Il compositore islandese Jóhann Jóhannsson è stato uno dei più significativi interpreti della scena modern classical. Venuto a mancare prematuramente nel 2018, è un esponente di spicco della classica contemporanea oltreché un eroe in patria, in una nazione che negli ultimi decenni non è stata affatto avara di musicisti di primo livello. Sono ad esempio islandesi il giovane compositore Ólafur Arnalds e la violoncellista Hildur Guðnadóttir ("Joker", "Chernobyl"). Come il capostipite Max Richter, anche Jóhannsson è stato insignito di vari riconoscimenti, ha ottenuto pubblicazioni presso la Deutsche Grammophon ed è stato autore ricercato di innumerevoli colonne sonore, fino a due nomination all’Oscar nel 2005 e nel 2007 per le soundtrack dei film “La teoria del tutto” e “Sicario”.
Rispetto a Richter, Jóhannsson rimane più legato alla scuola post-minimalista vicina in particolare a Philip Glass, ma è allo stesso tempo enormemente influenzato dalla musica per film di Bernard Herrmann e Ennio Morricone, accentuando il versante orchestrale e riducendo quello elettronico, sostanzialmente rendendo la sua musica più legata alla classica del Ventesimo secolo che alla modernità. La sua carriera solista inizia con le musiche per l'opera teatrale di “Englabörn” (2002) e con l’ambizioso “Virðulegu Forsetar” (2004), con quattro lunghe composizioni per undici ottoni, tastiere e campane. Nel 2006 pubblica “IBM 1401, A User's Manual”, primo lavoro di una serie sul rapporto tra tecnologia e uomo, incredibilmente commovente per essere dedicato a una macchina e clamorosamente sinfonico, ma allo stesso tempo ricco di influenze elettroniche e manipolazioni. Il disco segna di certo una svolta nella sua carriera, ma queste intuizioni raggiungono l’apoteosi nel secondo capitolo dedicato al rapporto tra tecnologia (in questo caso l’industria) e l’uomo.
“Fordlandia” (2008) è dedicato alla triste storia della città costruita nel 1927 da Henry Ford in Brasile, emblema assoluto della violenza prevaricatrice del capitalismo e dell’assenza del limite che questa ideologia impone. La città fu costruita per la produzione della gomma utilizzata per le auto Ford, ma lo sfruttamento dei lavoratori indigeni, costretti a snaturare le loro millenarie abitudini culturali e lavorative, e l’impatto ambientale devastante portarono al fallimento del progetto. Una storia che sembra venire fuori da un film di Herzog, come una sintesi perfetta tra "Aguirre" e "Fitzcarraldo". Oggi Fordlandia è una delle tante città fantasma sparse per il mondo. Il senso di tragedia di questa storia tanto emblematica della megalomania umana aiuta Johannsson, ormai in piena maturità, a firmare quello che può definirsi uno dei capolavori della modern classical.
“Fordlandia” è divisibile in due parti, strutturate a loro volta in un totale di undici brani. Una parte sinfonica, spesso dotata di un potente senso di tragicità, quasi che la sofferenza degli indios potesse urlare per farsi sentire a più orecchie possibili. Una seconda parte spezzata in tante brevi tracce minimali.
L'imponente sinfonia per archi e elettronica in crescendo di “Melodia (Guidelines For A Space Propulsion Device Based On Heim's Quantum Theory)”, gli aspetti cinematici del tema di “Fordlandia”, poi riveduto nell’addio finale di “How We Left Fordlândia”, conciliano imponenza classica con la tristezza per una modernità inaccettabile, in una continua ambivalenza tra l’ego umano smisurato e la grandezza di una natura violentata nella sua abbagliante bellezza.
C’e qualcosa di massimale, di maestoso sia nella title track che nei quindici minuti di “How We Left Fordlândia” che è difficile ritrovare nelle discografie dei compositori modern classical, solitamente intimisti e minimali. Anche nei momenti in cui l’autore dipinge piccoli acquerelli elettronico-ambientali (“Melodia 2-3-4”) o in cui utilizza cori quasi religiosi (“The Great God Pan Is Dead”), o nel piccolo brano per organo "Chimaerica", si coglie la maestria dell’autore, ormai a suo agio sia nelle classiche composizioni minimali che nei crescendo sinfonici.
In più di un tratto, forse anche grazie a una storia con un'ambientazione simile, è possibile cogliere qualche vicinanza con la colonna sonora di “Mission” di Ennio Morricone, in particolare nei momenti in cui sinfonismo e musica etnica riescono a conciliarsi (“Melodia”), nei momenti più solennemente cinematici (la title track) e nei cori tragici di "The Great God Pan Is Dead". Non è un caso che dopo quest’album anche Jóhannsson diventerà, come Richter, un punto di riferimento delle colonne sonore per tanti registi.
Dal 2009 fino alla sua prematura scomparsa del 2018, il compositore islandese pubblicherà tantissime soundtrack, tra cui quelle dei film “Prisoners” (2013), “La teoria del tutto” (2014), “Sicario” (2015), “Arrival” (2016), “Maria Maddalena” (2018), sfiorando più volte il premio Oscar. Nel 2016 realizza "Orphée", dedicato al mito di Orfeo, che chiude un’ideale trilogia sulla tecnologia e sull’ambizione umana.
La vita di Johann Johannsson si spegne poco dopo, nel 2018, all’età di appena quarantotto anni. I tanti musicisti che lo hanno stimato e apprezzato omaggeranno la sua carriera riproponendo "Englabörn & Variations" (2018), il suo album d’esordio, insieme a un secondo cd con i suoi brani rivisitati. Tra i musicisti che hanno voluto collaborare troviamo la celebre violoncellista islandese Hildur Guðnadóttir, il compositore giapponese Ryuichi Sakamoto, Francesco Donadello dei Giardini di Mirò.
E’ un paradosso che proprio il suo esordio diventi anche il suo commovente requiem, come un cerchio che alla fine si chiude alla perfezione.
06/02/2022