Tre anni sembrano parecchi, se compariamo "Mortal Primetime" al precedente "Headful Of Sugar", una prova che aveva convinto a metà gli ascoltatori dei Sunflower Bean, perché se da un lato confermava il talento e la capacità del terzetto, dall'altro non appariva un lavoro veramente a fuoco e memorabile. Rispetto ad allora, la band newyorkese compie una decisa svolta e ritorna sulle scene con un'estetica darkettona new romantic e un suono almeno inizialmente più grintoso, in bilico tra pop punk, college rock, cabaret e hard rock. Stando ai primi due singoli almeno, nonché alla foto che ha accompagnato le copertine dei singoli e che è stata confermata dall'album stesso.
"Mortal Primetime" parte subito forte, "Champagne Taste" (già primo singolo), riff di chitarra e filler di batteria a caricare il tutto. La canzone è meno banale di quello che può sembrare, grazie all'intrecciarsi di voci e stilemi hard rock, ma soprattutto perché nei suoi tre minuti di durata è capace di prolungarsi senza risolversi mai. È un peccato però che l'assolo, anche se arriva fuori tempo massimo, termini all'improvviso, senza un vero motivo logico o artistico, se non quello di stare nei tre minuti di media delle canzoni del genere. La successiva "Nothing Romantic" si avvicina alla ballata, almeno nella strofa, a tratti onirica grazie alle note alte raggiunte dalla voce di Julia Cumming; e ballata piena, hard rock, è la successiva "Waiting For The Rain", con il chitarrista Nick Kivlen alla voce.
L'atmosfera si fa più rilassata con "Look What You Did To Me", che fa tesoro delle esperienze vicine all'indie pop precedenti. Con "I Knew Her" e "Shooting Star" l'album arriva a un folk vicino a Waxahatchee periodo "Saint Cloud" e viene da chiedersi se l'impressione della svolta rock fosse solo un abbaglio dovuto ai due singoli anticipatori e collocati insolitamente entrambi all'inizio dell'album. Anche il terzo singolo, a metà della seconda parte, "There's A Part I Can't Get Back" è una ballata con venature folk e ritornello sospeso. Ad aggiungere ulteriore varietà sono l'acustica "Please Rewind", tra Sufjan Stevens e Simon & Garfunkel, e l'ultimo pezzo, "Sunshine", shoegaze e cupo.
Il gruppo newyorkese conferma di saper suonare e, come s'è visto, di volersi muovere su generi diversi; ma la varietà è un po' troppa per i 35 minuti di durata complessiva e così il tutto risulta piuttosto slegato, non pienamente sviluppato e compiuto. Anche la scelta di prodursi da sé, supportati da Caesar Edmunds (Wet Leg, tra le esperienze più recenti) e Sarah Tudzin (boygenius), non ha aiutato a individuare la direzione del progetto. O forse la dimensione del gruppo è questa: una band dotata tecnicamente, che spazia tra generi e stili senza molto altro.
19/05/2025