12-07-2023

Depeche Mode

Stadio Olimpico, Roma


Ghosts again. Eccoli lì, come due spettri, due sopravvissuti, Dave Gahan e Martin Gore, a celebrare una liturgia funerea che si calerà ancora negli abissi della morte per esorcizzarli e rinascere a nuova vita. L’ennesima, in questa palingenesi continua, strenua, chiamata Depeche Mode, che, in barba al nome stesso, riesce sempre a resistere all’usura del tempo e anche a colpi letali, come quello riservato dal destino in quel maledetto 26 maggio del 2022 che si è portato via Andy Fletcher, per tutti "Fletch", il tastierista e fondatore, ma soprattutto il collante della band, il punto di equilibrio tra le visioni (e gli ego) spesso incompatibili dei due primattori. L’abbraccio dei cinquantamila dell’Olimpico li avvolge in un’altra notte torrida di luglio, come quella raccontata dieci anni fa. Era il Delta Machine Tour, un’altra messa laica, un’altra Black Celebration collettiva. Poi vi fu il ritorno con il Global Spirit, ultima occasione in Italia, cinque anni fa. Diciannove volte la loro music for the masses è stata portata in tour. Questa, però, è la prima senza Fletch, il cui spirito guida aleggerà sul palco per tutta la serata.

 

Viste alcune recenti performance, inclusa la non memorabile incursione sanremese, c’era qualche timore sulla tenuta vocale di Gahan, che invece si presenta in buona forma, con il suo baritono ammaliante a dar forma e nerbo ai brani, mitigandone qualche asperità con il mestiere acquisito nel tempo. È sempre lui l’animale da palcoscenico con la sua sfrontata esuberanza, anche se più che un rocker sembra un crooner da cabaret uscito da una puntata di “Babylon Berlin”, con i suoi occhi bistrati, il suo gilet e la sua giacca coi lustrini. Il suo repertorio di ancheggiamenti, pose plastiche e balletti è ormai consegnato al manuale del perfetto frontman e non manca anche stavolta di incendiare l’audience, specie quando si mette ad attraversare la passerella che fende la folla in due. Ai lati del palco due maxischermi, al centro una gigantesca M che si illumina (bianca, rossa, blu) a riprodurre l’iniziale delle due parole del titolo dell’ultimo album, “Memento Mori”, ovvero “Ricordati che devi morire”, intestazione sinistra scelta però ben prima che la morte di Andy la rendesse tragicamente beffarda. Del resto, l’ossessione per la morte è un leit-motiv dell’intero percorso dei Depeche Mode, un continuo susseguirsi di luci e ombre, decadenza e vitalità, baratro e redenzione. A evocarlo anche la fosca iconografia sul palco, fatta di macabri teschi, uomini neri incappucciati, croci di legno, corone mortuarie e ali d'angelo.
Ma “Memento Mori” è anche, paradossalmente, il loro più commovente inno alla vita: “No rain, no clouds/ no pain, no shrouds/ no final breaths/ no senseless deaths” (“Niente pioggia, niente nuvole/ niente dolore, niente sudari/ nessun ultimo respiro, nessuna morte insensata”), scandisce Dave tra le pulsazioni sintetiche di “My Cosmos Is Mine”, che apre il concerto in chiave atmosferica, seguita dall’ossessiva “Wagging Tongue”, scritta a quattro mani da Gahan e Gore, che ci riporta invece sulla direttrice Dusseldorf-Basildon rievocando i rintocchi metallici della kraftwerkiana “Computer World”. Saranno cinque i brani scelti dall’ultimo lavoro: nel corso del set ci sarà infatti spazio anche per la trascinante “Ghosts Again”, che col suo riff paraculo infiamma il pubblico rivelandosi una vera e propria “nuova hit” del loro repertorio, per la più evanescente “Soul With Me” (cantata da Gore) e per una angosciosa “Speak To Me”, con visual in cui croci di legno in stile Golgota accompagnano Gahan mentre guarda in cielo e prova a instaurare un dialogo (“Speak to me, I will follow/ I heard you call my name/ lying on the bathroom floor/… I’m listening, I hear you, your sound”).

 

Depeche Mode - Stadio Olimpico - Roma

 

Nel complesso, dall’esame live “Memento Mori” esce ulteriormente rafforzato: non sarà il loro album più fresco, ma di certo è il più convincente dal Duemila in poi, dopo quel “Playing The Angel” (2005) che deve godere di ottima considerazione anche da parte dei due titolari della ditta, se viene rappresentato sul palco con ben tre estratti: l’elettronica densa e cupa di “A Pain That I'm Used To”, i ritmi sferraglianti dell’inno "John The Revelator" e la sempre struggente “Precious”, con la malinconia del suo spettacolare refrain a dilaniarci ancora una volta. Una tripletta viene concessa anche a un altro cardine della loro discografia come “Songs Of Faith And Devotion” (1993), discusso all’epoca e invece straordinariamente lungimirante nel suo aggiornare il verbo elettronico dei basildoniani ai clangori rock del decennio 90: una vigorosa “I Feel You” tutta chitarre e drumming e le sfumature melodiche dei gioielli “In Your Room” e “Walking in My Shoes” esaltano il canto magnetico di Gahan, che domina il palco roteando l’asta del microfono e abbandonandosi alle sue danze sensuali. “Grazie davvero a tutti. Buona serata, Roma”, urla ai cinquantamila che lo invocano. Anche “Ultra” (1997) riceve il suo meritato riconoscimento, con la sinuosa “It’s No Good”, accompagnata da un video in chiave ecologista, e con la torbida "Sister Of Night" a rispolverarne i raffinati solchi.

 

Depeche Mode - Stadio Olimpico - Roma

 

Spuntano anche hit più recenti, come la blueseggiante “Wrong” (dall’invero debole “Sounds Of The Universe” del 2009), ma l’angolo del fan storico nostalgico non può restare scoperto. Così ecco la lacrimuccia in agguato sulle tastiere soavi di “Everything Counts” suonate in guanti bianchi a ridestare gli albori 80's di “Construction Time Again” (forse la chicca dell’intera serata). Poi c'è Martin, solita mente dietro le quinte - “glorious”, lo consacra l’amico-rivale Dave - pronto a prendersi la scena con immutabile timidezza, intonando una toccante “A Question Of Lust”, primo ripescaggio dall’epico “Black Celebration” (1986) dal quale riaffiorerà poi anche la magia di “Stripped”, con la sua tetra sensualità immersa in caligini industrial.
I due sembrano aver superato le tensioni e le incomprensioni di un tempo: si abbracciano, per l'ovazione dei fan, nella soffusa “Waiting For The Night” (“Violator”, 1990) e si divertono un mondo a inscenare l’ormai irrinunciabile pantomima della “Just Can’t Get Enough” extended che fa ballare tutto lo stadio.
Ma idealmente su quel palco c’è anche Andy, evocato dalla sua passione, gli scacchi, nella citazione d’autore del visual di “Ghosts Again” (riferimento a “Il settimo sigillo” di Ingmar Bergman in cui il protagonista sfidava la morte) e omaggiato con una bella immagine in bianco e nero a tutto schermo su “World In My Eyes”: “Fate un applauso per il signor Andy Fletcher, un nostro amico”, chiede Gahan al pubblico. Applaudono anche gli storici turnisti che li affiancano sul palco, Christian Eigner (batteria) e Peter Gordeno (sintetizzatori, basso, pianoforte).

 

Prima di congedarsi, i Depeche Mode (in arrivo anche il 14 luglio allo Stadio San Siro di Milano e il 16 al Dall’Ara di Bologna, prima della nuova tranche italiana del 2024) sfoderano una lussureggiante “Never Let Me Down Again” - unica rappresentante del disco storico più “sacrificato” della serata, “Music For The Masses” (1987) - e la classica doppietta da ko di “Violator”, con la melodia da schianto della sempiterna “Enjoy The Silence” (cantata in coro dal pubblico) e il battito martellante di una “Personal Jesus” che parte lenta, ricordando la celebre cover “intimista” di Johnny Cash, e poi divampa in tutta la sua carica adrenalinica, facendo detonare l’Olimpico per il più esaltante dei finali, dopo oltre due ore di show. Reach out and touch faith. La fede nei Depeche Mode. Più forte di tutto, anche della morte.