La musica mi ha salvato la vita. Non so come e non so perché, ma ricordo bene quando. Avevo quindici anni, una fase della crescita delicata per chi vive a Casal di Principe, nel cuore malato e violento della Campania. Un paese che al tempo stesso ti ripugna e ti trattiene perché – giusto per citare gente che qualche vita l’ha salvata (i Massimo Volume) – “anche se non c’è amore, c’è qualcos’altro”. Nel migliore dei casi rischi di passare la tua adolescenza fuori a un bar – uno dei tanti – tra vecchi giocatori d’azzardo che su un tris d’assi punterebbero persino l’onore delle mogli e ragazzini che, eccitati, cantano le gesta dei boss di camorra. Fortunatamente, a differenza di molti miei coetanei, io avevo altri idoli, altri modelli: uno di questi si chiamava Kurt Cobain. Non fosse stato per la sua musica, non dico sarei finito in un brutto giro – questo no – però adesso forse sarei buttato dentro un bar a guardare la vita passarmi davanti, ad aspettare – come i personaggi di Beckett - qualcosa che non accadrà mai. Se invece sono qui a scrivere è perché, alla fine, per me Godot è arrivato. E mi ha portato via.
Sì, la musica ho iniziato ad amarla con Kurt Cobain. I suoi Nirvana li scoprii grazie a un ragazzo polacco che lavorava come imbianchino nella ditta dei miei zii. Parlando con lui, un giorno mi consigliò di ascoltare “Nirvana Nevermind: troppo buon” (sic). Chissà se è ancora vivo; qualche tempo dopo ho saputo che si riempiva le vene di eroina. Noi malati di rock siamo animali strani: stiamo lì a menarcela tanto coi critici – le cialtronate di Scaruffi, il decano italiano Bertoncelli, l’inarrivabile stile di Lester Bangs - e poi a illuminarci è il primo drogato che passa.
Tuttavia non fu “Nevermind” il primo disco dei Nirvana che comprai; il negozietto del paesino vicino quel giorno – era il 6 agosto 2001 e mi stavo facendo un regalo per l’onomastico - non lo aveva. In compenso, il commesso mi mise davanti altri due dischi della stessa band: la copertina del primo era quasi completamente nera, su quella del secondo campeggiava uno scheletro stilizzato in decomposizione. Siccome l’estetica dell'orrido mi ha sempre affascinato, optai per quest’ultimo. Si intitolava “Incesticide” ed era sostanzialmente una raccolta di brani sparsi che non avevano trovato posto nella discografia ufficiale della band (allora non avevo ancora familiarizzato col lessico musicofilo, che per questo genere di dischi impone la dicitura b-sides & rarities): c’erano trascinanti cover power-pop di un gruppo dal nome perturbante (i Vaselines, che Dio li benedica!); c’era l’enigmatica “Aneurysm” con i suoi capitomboli (dis)armonici che si avvolgevano su se stessi (la più sonicyouthiana delle canzoni dei Nirvana, avrei poi scoperto, ma allora chi diavolo li aveva mai sentiti nominare, i Sonic Youth?!); c’erano soprattutto pezzi come “Dive”, “Sliver” e “Downer”, che mi sconvolsero. Prima di quel giorno non avevo mai sentito tanta cupa potenza, non avevo mai avvertito tutta quella rabbia racchiusa in una sola voce e finii per chiedermi se quella rabbia non fosse anche la mia, se quel disagio di vivere, di stare al mondo, che scorgevo sotto quel grido allarmante, andasse oltre il semplice disagio di stare in questo mondo: il mio, abitato da poco più di ventimila anime. Forse ero solo un moccioso che si sentiva straniero nel luogo dov’era nato e cresciuto, o forse avevo scoperto l’esistenzialismo senza aver mai aperto un libro di storia della filosofia.
“Nevermind” lo comprai dopo. A quel punto, dovevo assolutamente ascoltarlo. Pensavo che se quelli di “Incesticide” erano degli scarti, allora i dischi “veri” avrebbero dovuto essere delle bombe micidiali. Mi chiedevo a quali inaudite meraviglie mi avrebbe iniziato “Nevermind”, “il disco più bellissimo dei Nirvana”, come mi disse con licenza poetica di nuovo lo stesso commesso dello stesso negozio. Lo misi su e “Smells Like Teen Spirit” mi schiantò subito al suolo. In quel momento capii l’importanza dei titoli delle grandi canzoni: mantengono sempre quello che promettono. Lo “spirito adolescente” mi travolse, la mia cameretta diventò una centrale di energia grezza, la “Raw Power” di Iggy Pop, il quale aveva già nominato in diretta, nel 1991, tre ragazzi di Seattle - Kurt Cobain (voce e chitarra), Chris Novoselic (basso) e Dave Grohl (batteria) - eredi dei suoi Stooges, ma io che potevo saperne. L’unica cosa che mi interessava era conoscere il perché di quella musica. Lessi degli articoli, feci delle ricerche. Scoprii che per molti Kurt Cobain era stato l’eroe che aveva portato il rock indipendente sulle vette delle chart di mezzo mondo, per altri la voce di una generazione – e da quel momento di tutte le generazioni di adolescenti - o anche l’antieroe che aveva dato voce agli sfigati, ai nerd, ai “bruciati” dalla vita. Ma c’era anche chi diceva che Kurt Cobain era stato solo una pappamolla che suonava una chitarra e nemmeno tanto bene, uno stronzo drogato, un paranoico incapace di sostenere il peso del proprio successo tanto da spararsi dritto alla testa. Cosa che, suo malgrado, lo aveva presto trasformato in un’icona da indossare per sentirsi fighi. Un’icona fredda però - come le Marilyn di Andy Warhol - un marchio “alternativo” per riconoscersi in una determinata categoria sociale e credere di distinguersi dalla massa. Insomma, un modo per rinunciare a un’etichetta e sceglierne inconsapevolmente un’altra. Quello che le magliette e le immagini non potevano raccontarmi era invece del semplice ragazzo, con la sua umanità, la sua fragilità. Dopotutto Warhol era morto nel 1987, proprio l’anno in cui si formarono i Nirvana, e non fece in tempo a reificare l’immagine di Cobain come aveva fatto con quella di Elvis. Poco male: ci avevano pensato il marketing e l’idolatria. Ma la Pop Art era l’ultimo dei miei pensieri; io continuavo a domandarmi chi fosse Kurt Cobain e perché quella musica.
A queste domande trovai risposta solo quando ascoltai “In Utero”: il vero, disperato capolavoro dei Nirvana. Il testamento spirituale di una rockstar per caso. Leggendo tra le righe delle dodici canzoni del loro terzo e ultimo album propriamente inteso, si può probabilmente incontrare il vero Kurt: un ragazzo come tanti, segnato da un’infanzia non semplice ma neppure tragica (i genitori, come quelli di molti, erano divorziati), che amava ascoltare i Sex Pistols, suonare la sua chitarra e cantare le sue canzoni. Per se stesso, prima di tutto. E quando si parte da questa prospettiva, diventa poi difficile non tanto godersi il successo (non scherziamo, su, quale musicista non si sentirebbe gratificato da un ampio bacino di seguaci e dalle possibilità economiche centuplicate?), quanto confrontarsi con la responsabilità morale di chi ti ha eletto proprio megafono. È questo che Cobain alla lunga non resse.
“Nevermind” era stato un fulmine a ciel sereno, un colpo di spugna inaspettato. Aveva fatto esplodere la bolla grunge, ma non era di certo né il capostipite del genere né tantomeno il suo esempio più diretto. Lo stesso Cobain non lo amava tantissimo. Lo considerava un disco troppo pulito nel suono – la produzione cristallina era di Butch Vig, futura mente dei Garbage - e troppo orecchiabile: in sostanza era punk melodico, che a volte accelerava nell’hardcore, a volte trionfava nel power-pop. Un gioiello troppo patinato per un genere sporco (“grunge” deriva da “grungy”, termine gergale sinonimo di “dirty”) che aveva avuto nobili padri derelitti come Butthole Surfers e Mudhoney.
Per il successore di "Nevermind" i fan si aspettavano altre “Come As You Are”, “In Bloom” e “Stay Away” da cantare a squarciagola. Cobain invece voleva tornare al passato e al grunge; quello vero, viscoso e fetido dell’esordio “Bleach”. Così chiamò in cabina di regia Steve Albini, il profeta del suono duro e puro, capace, grazie al suo sistema di microfoni disseminati per lo studio di registrazione, di captare la carica fisica del sound di una band. Ma non bastò, o meglio bastò solo a riavere il grezzo sound grunge. Il passato, quello Kurt non poteva riaverlo né più né meno di quanto io oggi non possa riavere la mia adolescenza. Tranquilli, di suicidarmi a ventisette anni non ci penso proprio e questo perché ho ascoltato “In Utero” tante di quelle volte che alla fine ho trasfigurato la rabbia, lo sconforto e il nichilismo in energia positiva, in voglia di vivere. Paradossale effetto di un disco che nei progetti di Cobain avrebbe dovuto chiamarsi “I Hate Myself And I Want To Die”. Paradossale fino a un certo punto: la chiamano “arte” e nei suoi esempi più alti serve proprio a farci accettare il dolore della vita, a trascenderlo.
Per me “In Utero” rimarrà sempre il disco della maturità, per Cobain purtroppo è rimasto il disco della fine: la fine del sogno, del gioco, delle illusioni. La presa di consapevolezza di non essere in grado di stare sulla cresta dell’onda senza sentirne il peso e senza sentirsi sporco; la presa di coscienza di non essere uno come Michael Stipe, dei cui Rem il leader dei Nirvana aveva non a caso sentenziato: “Hanno raggiunto il successo in modo simile ai santi”. Tradotto: hanno fatto un pacco di soldi, ma non sono mai andati contro i loro principi.
Anche Cobain aveva fatto un pacco di soldi, e se li era meritati tutti, ma, al contrario di molti suoi colleghi, sentiva di aver tradito se stesso e temeva che a lungo andare avrebbe tradito anche il suo pubblico. Dunque meditava di smetterla. Non con la musica: con la vita. Volere intitolare un disco “Odio me stesso e voglio morire” andava al di là di qualsiasi intento provocatorio e di qualsivoglia posa da maledetto. Era evidente che la magia si fosse rotta sul nascere, l’entusiasmo dissipato. Cobain aveva ottenuto quello che voleva - sentirsi come Johnny Rotten o Joe Strummer - ma proprio in quel momento aveva capito che per essere come loro non ci voleva soltanto un gran talento, ma anche una grande, salvifica faccia di culo. Il successo è bello solo se lo sai gestire. Cobain non ne era capace e decise che era ora di farla finita. Prima però doveva liberarsi degli ultimi scheletri, degli ultimi fantasmi, spiattellando in faccia al mondo il suo insano desiderio di autodistruzione. L’estetica sonora di “In Utero” è intrisa di questo funesto sentimento. La sua poetica va anche oltre.
“La rabbia giovanile ha pagato bene, ora mi sento annoiato e vecchio”. Tanto per gradire, è questo l’incipit di “In Utero”, un disco che infila una seduta psicanalitica dietro l’altra finché il cervello scoppia e ti presenta il conto. “Serve The Servants” è la prima e dà l’impressione, con le sue distorsioni laceranti e la sua ritmica aggressiva, che sì, si può ancora sconfiggere il dolore, curare quella vibrante malattia chiamata esistenza. L’ultima è “All Apologies”, ballata elettroacustica accarezzata dal vento d’un violoncello che indica la via d’uscita: non siamo i soli a soffrire, c’è un mondo là fuori fatto di cose e di persone in cui confondersi e riconoscersi. Il senso è tutto lì, in quell’"All in all is all we all are" che è l’ultimo verso, ripetuto come un mantra, di “In Utero”: un verso che manda in collisione Neil Young con Guicciardini, San Francesco con Coleridge, Eraclito con Piet Mondrian. In mezzo a questi due estremi, ci sono altre undici canzoni, altri undici modi di frugare dentro la propria coscienza: c’è la vita come contrappasso (“Rape Me”: musicalmente, una variazione sul tema di “Smells Like Teen Spirits”; narrativamente, il desiderio di una donna stuprata di riservare al suo aguzzino lo stesso trattamento) e la vita come tentata rivalsa (“Francis Farmer Will Have Her Revange On Seattle”, che racconta il triste declino di una vecchia attrice considerata ingiustamente pazza), l’amore come antidoto (il gran singolo “Heart-Shaped-Box”) e la morte come estasi eterna (“Pennyroyal Tea”, ovvero la dimostrazione che il blues, il punk e Leonard Cohen possono essere la stessa cosa), l’urlo di Derby Crash (“Milk It”, uno stillicidio timbrico in odore di post-core) e "L'urlo" di Munch (la disumana “Scentless Aprrentice”, ispirata al macabro romanzo “Profumo: storia di un assassino”).
“Nevermind” rimarrà il disco più importante dei Nirvana per una serie di congiunture storiche: il disco del cantare per rabbia o per ribellione, ma anche da canticchiare sotto la doccia. “In Utero” no, non si canticchia; non perché non ci siano melodie (“Dumb”, in questo senso, è una serenata alla malinconia degna del repertorio dei Beatles), ma perché è un unico salmo di disperazione che lascia letteralmente senza parole. E senza fiato. Un disco da contemplare in silenzio. Probabilmente, si tratta dell’ultimo grande album grunge, il canto del cigno di un genere quasi ineffabile; dopo ci sarà solo il bellissimo colpo di coda – dimenticato e indimenticabile – dei Barkmarket di “L. Ron”.
“In Utero” ha praticamente scritto la parola “fine” a quell’utopia di eterna adolescenza – quell’utopia disperata e ingenua - che si accese nel cuore degli anni Ottanta, grazie a band immortali come Replacements e Husker Du, e si spense definitivamente in un colpo di fucile del 5 aprile 1994: “Ok, ragazzi, ci abbiamo creduto, adesso raccogliamo i giocattoli, spegniamo le luci e torniamocene a casa”.
In questi giorni “In Utero” compie vent’anni e la Universal il 24 settembre metterà in commercio l’immancabile deluxe edition, cha alla scaletta originale aggiunge una miriade di bonus track. Una pubblicazione celebrativa che probabilmente farà la gioia sia dei filologi, che avranno ulteriore materiale da vivisezionare, sia dei fan più famelici, avidi divoratori di ogni nota prodotta dal loro eroe, fossero anche quelle solo immaginate. Per quanto mi riguarda, non c’è nulla da gioire. Lo sciacallaggio estetico dei fan è anche peggiore della speculazione ad libitum perpetrata da un’industria discografica con l’acqua alla gola. Sarà che rivorrei indietro i miei quindici anni, sarà che sono un inguaribile romantico o sarà che, semplicemente, ho ancora rispetto dei morti – anche se hanno un nome illustre – ma non ci sono contenuti speciali che possano farmi ingolosire. Io mi tengo stretta la mia copia di “In Utero”: invecchiata, ingiallita, comprata dodici anni fa. Quando forse, da moccioso iconolatra qual ero, avrei raschiato anch’io il fondo del barile dei contenuti extra. Oggi è diverso, ho imparato che la musica è una cosa seria. Può raschiare ben altro: il fondo dell’anima. Può farti piangere. Di gioia o di rabbia. Può salvarti la vita.
Un ringraziamento a Carlo Bordone per i piccoli ma preziosissimi consigli
15/09/2013