Can I do the things I wanna do
that I don't do because of you
And I'll take a left and I'll second guess
into a total mess
Questa è la storia di una promessa spezzata.
Di un talento impetuoso e refrattario alla briglia, gettato presto alle ortiche per troppa dabbenaggine. E di una critica non proprio encomiabile in quanto a lungimiranza. E’ la storia di Shannon Hoon e del disco in cui scelse di giocarsi tutto, un colpo solo contro i propri demoni, ma gli disse male. La mano vinta non avrebbe rovesciato le sorti di un incontro che si trascinava da anni, viziato nella sostanza da troppi squilibri di forze, però rimane una testimonianza tangibile della variante della favola che avremmo di gran lunga preferito raccontare. Quella di una voce acidula e indimenticabile. Di una rockstar bella e non più maledetta, matura il giusto per emanciparsi, una volta e per sempre, dalle proprie inclinazioni autolesionistiche. Quella, in pratica, di un ragazzo che con un’altra testa e un’altra disciplina avrebbe potuto diventare un piccolo eroe generazionale.
Le premesse per un finale alternativo non erano mai mancate, come la fortuna. I Blind Melon erano spuntati dal sottobosco alternative quasi per caso, imbarcati da mano generosa, forse per i lunghi capelli di miele stile Johnson’s Baby e le camicie a quadri di flanella, su uno dei vagoni di coda del rapido di Seattle, loro che erano tutti trapiantati a Los Angeles chi dal Mississippi, chi dalla Pennsylvania, chi – come Hoon – dall’Indiana. L’occasione per farsi notare si era palesata proprio nella grande metropoli californiana grazie a una conoscenza di peso, l’amico d’infanzia Axl Rose, che invitò il rookie Shannon a cantare in un paio di brani che di lì a breve avrebbero spopolato ovunque, “Don’t Cry” e “November Rain”. La parentesi da valvassini dei Soundgarden e la scelta di affidarsi all’astro nascente Rick Parashar, quello di “Temple Of The Dog” e “Ten”, spinsero l’equivoco alle estreme conseguenze ma per loro, provinciali con tutto ancora da dimostrare, equivalsero a una benedizione celeste.
Il disco eponimo del 1992 fu un successo non preventivabile. L’affiliazione tarocca al grunge cavalcata dalla Capitol lavorò come un grimaldello, ma il vero lavoro sporco lo fece la clip leziosa di “No Rain” con la sua bambina-ape, sparata a nastro su Mtv. Un easy-listening caruccio ma per nulla rappresentativo della varietà o delle ombre di quel rock delle radici appena screziato di psichedelia. Una canzone-mascotte, dissero loro. Una caricatura neo-hippie. Che fece impennare le vendite a oltre quattro milioni di copie e fu quindi cosa buona e giusta, almeno apparentemente. Di certo il gruppo non intendeva sedersi sugli allori. Si tuffò piuttosto in un biennio di frenetica attività live e consolidamento, un’esperienza formativa importante spesa condividendo il palco con Lenny Kravitz, Neil Young, i Rolling Stones e poi, da fratelli, con gli Smashing Pumpkins, i Red Red Meat e i Porno For Pyros. Iniziarono anche le grane, tra arresti per oltraggio al pudore e ricoveri in riabilitazione, mentre le lunghe chiome bionde lasciavano il posto a ben più drastiche acconciature e il mascara punteggiava con occhi da panda ogni nuova apparizione live del cantante, non ultima quella memorabile al festival del venticinquennale di Woodstock nell’agosto del 1994. Potevano però passare tutte, tranquillamente, per opzioni adottate in sede di sceneggiatura, e così andò.
Turbolenze a parte, questa fu una fase creativa febbrile per i Melons, trasferitisi a New Orleans per registrare al Kingsway Studio di Daniel Lanois un sophomore per forza di cose molto atteso. Prevedibilmente, avrebbero potuto limitarsi a tracopiare il canone del fortunato predecessore senza incassare recriminazioni di sorta e anzi, se possibile, consolidando ulteriormente l’alleanza con i network radiotelevisivi (emblematica la loro estemporanea cover di “Three Is A Magic Number”, dalla serie “Schoolhouse Rock!”, in seguito opzionata per la colonna sonora di una sfilza di commediole cretine tipo “Mai stata baciata” e “Tu, io e Dupree”). Decisero di prendere invece tutt’altra direzione, con un certo coraggio, anche se l’iniziativa non avrebbe pagato. Al loro fianco vollero Andy Wallace, già produttore di Rollins Band, Bad Religion e Faith No More, freschissimo di collaborazione con Jeff Buckley per l’indimenticabile “Grace”, e respinsero ogni prescrizione dagli emissari della Capitol, di fatto inimicandosi la compagnia. Evidentemente ridestate dal clima culturale della Louisiana, le ascendenze sudiste di Roger Stevens, Brad Smith e Glen Graham conferirono ai nuovi brani un retrogusto ancora più verace e sanguigno, rilasciando nel contempo il guinzaglio alla spiritata verve del capobanda. Con Cobain morto e sepolto da un annetto e il punk-pop californiano di Green Day e Offspring lanciato come nuovo fenomeno finto-alternative in vece degli stereotipati spettri grunge, il quintetto scelse di sconfessare definitivamente quell’apparentamento a lungo mal sopportato e di reinventarsi nel segno di una radicale libertà espressiva e di una rievocazione ad ampio raggio evidentemente molto sentita.
Ibridi rutilanti di hard-rock e funky rubacchiati all’amico Perry Farrell (“2×4”), ruvido e doloroso acid-rock affollato di fantasmi (come quello di Jackie Onassis in “Dumptruck”) o agghindato con un rutilante vestitino melodico non senza il suo bravo velo d’inquietudine (“Galaxie”), confessioni di una mente pericolosa (il serial killer Ed Gein) vergate tra humour nero e spigliatezza folk appalachiana (“Skinned”), frattaglie blues (“Wilt”), radiose elegie alt-country (“Vernie”, “Walk”), catatoniche ipotiposi zeppeliniane (“The Duke”), passaggi introspettivi spalancati su un baratro d’angoscia (“Toes Across The Floor”) e tirate nonsense con la bava alla bocca (“Lemonade”), il tutto incastonato entro una bislacca cornice dixieland appaltata a Kermit Ruffins e la sua Little Rascals Brass Band: quello di “Soup” era davvero il minestrone promesso dal titolo, acceso da sapori decisi, stridenti, e sufficientemente acre per non passare inosservato. D’altronde, quale altra formazione alt-rock del 1995 si sarebbe mai sognata di far risuonare in un proprio disco armonica, banjo (oggi inflazionato, ma all’epoca…), kazoo, violoncello, contrabbasso, fisarmonica, trombe, flauti e tuba? Loro sì, osarono.
Una band maturata si trovava a dar fondo a tutte le proprie risorse di virtuosismo ed eccentricità, mettendosi completamente al servizio di uno Shannon ispirato come non mai. Furono in pochi ad accorgersene, ma l’album aveva le carte in regola per imporsi tra i capisaldi del roots-rock anni Novanta, seguendo però un itinerario del tutto personale, randagio quasi, un po’ come il tizio in copertina. Non ci sarebbero più stati filtri alle brutture, ai monologhi interiori chiamati a vomitare con il necessario sadismo storie di dipendenze e abusi, alla faccia di quella stramaledetta, zuccherosissima, bambina obesa travestita da insetto. La morte sarebbe stata l’ospite d’onore ma in una prospettiva adulta, una presenza da esorcizzare rituffandosi a capo chino nel proprio presente faticoso senza più dare nulla per scontato (“St. Andrew’s Fall”, che è un po’ la loro “A Day In The Life”) e, possibilmente, abbracciando ogni nuovo germoglio di vita come un’opportunità per tornare sulla retta via (la lisergica “New Life”, racconto della paternità imminente e, a conti fatti, di un’occasione rimasta solo sulla carta).
Ma al tempo stesso ci sarebbe stato margine per la dolcezza, per le carezze acustiche, il ricordo da lacrime di una nonna generosa, e per più di un inciso estatico, dal duetto da brividi con l’esordiente Jena Kraus in “Mouthful Of Cavities” al sinuoso arabesco e lo spoken word liofilizzato del gioiellino “Car Seat”, così ambizioso da rendere aulica una storiaccia triste – pura cronaca spicciola – e cannibalizzare una poesia scritta da un’antenata del cantante, Blanche Bridge, oltre un secolo prima.
Il disco non si precludeva nulla in nome dell’appeal radiofonico, necessariamente sacrificato, e non ebbe alcun timore a presentarsi sotto una cappa atmosferica cupa e con un sound che, in aperta controtendenza rispetto alle ossessioni da lindore tecnico di quegli anni, abbracciava riverberi e impurità come autentiche benedizioni. Obliquamente votato al revival quasi si trattasse di una precisa missione, si concesse persino il lusso di rispolverare l’ormai desueto canone della “title track in differita” (già onorato in un passato lontano da grossi calibri come Doors e Led Zeppelin): fu così che un brano superbo con la medesima intestazione saltò il proprio turno per ripresentarsi solo postumo, al giro successivo.
Con inettitudine e senza alcun imbarazzo, il critico di turno su Rolling Stone stroncò “Soup” perché “tradiva la band di 'No Rain'”. Testuale. Volersi evolvere rispetto alla banale formuletta della propria canzone-jolly diventava una colpa, non un merito. Impossibile affrancarsi dall'etichetta di one-hit wonder con cui erano stati marchiati a fuoco, ovviamente a torto. Nessun cenno alla crescita dei cinque come musicisti e come autori, dopo trecento e passa concerti spesi fino all’ultima goccia di sudore, sera dopo sera, per migliorarsi. Il problema fu che alla Capitol la pensavano allo stesso modo e il disco non venne promosso quasi per niente. Le ultime apparizioni live del gruppo statunitense presentarono un Hoon rabbioso, intenso e luciferino, cartavetro nella laringe e trucco squagliato sotto gli occhi, amplificando le sinistre evocazioni già abbondantemente disseminate nei solchi dei due Lp pubblicati. La strada, forse, era già segnata da tempo per un artista fragile e bipolare, ma è plausibile che delusione e disillusione abbiano avuto un ruolo nel lasciar precipitare gli eventi. E in fondo l’aveva ammesso lui stesso, nascosto dietro una metafora automobilistica, nel refrain da capogiro di “Galaxie”: la famiglia appena costruita era come la Cadillac, un lusso che sapeva di non potersi permettere, paralizzato come si sentiva sul sedile della sua Ford lercia e scassata.
Dopo un’ultima esibizione a quanto pare vissuta in stato confusionale, la mattina del ventuno ottobre 1995, il frontman venne trovato privo di vita all’interno del tour bus per un’overdose da cocaina. La morte, si sa, nel dorato mondo dello spettacolo vende sempre benissimo. Con Shannon Hoon, curiosamente , fece un’eccezione. Nessuno cavalcò la tragedia: non i compagni di viaggio, che da amici leali scelsero di mantenere un profilo basso e preferirono il rassegnato tramonto al cinismo degli opportunisti; non la casa discografica, che da quel momento fece calare il silenzio sui Blind Melon e si guardò bene dal pubblicizzare un album uscito in fondo soltanto un paio di mesi prima; non, infine, Mtv e gli altri network, che rinunciarono in partenza alla ghiotta – dal loro punto di vista – occasione di promuovere a reti unificate un novello Kurt Cobain, evidentemente già troppo impegnati a trarre la massima resa da quel miracoloso feretro ancora caldo. Così a Hoon fu risparmiato l’immancabile processo di deificazione, un po’ come sarebbe accaduto alla buonanima di Layne Staley, solo perché passato a miglior vita con troppo ritardo rispetto a quanto tutti si attendevano (e qualcuno sperava). “Soup” finì rapidamente nel dimenticatoio, così come il suo talentuoso, incredibile vocalist.
Lo scioglimento della band e il suo ritorno con un nuovo cantante, un decennio più tardi, sono tutta un’altra storia. Lo è persino “Nico”, la raccolta postuma, domestica e genuina, che venne pubblicata nel 1996. A margine resta piuttosto quel What If… grande come una casa, che un po’ di amarezza la lascia. Come per ogni promessa spezzata che si rispetti, è il sapore del rimpianto per ciò che poteva essere e non è stato, a fare la differenza. Se il retrogusto si presenta ancora così pungente, il merito è anche e soprattutto di “Soup”.
Una “minestra” indimenticabile perché aspra, non riscaldata come tante altre.
22/11/2015