Poche cose sono più avversate dei Muse post-2003. Li abbiamo visti cambiare forma di anno in anno, li abbiamo denigrati mentre agguantavano elementi dance, dubstep, pop, synthwave, classici e sinfonici, masticandoli e risputandoli, con la consueta verve aleatoria, all’interno delle loro composizioni, senza il timore di tracimare oltre il limite del buon gusto. Perché del buon gusto, in fin dei conti, a Bellamy, Wolstenholme e Howard non è mai importato granché. E questo “Will Of The People Tour” non fa che dimostrare, ancora una volta, che il trio di Teignmouth, in questa narrazione sempre in bilico tra discutibili barocchismi kitsch e momenti altissimi, ci sguazza con serenità. E come dargli torto, in fondo, dal momento che poche altre rock band degli ultimi vent'anni sono in grado di dar vita a kolossal musicali ugualmente memorabili?
Ma partiamo dall’inizio. Il 18 luglio verrà, con ogni probabilità, ricordato come il giorno più caldo dell’anno nella Capitale. D’altro canto, i professionisti del settore ci avevano messo in guardia da giorni. Così, l’organizzazione del concerto decide di posticipare di quarantacinque minuti le esibizioni, ma non l’apertura dei cancelli, prevista alle 17. Sarebbe interessante comprendere la logica alla base di tale decisione, ma arrivando alle 19.30 - quando il termometro segna 33 gradi - si taglia la testa al toro. Alle 20.15 salgono sul palco, puntualissimi, i Royal Blood e infiammano il pubblico come non vedevo fare da parecchio a un gruppo d’apertura. Pur non essendo la mia tazza di tè, i due si destreggiano bene tra riferimenti - a onor del vero un po' didascalici - a Queens Of The Stone Age (d'altronde Josh Homme figura come produttore di "Boilermaker"), Led Zeppelin e White Stripes, anche se la componente blues di molti brani viene soffocata da quella hard rock.
I Muse si fanno invece attendere un po’, entrando in scena poco prima delle 22 con “Will Of The People”. Una gigantesca “W” infiammata campeggia alle spalle della band britannica, ma sarà solo il primo di una lunga serie di dettagli infuocati della serata, tant’è che a volte la sensazione è quella di trovarsi a un concerto dei Rammstein. La prima parte della scaletta scorre dunque tra scenografie incandescenti, riff granitici, vecchie glorie quali “Hysteria”, “Stockholme Syndrome” (in cui, purtroppo, il volume degli strumenti sopraffà quello della voce), “Resistance” e l’ormai immancabile “Psycho”. “Kill Or Be Killed”, rivisitata in chiave acustica, dà il tempo alla band e a noi di riprendere fiato, prima di gettarci nel funk di “Compliance” e nell’arena rock di “Thought Contagion”. Mentre sudo in mezzo alla folla, composita ed eterogenea, che balla, canta, poga, salta, intona cori da stadio, capisco che “Will Of The People” è un album di riposizionamento necessario per una band che da sempre vive di live. E se questi sono gli effetti sul pubblico, ben venga. Nel 2019, nonostante il clima più umano e un “Simulation Theory” fresco d’uscita, il parterre dell’Olimpico era nettamente più timido e svogliato.
“Verona”, romantico instant classic tratto da “Will Of The People”, viene dedicato a Lina, fan messicana del gruppo, scomparsa di recente. Qui Bellamy, tra vibrato e falsetti, dà il meglio di sé, mentre lo stadio Olimpico si illumina di tante piccole luci e sulle coppie dagli sguardi languidi piovono confetti colorati. A un momento così delicato non può che seguire un grande classico da urlare, che ci riporta al 2003, l’immancabile “Time Is Running Out”. È poi interessante osservare come uno dei brani migliori di “The 2nd Law”, “The 2nd Law: Isolated System”, sia stato rimaneggiato in un’ottica più attuale e femminista, o ancora constatare quanto fossimo nel torto, ai tempi, nel considerare “Madness” spazzatura commerciale.
Bellamy dipinge il momento più camp della serata suonando al pianoforte “Toccata e fuga in Re minore” di Bach prima di “You Make Me Feel Like It’s Halloween”. Sugli schermi i volti di Freddy Krueger, Chucky, Pinhead e altri protagonisti di cult horror. “We Are Fucking Fucked” e “Plug In Baby” (introdotta da un interludio chitarristico che ricorda i Pink Floyd e i Dream Theater di “Octavarium”) divengono esercizio catartico collettivo; d’altronde, a un passo dall’apocalisse cos’altro si dovrebbe fare se non cantare e ballare tra fiammate incandescenti, vegliati dall'icona del peccato di Doom?
La chiusura è affidata, come da tradizione, a “Man With A Harmonica” di Ennio Morricone in combinazione con la cavalcata spaghetti western “Knights Of Cydonia”, con tutte le sue meravigliose modulazioni e l’energia ferale che scatena dal vivo.
D'altronde, se i Muse fossero una nazione, “Knights Of Cydonia” sarebbe l’inno nazionale. “No one's gonna take me alive/ Time has come to make things right/ You and I must fight for our rights/ You and I must fight to survive”.
La rivoluzione popolare è servita.