Cecilia Page e Jarrod Gasling ritornano sulla scena del delitto. “Orange Synthetic” riprende le fila di quel folk psichedelico ricco di contrasti e chiaroscuri che quattro anni fa ha posto le basi per una collaborazione tra due abili musicisti provenienti da mondi diversi, una sinergia creativa destinata a produrre preziosi frutti dal gusto agrodolce.
Nel lungo periodo trascorso dall’esordio, i due artisti hanno elaborato molti progetti collaterali: Cecilia ha partecipato alla realizzazione della colonna sonora della serie Netflix "Dark Crystal", è ritornata alla corte di Matt Berry per un tour e un disco ed è andata sul palco con i Maps; Jarod ha pubblicato un nuovo capitolo del progetto collaterale Regal Worm, ha proseguito il gemellaggio artistico con Dean Horner con gli I Monster e ha disegnato l’art cover per l’ultimo disco di Tim Bowness.
Diversamente dal fronte psichedelico che cattura proseliti in tutto il globo, quello dei Cobalt Chapel non si nutre di sbuffi rock-garage, le chitarre sono solo orpelli, peraltro per la prima volta presenti nell’economia del sound del duo.
Cecilia e Jarod, come novelli druidi, volgono lo sguardo al futuro, raccontando del passato. Nulla di personale o intimo: “Orange Synthetic” è il canto della terra, della natura, è infatti la contea dello Yorkshire il fulcro del racconto dei Cobalt Chapel, ammaliante e ipnotico come il canto delle sirene, tra stratificazioni di organi che avvolgono in un vortice immateriale voci e ritmi pulsanti ai quali spetta il compito di disegnare il brano più pop finora approntato dal duo “In The Company”.
Ed è su queste coordinate a metà strada tra il favolistico e l’apocalittico che si sviluppa l’intero progetto, tra spunti lirici surreali o imprevedibili, come gli aerei militari per l’etereo e languido folk psichedelico di “Our Angel Polygon”. Contrasti e discordanze nei quali affonda il vivace teatrino armonico immerso in una soluzione acida alla Broadcast, generando il piccolo capolavoro di “It's The End, The End”.
“Orange Synthetic” è come un quadro iperrealista, a far da sfondo il paesaggio naturalistico e industriale dello Yorkshire, sul quale i due musicisti proiettano storie di morte e solitudine con tonalità forti e più mobili rispetto al passato (“Message To”, ”A Father's Lament”).
Nonostante il duo abbia incluso una pletora di strumenti - clarinetti, registratori, mandolini, chitarre - e abbia fortificato il ruolo di mellotron e basso, la musica resta inquieta e inafferrabile, tra cimeli avantgarde dall’inesorabile flusso di cambi e dissonanze sonore introdotti da un lieve accenno di bossa nova (“Cry A Spyral”), danze pagane estatiche e dal corpo ritmico orgiastico e fluttuante (“Pretty Mire, Be My Friend”) e fragili folk-song che catturano il lato oscuro di Enya (“E.B.”).
Nel frattempo una più decisa vena melodica, una possanza ritmica più definita e uno sguardo alle ramificazioni psichedeliche nel mondo del rock, del blues e del jazz anticipano ulteriori sviluppi futuri (la title track).
“Orange Synthetic”, più che consolidare le buone impressioni dell’esordio dei Cobalt Chapel, getta nel fuoco ardente della miscela folk-psichedelica del duo altra legna da ardere, disorientando ulteriormente chi attendeva una normalizzazione più decisa del sound. Tastiere (Jarod possiede le rare Vox Continental e la Philicorda, oltre a un organo russo, l’Elektronika), voci e alterazioni sonore sono ancora profumate di leggende e racconti popolari.
E’ una musicalità, quella del duo, che riconquista quello spazio occupato dal forsennato sviluppo economico: Sheffield è una delle città industrializzate più importanti dello Yorkshire, un luogo che evoca Cabaret Voltaire, Human League, Clock Dva e Heaven 17.
Jarod e Cecilia narrano di quelle storie pagane che foraggiavano il mondo visionario della Incredible String Band, tra brughiere e ferrovie abbandonate, residui di una civiltà passata che hanno ancora qualcosa da raccontare a chi presta ascolto, e “Orange Syntethic” è la vostra chiave d’accesso in questo magico mondo, non restatene privi.
14/02/2021