Prima o poi qualcuno dovrà pur accorgersi dell’unicità di Keiron Phelan, in particolar modo mettendo finalmente insieme i vari filoni produttivi condivisi con band come Smile Down Upon Us, Littlebow, State River Widening, Wisdom Of Harry e Continental Film Night, senza dimenticare la preziosa collaborazione con David Sheppard e il ruolo nella prima formazione degli Ellis Island Sound.
L’imprevedibilità e la capacità d’interagire con diversi linguaggi musicali fa sì che ogni volta che il musicista mette in piedi un nuovo progetto, il risultato sia sempre stimolante e originale. Non sfugge alla regola anche “Peace Signs”, che saluta la nascita di una nuova band (Peace Signs), formata da Jenny Brand, Jack Hayter, Brona McVittie, Oliver Cherer, James Stringer, Giles Barrett e Ian Button, mentre David Sheppard e Angele David-Guillou collaborano come ospiti.
Tra folk-pop tratteggiati di fragile psichedelia, accorgimenti chamber-pop, citazioni in stile Canterbury e un pizzico di songwriting alla David Bowie di “Hunky Dory” o Marc Bolan, il musicista esterna velleità art-pop che evocano alcune delle migliori penne del firmamento pop-rock, da Tim Hardin a Scott Walker, da Edwyn Collins a Neil Hannon, da Kevin Ayers a Stephen Duffy.
“Peace Signs” è un album dalle tinte tenui, quasi pastello, mai sgargianti, eppur vivaci e policrome. La strumentazione atipica, a volte gustosamente naif, lascia fluire il tutto con uno spirito hippie che è una vera rarità e delizia.
Il pop-rock di Phelan si riappropria di quella flessibilità che negli anni 70 ha caratterizzato sia la scena inglese che americana, ed ecco apparire strane ibridazioni sonore: il glam-folk quasi freak di “Satellite Hitori” sembra uscire da un vecchio album dei Jazz Butcher, il gusto retrò di “My Children Just The Same” evoca sia i primi Strawbs che i Genesis di “From Genesis To Revelation”, mentre il giocoso refrain di “Song For Ziggy” ha la grazia di Kevin Ayers e l’orecchiabilità delle filastrocche di Paul McCartney.
“Peace Signs” è un album maturo e complesso, un progetto che racchiude in modo esemplare tutti le sfaccettature di Phelan, dai raffinati e crepuscolari brani in chiave folk-soul alla Edwyn Collins (”New Swedish Fiction”) alle più malinconiche e notturne piano-ballad che strizzano l’occhiolino all’America di Bill Fay (la title track).
Quel che incanta di Phelan è la capacità di lambire i confini della poesia senza risultare prolisso o enfatico: le citazioni più colte di “Canterbury” e le ambizioni art-pop di “Mother To Daughter Poem” sono fortemente empatiche, e fanno da prezioso contraltare alle più garbate e leggiadre “Ain't She Grown” e “Country Song”, costruendo un puzzle d’emozioni che potrà sembrare a volte dissonante e privo di una direzione unitaria, ma nel contempo ricco di quell’irriverenza e incoscienza che di solito arridono solo ai puri di cuore e ai matti.
10/12/2018