04/07/2023

Bob Dylan

Teatro degli Arcimboldi, Milano


Cantami, o Diva, il segreto della vecchia, strana America. Canta il fato degli eroi e quello delle creature della foresta. Canta il tempo che scorre come un fiume, verso casa.
Scende il crepuscolo sul Giorno dell’Indipendenza, e l’Americano Errante invoca ancora una volta la sua Musa: “Sing your hearts out, all your women of the chorus”, proclama con la sua voce antica sulle note di “Mother Of Muses”. L’aria di Milano, carica della premonizione di un temporale estivo, sembra fargli eco con una vibrazione sospesa.
Non c’è data più propizia del 4 luglio, per riaprire le pagine del Grande Romanzo Americano di Bob Dylan. Sul palco del Teatro degli Arcimboldi, il sipario rosso che domina la scena potrebbe essere quello della Loggia Nera lynchiana, e Mr. Zimmerman uno dei suoi abitatori. Seduto al pianoforte nella penombra, sembra cercare tra i tasti una chiave nascosta, mentre il resto del gruppo si stringe intorno a lui. Gli strumenti trovano l’accordo, il primo capitolo del catalogo blues della serata può prendere forma: è “Watching The River Flow”, un ruvido sorriso che guarda il mondo scivolare via con la corrente, quasi alla maniera di Eraclito.

 

Lo si capisce subito: Dylan è tornato in stato di grazia. A tutti è capitato di soccombere alla noia, in qualcuna delle sue ultime tornate di concerti. Ma stavolta le cose sono diverse, come mostra subito l’andamento sinuoso di “Most Likely You Go Your Way (And I’ll Go Mine)” (da "Blonde On Blonde"): la voce è decisa e penetrante, la band lo asseconda con lo spirito di un ensemble jazzistico, mettendo in evidenza le chitarre di Bob Britt e Doug Lancio. Soprattutto, non c’è la schiavitù dell’effetto nostalgia: a tenere banco sono i brani dell’ultimo “Rough And Rowdy Ways”, eseguito praticamente per intero (con la sola eccezione di “Murder Most Foul”). E la scelta si rivela più che mai azzeccata, visto che si tratta della sua raccolta di canzoni più convincente dell’ultimo ventennio.
Non è un caso che già il primo verso di “I Contain Multitudes” strappi subito gli applausi del pubblico: le variazioni dylaniane sul tema di Whitman hanno una forza evocativa immediata. Tra i blues del lotto, la palma va (inaspettatamente) alla resa essenziale e avvolgente di “Crossing The Rubicon”, con il contrabbasso di Tony Garnier a fare da timone, seguita a ruota da una vigorosa “False Prophet”.
Rispetto alle versioni originali di “Rough And Rowdy Ways”, in realtà, solo “Key West (Philosopher Pirate)” fatica a trovare la direzione, perdendo la sua leggerezza melodica in una declinazione troppo monocorde. In compenso, “Black Rider” incanta la platea con un’inedita coloritura noir, che dà corpo alle visioni del brano vestendo di riverberi la voce di Dylan, fino a trascolorare nel Frankenstein apocrifo di “My Own Version Of You”. Buona parte del merito va alla batteria flessuosa di Jerry Pentecost, già in forza agli Old Crow Medicine Show, che rappresenta la novità più significativa della formazione rispetto ai precedenti passaggi milanesi.

Bob DylanLui, il grande vecchio, resta sempre dietro il pianoforte, alzandosi in piedi di tanto in tanto senza avventurarsi più al centro della scena. Eppure, a dispetto dell’avanzare dell’età, l’impressione è quella di trovarlo più vivace e partecipe (capace persino di un paio di ringraziamenti in italiano…). Contribuirà anche il fatto di avere ottenuto una serata rigorosamente phone free (cellulare insacchettato all’ingresso e dissigillato all’uscita)? Di certo, se il risultato è quello di recuperare l’attenzione per la musica, il sacrificio può essere un compromesso accettabile. Viene da pensare alla parole di Cristina Campo: l’attenzione, diceva, è il solo cammino verso l’inesprimibile, la sola strada al mistero...
Anche quando guarda al passato, Dylan la fa con gli occhi immersi nel presente: cinque delle escursioni della serata nel vecchio repertorio compaiono anche nel recentissimo “Shadow Kingdom” e vengono proposte con una rinnovata inventiva. Se “To Be Alone With You” sfoggia il suo nuovo, immaginifico testo a base di castelli e torri d’avorio, “I’ll Be Your Baby Tonight” si dilata pigramente, abbandonandosi a un riff più incalzante solo nell’intermezzo strumentale. Il meglio viene però da una “When I Paint My Masterpiece” lieve e festosa, che danza a braccetto con il violino di Donnie Herron: Dylan si concede qualche pennellata più distesa, giocando a prolungare le sillabe con un accento nostalgico (“Someday, everything’s gonna be so beauuuuuuuutiful…”).

Dal Vangelo secondo Dylan spunta il monito di “Gotta Serve Somebody”, che con i suoi tratti muscolari risulta forse l’episodio più affine allo stile ormai un po’ risaputo degli anni passati. Accanto allo slancio del predicatore, la romantica dolcezza della melodia di “I’ve Made Up My Mind To Give Myself To You” suona quasi come l’eco di un vecchio inno sacro, chiamato a rinfrancare la fede della congregazione (“If I had the wings of a snow-white dove/ I’d preach the gospel, the gospel of love”).
Dopo avere liquidato un po’ sbrigativamente la presentazione di rito del gruppo, c’è ancora spazio per ben due cover: una è ordinaria amministrazione (“That Old Black Magic”, standard brioso già esplorato in “Fallen Angels”), ma l’altra è affare da antologia. Dylan si misura con “Brokedown Palace” dei Grateful Dead (di cui sta saccheggiando a piene mani il canzoniere nell’ultimo tour), raccogliendo la standing ovation della sala. Nella sua voce, la malinconia agreste dell’originale sembra acquistare uno spessore metafisico, l’estremo sguardo al palazzo in rovina della vita terrena. E diventa così un’altra tappa della riflessione sulla vita e sulla morte che percorre in fondo tutto il concerto, fino ai versi finali di “Mother Of Muses” (“I’m travelin’ light and I’m slow coming home”), che suonano quasi come un omaggio all’ultimo Leonard Cohen.

Non ci sono bis, non ci sono facili concessioni alle aspettative. C’è però una delle meditazioni più intense di tutta la sua carriera: “Every Grain Of Sand”. Dylan la affronta con solennità, conducendola per mano sulle note del piano e suggellando il commiato con il soffio dell’armonica. I versi sono quelli della prima stesura del brano, non quelli della versione inclusa in “Shot Of Love”: “I’m hanging in the balance/ Of a perfect finished plan”, sussurra Dylan. È il distillato di tutto il viaggio: la fragilità dell’esistenza (“Just like every sparrow falling”, ammonisce citando Shakespeare e la Bibbia) e la sua misteriosa compiutezza.
Cadono le prime gocce di pioggia, fuori dal teatro, con la violenza di un sogno d’estate. Ogni goccia è contata, come ogni granello di sabbia.

Setlist

  1. Watching The River Flow
  2. Most Likely You Go Your Way (And I’ll Go Mine)
  3. I Contain Multitudes
  4. False Prophet
  5. When I Paint My Masterpiece
  6. Black Rider
  7. My Own Version Of You
  8. I’ll Be Your Baby Tonight
  9. Crossing The Rubicon
  10. To Be Alone With You
  11. Key West (Philosopher Pirate)
  12. Gotta Serve Somebody
  13. I’ve Made Up My Mind To Give Myself To You
  14. That Old Black Magic
  15. Brokedown Palace (Grateful Dead)
  16. Mother Of Muses
  17. Goodbye Jimmy Reed
  18. Every Grain Of Sand

Bob Dylan su Ondarock