Contaminare la musica jazz con altri stili, anziché conservarla rinchiusa in un vetusto bossolo protettivo, è l’unica chiave per tenerla al passo con i tempi e sdoganarla presso le nuove generazioni?
Non siamo certi di quale sia la risposta più giusta, visto che uno dei dischi jazz più acclamati degli ultimi anni è stato il monumentale esordio di Kamasi Washington “The Epic” (2015), un lavoro dalle strutture assolutamente convenzionali.
Di sicuro le influenze jazzy oggi si trovano un po’ ovunque nella musica rock, basti solo prestare attenzione all’atteggiamento presente nei lavori firmati nel 2016 da David Bowie (lo so, qui spunta sempre la lacrimuccia, “’Tis Is A Pity She Was A Whore” è uno dei pezzi dell’anno) e PJ Harvey (“The Ministry Of Defense” è da urlo).
Ma non bastano un paio di sassofoni o una sezione ritmica che sappia ricamare di fino per fare un grande album jazz: occorrono idee, in un genere che dai primi decenni del Novecento a oggi ha detto e ridetto ormai quasi tutto.
I canadesi BADBADNOTGOOD ci provano, peccando di bulimia: per licenziare cinque dischi in cinque anni (compreso "Sour Soul", condiviso lo scorso anno con il rapper Ghostface Killah) devi avere davvero tante cose da dire, e devi riuscire a dirle in un certo modo.
Intanto il trio è diventato un quartetto, a seguito dell’ingresso nella line-up in pianta stabile del sassofonista Leland Whitty, il quale si aggiunge ai membri storici Matthew Tavares (synth), Chester Hansen (basso) e Alex Sowinski (batteria).
I risultati sono alterni. I ragazzi risultano troppo patinati quando si spingono in territori soul affrontando temi da camera da letto dal retrogusto seventies (“Time Moves Slow”, con ospite alla voce Sam Herring, “In Your Eyes”, con Charlotte Day Wilson); meglio quando entra in scena l’elettronica da spy-story architettata con l’ausilio di Kaytranada, oppure quando ritornano in auge le vecchie fascinazioni hip-hop, con Mick Jenkins che gioca a fare il Tricky di turno in “Hyssop Of Love”.
Grande classe e raffinatezza da vendere quando le atmosfere si fanno notturne (“Chompy’s Paradise”, “Structure N° 4”), ma - e ci sono troppi “ma” durante l’ascolto di “IV” - affiora spesso un filino di noia al cospetto di brani che mettono sì in risalto la straordinaria bravura dei musicisti (“Cashmere”) ma che hanno uno svolgimento privo di colpi di scena e appaiono, a tratti, quasi distaccati.
I pezzi forti del disco sono “Confessions pt. II”, una trascinante virata funk dove al sassofono di Whitty si aggiunge quello di Colin Stetson per un trionfo di suoni e colori, e il più standardizzato “IV”, la title track che conferma quanto il combo riesca a dare il meglio di sé quando si concentra su una trattazione più rigorosamente jazz.
La sensazione finale è che l’ascoltatore alla ricerca di combinazioni poco canoniche in ambito nu-jazz contemporaneo continuerà a preferire gli esperimenti futuristici di Flying Lotus o le affascinanti ibridazioni degli Heliocentrics, i quali restano decisamente più sfidanti nelle soluzioni proposte.
10/10/2016