Va prendendo piede a Roma negli ultimi tempi la formula del “Concerto Presto”. Vale a dire: iniziare a far suonare le band in orari decenti, a ridosso dell’ora di cena, invece che star lì ogni volta ad aspettare fino a mezzanotte. Che poi, a ben vedere, si tratta di un'attesa in molti casi snervante anche per gli stessi musicisti. L’idea del Monk (in prima linea in queste ultime settimane sul discorso del “Concerto Presto”, almeno per un certo numero di spettacoli) questa sera è ancora più intrigante: posizionare due eventi concedendo la possibilità di scegliere se assistere ad uno soltanto, oppure di acquistare un biglietto integrato – a prezzo conveniente - per vederli entrambi. A giudicare dalla risposta del pubblico, immagino che l’organizzazione del Monk sia incoraggiata a proseguire in questa direzione.
I cancelli aprono verso le 20 e, mentre Hannah Merrick e Craig Whittle (questi i nomi di battesimo dei due King Hannah) mangiano qualcosa nella tavernetta, scambiando due chiacchiere con i primi fan sopraggiunti, dopo venti minuti l’opening act è già iniziato, in perfetto orario. Sul palco c’è Joe Gideon, chitarrista e cantante inglese già leader della band alternative-rock Bikini Atoll, formazione che pubblicò due album per Bella Union a metà degli anni Zero, il secondo dei quali, “Liar’s Exit“, prodotto da Steve Albini, registrato nei suoi Studi di Chicago e masterizzato presso i londinesi Abbey Road. Materiale che sarebbe potuto esplodere, ed invece nel 2006 la band era già disintegrata.
Ma la stoffa c’è, anche se Gideon oggi è protagonista di un percorso solista ben più defilato, che lo scorso marzo ha visto la diffusione del terzo disco, “Altered Self”, prodotto da Jim Sclavunos, ex Sonic Youth e fido collaboratore di Jon Spencer. Decisamente influenzato dallo stile di Nick Cave, Gideon dal vivo è accompagnato dal polistrumentista John J Presley, il quale si muove fra synth, chitarre, basso ed effettistica varia, per fornire il necessario supporto alla voce e alla sei corde di Joe. Convincente mezzoretta per promuovere le proprie composizioni, slot chiuso da un improbabile assolo di flauto dolce. Segue il velocissimo cambio palco per dare spazio alla principale attrazione della serata.
I King Hannah da mesi sono in tour per promozionare il secondo album, “Big Swimmer”: si dimostrano così concentrati sulla faccenda da lasciare pochissimo spazio al resto del materiale finora inciso. Nella setlist di questo tour figura soltanto una traccia ("Go-Kart Kid") dal precedente “I’m Not Sorry, I Was Just Being Me”, acclamatissimo da critica e pubblico, uno dei migliori esordi degli ultimi anni, più “Crème Brulée” egregio ripescaggio dal primissimo Ep “Tell Me Your Mind And I’ll Tell You Mine”, più la cover di Bruce Springsteen “Space Trooper” ed il nuovo singolo natalizio, “Blue Christmas”, anche questo una cover. Tutto il resto è “Big Swimmer”, lavoro influenzato in maniera determinante dal suono “americano”, nel quale il duo di Liverpool si è immerso durante il suo primo tour negli Stati Uniti.
Canzoni che quasi sempre partono soffici, intime, ma durante lo svolgimento tendono ad incresparsi aprendosi verso deflagranti assoli di chitarra. La voce di Hannah resta sempre in equilibrio fra un declamato che ricorda i Dry Cleaning ed un cantato magnetico, sempre meno indirizzato verso PJ Harvey. Sneakers Adidas sotto un vestito rosso flamenco, in alcuni frangenti con a tracolla la seconda chitarra, la Merrick incanta il pubblico sia nei momenti più strutturati (l’iniziale “Somewhere Near El Paso”, “New York, Let’s Do Nothing”) sia in quelli più vivaci (“Davey Says”), sia in quelli dal sapore piacevolmente d’antan (“John Prine On The Radio”, inattesa perché eseguita di rado durante questo tour). Il top viene raggiunto nei bis, grazie all’esecuzione della title track, “Big Swimmer”, che anche senza l’intervento di Sharon Van Etten si conferma come una delle migliori canzoni finora composte dai King Hannah.
A chiudere la serata provvede un progetto completamente diverso, i KVB, duo electro-wave londinese composto da Nicholas Wood (chitarra) e Kat Day (synth) con nove album e tre Ep all’attivo, realizzati nello spazio di appena tredici anni. Basi di batteria sintetica preregistrata, synth impetuosi, chitarra elettrica iper effettata, alternanza di voce maschile e femminile, un suono che affonda le radici negli anni Ottanta più dark, riuscendo a replicarne l'estetica in maniera impeccabile.
Il set pesca in maniera democratica dall’intero spettro della discografia dei KVB, da uno dei primissimi demo realizzati, “Never Enough”, sino ad alcune tracce che compongono il lavoro più recente, “Tremors”. Canzoni dal suono plumbeo, ma al contempo iper ballabili, che trasformano la sala del Monk in un gothic dancefloor del 1983. Sold-out anche per loro, a sigillare una serata davvero impeccabile.
(Foto gentilmente concessa da Hua Wang)