazz, folk e rock degli anni '70 sono stati uno sbocco incredibile per riunire le persone. Sento che siamo su una barca musicale simile.
A marzo del 2018 suonerete anche in Italia. Che legame avete con il nostro paese? Cosa vi piace di più della nostra terra e della nostra tradizione musicale?
La connessione più forte che abbiamo con l'Italia è l'amore per il blues e le canzoni italiane ti strappano il cuore, ed espongono con pienezza la catastrofe della vita. Gli antenati di John vengono da Bari. Ogni volta che torniamo sembra esserci un momento durante lo spettacolo in cui il pubblico applaude John come per dire a lui e alla sua famiglia "Bentornato a casa". Lo sentiamo per davvero ogni volta che facciamo un tour in Italia. Siamo sempre alla ricerca della profondità dell'espressione umana e della sua infinita connessione. Perché altrimenti dovremmo decidere di continuare a girare il mondo con poco, senza mai dormire ed esibendoci sul palco per 90 minuti a sera? Amiamo il nostro lavoro e siamo orgogliosi del nostro mestiere di artigiani. È tutto cuore.
Come state organizzando il prossimo tour? Cosa dobbiamo aspettarci?
Il nostro gruppo per il tour è composto da sette persone sul palco. Abbiamo la tromba e molti altri strumenti, e le persone amano molto tutta questa strumentazione, ma in realtà per me è la batteria di John che affascina e muove gli spettacoli notte dopo notte. Suoneremo canzoni nuove e vecchie e anche alcune cover decisamente uniche. Certamente spero di sorprendere piacevolmente il pubblico italiano e portarlo con noi mentre ci spostiamo lungo il perimetro del caos e della bellezza, della dissonanza e della dolce melodia, della malinconia e della pura gioia. Con i cuori aperti e le braccia aperte ci immergeremo in tutto ciò che è l'Italia. Come una delle ultime righe dell'ultima canzone dell'album "Music Box", abbiamo bisogno di te "ora più che mai, prima che la musica sia finita".
(12/01/2018)
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Il post-rock della Frontiera di Magda Di Genova Se proprio vogliamo pensare a quali possono essere state le vostre influenze, i due nomi che vengono subito in mente sono Ennio Morricone e Lee Hazlewood. Quanto, in realtà, la loro musica vi influenza? I primi nomi che vengono in mente a me sono: Bob Dylan, Miles Davis, Erik Satie, Sufjan Stevens, Taraf de Haidouks, Tom Waits, Eric Dolphy, Link Wray, Serge Gainsbourg, Amalia Rodrigues, Mano Negra, The Pogues, Gotan Project, Latin Playboys, Neil Young, Pavement, Yo La Tengo. Le persone che menzioni sono fantastiche, ma non sono le uniche quando si tratta di influenze. Toglimi una curiosità, trovi che Ennio Morricone abbia qualcosa a che vedere con il rock? Sì, fino a un certo punto. L'inventiva del Maestro è spesso impareggiabile. Riesce a suonare sia elettronico che rock. È avventuroso e definisce con estrema chiarezza descrizioni e generalizzazioni. A ogni modo, la vostra musica riflette le atmosfere e i sentimenti della musica messicana su una struttura folk-rock più vicina a modelli statunitensi. Cosa rappresenta per voi la tradizione messicana e quanto è importante per la vostra ricerca musicale? Sì, ma non tutta la nostra musica rappresenta i sentimenti che dici. Ci sono altri elementi che hai scartato facilmente: le parti di batteria di John Convertino, che sono così sciolte e creative e di come usa le spazzole, che evocano lo spirito jazz di Elvin Jones, Philly Joe Jones, Max Roach, Art Blakey. Poi c'è la versatilità del trombettista e del polistrumentista Martin Wenk di Berlino e Jacob Valenzuela di Tucson. Loro riescono a cambiare stile senza alcuna fatica, facendo assoli di corno à-la "Sketches of Spain" di Miles Davis o al pop anni 60 quando presentiamo la cover "Alone Again Or" dei Love. Da Nashville c'è Paul Niehaus che suona la chitarra pedal steel e che attinge alla tradizione e vi si riallaccia, la migliora con accorgimenti e ce la restituisce attraverso un senso più contemporaneo di spazio e colore, non diversamente da gruppi elettronici come gli Oval e i Tortoise. Volker Zander, da Monaco, che suona il pianoforte verticale e il basso, è appassionato di soul anni 60, r'n'b e indie-rock e ha un orecchio molto allenato ai campionamenti e a come certi suoni possono essere trattati. Lui è il nostro trampolino principale per lo smembramento del suono e disseppellisce componenti avant-garde per le nostre improvvisazioni durante i concerti dal vivo. È questo quello che mi viene in mente quando penso a come suona il gruppo. E si tratta solo della punta dell'iceberg. Quando avete cominciato la vostra era una musica principalmente strumentale dai richiami cinematografici e, col tempo, vi siete spostati verso una forma canzone più cantautorale. Com'è avvenuta questa migrazione? Abbiamo sempre lavorato spostandoci in ogni direzione: indietro, avanti, di lato, in circolo, verso l'alto e verso il basso. Abbiamo cominciato a scrivere canzoni e brani strumentali allo stesso tempo. Dopo "The Black Light" la vostra musica ha seguito un percorso più elettrico, a volte addirittura lambendo la musica classica o jazz. Cosa possiamo aspettarci dal vostro ultimo disco? Saperlo non servirebbe a nulla. Staremo a vedere. Joey, hai un'educazione musicale prettamente classica. Come ti aiuta a fare musica rock? Ho cominciato a suonare garage-rock, ma sono cresciuto ascoltando la musica che si faceva a casa: il piano in salotto, chitarre, bassi. Mi sono avvicinato alla batteria, ma ero più orientato verso il basso. L'impostazione classica ha i suoi pregi, ma l'originalità deriva dall'andare contro le regole e la tradizione e questo era quello che volevo. Immagino che l'educazione e, soprattutto, l'esperienza siano come la prospettiva che hai quando guardi nello specchietto retrovisore. Le vostre collaborazioni sono davvero tantissime (Neko Case, Barbara Manning, Richard Buckner, Victoria Williams, Michael Hurley, Bill Janovitz, Vic Chesnutt, Lisa Germano, Françoiz Brut, Evan Dando). Come arrivate a voler collaborare con qualcuno e come scegliete questo qualcuno? Perché avete bisogno di così tante collaborazioni? Ascoltiamo... Avete recentemente collaborato anche con Iron & Wine. Ti va di parlarmene? Siete completamente soddisfatti del risultato? È troppo presto per parlare di un eventuale seguito? È stata una delle nostre collaborazioni migliori. Non vediamo l'ora di andare in tournée con loro, insieme a Salvador Duran nei mesi di aprile e maggio. Sicuramente ci divertiremo tantissimo. I concerti che abbiamo tenuto insieme negli Stati Uniti sono stati i nostri concerti migliori. C'è qualcosa di veramente speciale che sia il pubblico che i musicisti riescono a percepire, è difficile da individuare con precisione, ma lo spirito c'è ed è forte. Ci sarà un video-clip a supportare l'uscita del disco? Sì, si tratterà di "Cruel". Siamo stati aiutati dalle persone talentuose del sito www.loyalkasper.com che hanno realizzato per noi questo bellissimo video cupo. Ci sono strani oggetti che si animano, si rompono e girano da tutti gli angoli dello schermo. L'abbiamo filmato al Gowanus Industrial Park, un vecchio - e intendo veramente vecchio - granaio a Brooklyn, NY. Si dice in giro che anche Martin Scorsese abbia girato lì alcune scene. Joey, non posso che ringraziarti... Grazie a te. Ci rivediamo in primavera. |
Spoke (Quarterstick, 1997) | 6 | |
The Black Light (Quarterstick, 1998) | 9 | |
Hot Rail (Quarterstick, 2000) | 7 | |
Travelall (Our Soil, Our Strength, 2000) | 6 | |
Aerocalexico (2001) | 6 | |
Scraping (Our Soil, Our Strength, 2002) | 6 | |
Feast Of Wire (Quarterstick, 2003) | 6,5 | |
In The Reins (with Iron & Wine, Touch & Go, 2005) | 5 | |
Garden Ruin (Touch & Go, 2006) | 5 | |
Carried To Dust (Quarterstick, 2008) | 5 | |
Algiers (City Slang, 2012) | 6 | |
Edge Of The Sun (Anti Records, 2015) | 7 | |
The Thread That Keeps Us (Anti Records, 2018) | 6 | |
Years To Burn (with Iron & Wine, City Slang, 2019) | 6 | |
Seasonal Shift (City Slang, 2020) | 6 | |
El Mirador(City Slang, 2022) | 6,5 |
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