17/07/2024

King Hannah

BOtanique, Bologna


Forse per la poca fede riposta nella dea Fortuna, forse perché la schiera di “caduti in battaglia” (e conseguenti concerti saltati), tra cui il frontman dei Queens Of The Stone Age Josh Homme e Alison Shaw, voce angelica dei Cranes, sembrava non avere fine, dopo l’annuncio della meningite contratta da Hannah Merrick a fine giugno, la penna di questo articolo non avrebbe scommesso un centesimo sul fatto che le quattro date italiane dei King Hannah sarebbero filate lisce. Per una volta fortunatamente il finale è stato lieto, con un primo breve ma vigoroso concerto al BOtanique nell’amena (ma zanzarosissima) cornice dei Giardini di via Filippo Re, tutto incentrato sull’ultima, valida uscita “Big Swimmer”. La nuova opera del duo originario di Liverpool (quartetto in fase live) incorpora influenze di memoria slowcore e post-rock, derive psych e dettagli country, frutto del variegato bagaglio musicale di Merrick e Craig Whittle.

L’efficace apertura è affidata al lungo crescendo di “Somewhere Near El Paso”, arricchito dalla grinta delle chitarre in coda e da qualche leggero déjà vu in stile “Washer”, a cui si agganciano le cupe atmosfere di rimando post-rock di “Milk Boy (I Love You)” e i passi dinoccolati e i guitar-riff risoluti della semi-ballad tra alt-country e slowcore “Suddenly, Your Hand”, che pesca dall’operato di Neil Young, Songs: Ohia, Smog e Duster. Si prosegue con il duetto folk-country di Merrick e Whittle su “John Prine On The Radio” e la chiusura noisy di “Go-Kart Kid (Hell No!)”, unica traccia scelta dal debutI’m Not Sorry, I Was Just Being Me” (2022), al termine della quale Craig abbozza un sorriso imbarazzato: “I think my amp broke…” (ed era proprio il caso di culminare in un “Hell, no!”).
La successiva “The Mattress” risulta divisa in due, con un inizio incentrato sull’andamento di basso e batteria in accompagnamento alla voce, uno stop dove Merrick intrattiene il pubblico con qualche battuta, durante il completamento di cambio e settaggio amplificatore a velocità record, e la ripartenza dominata dalla chitarra ruggente di Craig.

Risolto il problema tecnico, è la volta di “New York, Let’s Do Nothing”, highlight coinvolgente a tinte psichedeliche, dove il cantato di Hannah rievoca la modalità spoken word adottata dalla divina e algida Florence Shaw, frontwoman dei Dry Cleaning, e Whittle si cimenta nuovamente in fraseggi magistrali, giungendo alla conclusione del set principale con la languida “Crème Brûlée”, appartenente all’Ep “Tell Me Your Mind And I’ll Tell You Mine” (2020).
Il ritorno sul palco dopo una brevissima pausa vede susseguirsi “Lily Pad”, le cui liriche e sonorità rendono nuovamente un piccolo omaggio a “Spiderland” degli Slint, e “Big Swimmer”, dove il pensiero vola immediatamente a brani come “New Age” e “I’ll Be Your Mirror” dei Velvet Underground.
Contro ogni previsione e scommessa, nessun imprevisto è riuscito a fermare Hannah e soci. La metafora migliore a cui far riferimento per descrivere la band è quella di un fiore delicato dai colori sgargianti che, a dispetto delle apparenze, si rivela più resistente di quanto si potesse mai immaginare. Like a lily pad on a pond, letteralmente.