I presupposti per leggere nel quattordicesimo disco in studio dei Depeche Mode l'ennesima dimostrazione di forza da parte della Columbia/Sony c'erano tutti. L'annuncio del tour mondiale già a ottobre, in una conferenza stampa a Milano nella quale ben poco era lecito sapere sul materiale in arrivo, aveva tutta l'aria dell'operazione escogitata più per fare cassa che per presentare un eventuale nuovo corso del trio di Basildon. Se si aggiungono le prove non particolarmente intriganti degli ultimi due episodi "Sounds Of The Universe" e "Delta Machine", poteva essere facile associare l'evento al malcelato tentativo di nascondere la classica deriva che porta band di indiscusso valore a prediligere la calda sicurezza della celebrazione live alla volontà di onorare la carriera con adeguata urgenza artistica (sentiero già imboccato da tempo dai coetanei U2).
Rimaneva tuttavia interessante la scelta di sostituire il collaudato Ben Hillier con James Ford (produttore tra i più richiesti negli ultimi dieci anni, al lavoro con Arctic Monkeys, Florence & The Machine, The Last Shadow Puppets, Foals, Klaxons, Mumford & Sons) proprio perché in controtendenza rispetto alla possibilità che i Depeche avessero davvero cominciato a indugiare sugli allori.
Una prima vera indicazione in merito l'ha fornita il singolo "Where's The Revolution", il cui titolo già da solo sposta il baricentro di tutto l'immaginario lirico al quale la ditta Gore-Gahan-Fletcher ci ha abituato in tempi più o meno recenti. Se si esclude infatti il periodo 1983-84 (quello di "Construction Time Again" e "Some Great Reward"), non è immediato ritrovare l'impronta di contenuto sociale/politico nei testi della band, come se, nel successivo percorso verso quel suono scuro che tutti abbiamo imparato ad amare, le priorità comunicative si fossero orientate su altro (a prescindere dai problemi di dipendenze dei singoli membri). "Where's The Revolution" riparte dalla precisa sensazione di avere nuovamente il fiato dell'insofferenza sul collo, con l'aggravante di aver assistito nel frattempo al fallimento di tutti gli spendibili ideali di rivoluzione ("Who's making your decisions?/ You or your religion/ Your government, your countries/ You patriotic junkies"), e utilizza una semplice domanda per indagare che fine ha fatto la nostra capacità di reagire.
Non si tratta, però, di un episodio isolato. "Spirit" è un album concepito prima della Brexit e dell'elezione di Trump, ma riesce comunque a incarnarne perfettamente le tensioni e lo smarrimento (soprattutto quello di chi appartiene alla generazione dei DM, naturalmente più in grado di fare valutazioni comparative con il passato), incorniciati tra l'amara riflessione dell'opener "Going Backwards" ("We're going backwards/ Ignoring the realities/ Going backwards/ Are you counting all the casualties?") e la pesantissima arrendevolezza finale di "Fail" ("People, what are we thinking?/ It's shameful, our standards are sinking/ We're barely hanging on/ Our spirit has gone").
Sebbene il disco non ruoti soltanto intorno a questi temi, è innegabile vedere il loro impatto anche nella scelta delle timbriche, guidate da sintetizzatori sempre più in linea con il minimalismo kraut. Da questo punto di vista, già al primo ascolto appare evidente una ritrovata capacità di dare risalto alla scrittura come non accadeva dai tempi di "Playing The Angel", e qui è probabile che a far la differenza sia stato proprio James Ford, grazie alla perizia nel disegnare una linea più coerente tra le varie tracce (asciugate da ogni orpello inutile) e nello svincolare la band dalle pretese di chi ha eternamente bisogno della nuova "Enjoy The Silence" (a che pro, poi?).
Gahan rispolvera un'intera gamma di colori vocali, perfettamente a suo agio tanto nella dolcezza feroce di "The Worst Crime" quanto nelle cadenze easy di "So Much Love" e "No More (This Is The Last Time)", ma è con "Cover Me" che il disco raggiunge il suo zenit, perfetto corpus di intenti fra liriche che parlano dell'avere finalmente trovato un nuovo pianeta su cui vivere - purtroppo identico alla Terra - e la conseguente delusione dipinta dalla appassionata chiusura strumentale, vero momento in cui l'imperversare di synth puntiformi lascia spazio al viaggio emozionale.
Gore misura con efficacia sia i consueti innesti chitarristici sia il ruolo di interprete, rintracciabile nella già citata "Fail" e nel romantico (e un po' stucchevole) interludio di "Eternal", indice di quanto sia ora importante per lui l'aspetto familiare.
Disco sia di ripartenza che di continuità, "Spirit" spinge più sul realismo che sul pessimismo e mantiene intatte le coordinate DM dalla prima all'ultima nota, con buona pace di chi idealizza il ritorno romantico di Alan Wilder in veste di restauratore degli orizzonti di gloria. È un disco per comprendere che i Depeche possono attraversare con tranquillità il giro di boa ed entrare ufficialmente nel novero delle rockstar mature ancora in grado di sintonizzarsi con lo spirito dell'epoca attuale. Esattamente quanto di più lecito si possa attendere da artisti con una storia come la loro alle spalle.
17/03/2017