Saxon

Saxon - I leoni dell'heavy-metal

La band heavy metal fondata nel 1976 a Barnsley, nel Regno Unito, è diventata una istituzione della corrente New Wave of British Heavy Metal. Raggiungendo un notevole successo commerciale nella prima metà degli anni 80, grazie ad album potenti e lunghi tour mondiali. Ripercorriamo la sua leggendaria saga

di Mauro Vecchio

Quando li ho incontrati per la prima volta, mi dissero che era troppo presto per bere. Erano bevitori di tè, alla birra preferivano una bella tazza di tè. Erano inorriditi da noi
(Lemmy Kilmister)

Il mio preferito tra i primi quattro, cinque album era 'Strong Arm Of The Law'. 'Heavy Metal Thunder' era un anthem. Ma tutto il disco era fatto di grandi canzoni, grandi testi. Ti faceva sentire parte di quello che stava accadendo
(Lars Ulrich)

Amiamo il tè. Andiamo avanti a tè. Se ci metti qualcosa dentro. Zucchero
(Biff Byford)


Son of a bitch

Novembre 1975. Barnsley è una tipica market town inglese adagiata al centro della contea di South Yorkshire, con la sua forte tradizione industriale e mineraria presidiata dal quartier generale della National Union Of Mineworkers. Famosa per la lavorazione del vetro, Barnsley ospita le fondamenta di quella che si autoproclama la più grande cake bakery d’Europa, ed è una delle culle britanniche delle cosiddette brass band, le bande di ottoni originate proprio come collante sociale dalla comunità locale di minatori. È un contesto sicuramente poco frizzante per un ventenne capellone che adora la musica più dura, mentre in cima alle classifiche del Regno Unito salgono gli svedesi ABBA con “SOS” ed i KC and the Sunshine Band con “That’s The Way (I Like It)”. Dalle ceneri glam lasciate dalla morte annunciata sul palco londinese dell’alieno Ziggy Stardust, David Bowie ha svoltato cavalcando le nuove tendenze americane tra soul, funky e disco, mentre i signori oscuri noti come Black Sabbath hanno da poco dato alle stampe “Sabotage”, altro esperimento di fusione con il progressive dopo l’eccelso “Sabbath Bloody Sabbath”.
Nato a Mexborough, nel distretto metropolitano di Doncaster, Graham Oliver ha da poco compiuto ventitré anni quando è tra i principali architetti della fusione tra due agguerrite band locali, accomunate dalla voglia di appesantire il tipico sound hard-rock di derivazione blues. Entrato da giovanissimo in fabbrica, Oliver ha pensato di smettere per sempre con la musica a causa di un incidente sul lavoro che gli ha strappato via la prima falange del dito indice. Ha così venduto la sua preziosa Fender Stratocaster del 1962, annunciando all’amico Paul Quinn le sue deluse ma inevitabili intenzioni. Su insistenza del futuro compagno di band, Graham ha poi cambiato idea, tornando a lavorare sugli accordi per migliorare la sua tecnica. Nel 1970 ha così fondato i Blue Condition, con il cantante Steve Firth, il batterista John Walker e il bassista di Sheffield Steven “Dobby” Dawson.
Il gruppo ha così iniziato a proporre un ruvido mix tra blues e hard-rock, cambiando nome in S.O.B. dall’album dei Free, “Tons Of Sobs”. Con un discreto successo locale e internazionale, che ha portato la band a girare in tour tra Germania e Paesi Bassi fino all’autunno del 1975. Tra i principali rivali dei S.O.B., i Coast hanno preso il nome dal brano dei Trapeze “Coast To Coast”, fondati nel 1973 come power trio dall’amico di Oliver, Paul Quinn (chitarra) con Al Dodd (batteria) e Biff Byford (voce e basso).

Nato nel villaggio di Skelmanthorpe, West Yorkshire, nel gennaio 1951, Peter Rodney Byford ha dovuto affrontare all’età di 11 anni la tragica morte della madre, un evento che ha forgiato nel dolore la sua adolescenza. Il giovane Biff ha inoltre sofferto le angherie di un padre alcolizzato e violento, tormentato da un braccio mutilato a causa di un incidente con una macchina all’interno della fabbrica tessile dove lavorava. Le prime esperienze con la musica sono arrivate a quattordici anni, in una band giovanile locale, mentre ha iniziato a lavorare come apprendista carpentiere a quindici. Con un primo figlio in arrivo, la necessità di guadagnare più denaro lo ha portato a lavorare in una miniera di carbone a Flockton, nell’area di Huddersfield, addetto nella sala caldaie perché ritenuto troppo alto per le operazioni sotto terra. Unica valvola di sfogo, suonare la chitarra grazie agli insegnamenti del fratello del suo migliore amico, arruolato in un gruppo blues locale. Passato successivamente al basso, Byford ha suonato con diversi gruppi nell’area di Barnsley, scrivendo i suoi primi pezzi per il gruppo psichedelico Jumble Lane. Le sue prime esperienze come cantante sono poi arrivate nella Iron Mad Wilkinson Band, seguita dai Coast con l’amico chitarrista Paul Quinn.

Se i Coast sono arrivati a fine ciclo, i S.O.B. hanno da poco perso il cantante, Steve Furth, che ha deciso di intraprendere una carriera da solista. Così nascono i Son of a Bitch, che vedono Byford alla voce, Oliver e Quinn alle chitarre, Dawson al basso e Walker alla batteria. Praticamente una fusione con l’obiettivo comune di presentare al pubblico locale un sound molto più heavy del classico hard-blues. Dopo le prime prove insieme, il gruppo registra un demotape, “Tapestry”, partendo subito a razzo con continui concerti tra il Regno Unito e vicine nazioni europee. Due anni dopo perdono il batterista John Walker, sostituendolo prima con Dave Cowell e poi con un altro nativo di Sheffield, Peter Gill, che viene dalla band glam-rock The Glitter Band.
I Son of a Bitch producono un demo Ep nel 1978, con una copertina a fumetti che ricorda il personaggio letterario Conan the Barbarian. Dall’iniziale “Big Teaser” si avvista la prima architettura sonica del gruppo, una miscela esplosiva di riff al fulmicotone e ritornelli killer, su un ritmo sparato a cento all’ora. L’impianto più heavy in “Stallions Of The Highway” completa la trasformazione della band dalle ceneri hard dei due precedenti gruppi, virando verso boogie supersonici (“Back To The Wall”) e puntando a una formula che unisce i ritmi serrati in stile Ac/Dc a rallentamenti oscuri più sabbathiani, come in “Rainbow Theme”. Il canto potente ed evocativo di Byford sposa alla perfezione le chitarre, capaci di spaziare con estrema disinvoltura dal riff più tagliente agli assoli più intensi, come sul finale di “Frozen Rainbow”.

Con un solido Ep tra le mani, i Son of a Bitch entrano in contatto con i dirigenti della Carrere Records, casa discografica francese fondata nel 1962 da Claude Carrere. Dopo aver debuttato sul mercato transalpino con un pugno di artisti locali, Carrere ha deciso di spostarsi sul più redditizio mercato inglese, potendo contare sul successo del singolo “Black Is Black” del gruppo La Belle Époque, arrivato al secondo posto grazie alla distribuzione della Emi. Stabilitosi negli uffici della Hansa Records nel giugno 1978, il discografico francese ha nominato l’ex-A&R director della Emi Freddie Cannon a capo del ramo Uk dell’etichetta, scritturando un gruppo sudafricano, i Clout. Incoraggiato dal successo del loro singolo “Substitute” - anche questo al numero due - Cannon ha poi messo sotto contratto la band power pop The Incredible Kidda Band, prima di incontrare i Son of a Bitch alla metà del 1978.
Ascoltando le tracce dell’Ep, i nuovi dirigenti della Carrere accettano di contrattualizzare la band, a patto che cambi il nome, ritenuto eccessivo per sfondare sul mercato. Cannon propone di rimarcare le origini britanniche, in un nome che potrebbe essere Anglo-Saxon. Byford interviene dicendo: “Bene, allora taglia anglo e avrai il nome della band”.

NWOBHM

Firmato il primo contratto con la Carrere, i neonati Saxon si lanciano subito in tour facendo da spalla a gruppi importanti come Motörhead e Ian Gillan Band, affilando le chitarre sui palchi europei. Tra gennaio e marzo 1979 si chiudono ai Livingston Recording Studios, a nord di Londra, con il produttore John Verity, ex-chitarrista degli Argent, band formata da Rod Argent dopo l’uscita dagli Zombies. Il materiale base di Saxon, in uscita in primavera, è quello già registrato nell’Ep demo, riprendendo in copertina la figura del barbaro. L’album è una prova generale di quello che arriverà a breve, primo tentativo di affrancamento dall’hard-blues-rock portato al successo da mostri sacri come Deep Purple e Black Sabbath. È uno dei primi vagiti di quella che sarà chiamata New Wave of British Heavy Metal, frutto sonico ancora acerbo di una band che effettivamente non ha mai registrato in uno studio professionale, ma d’altra parte vanta già quasi dieci anni d’esperienza dal vivo.
Il disco d’esordio si fonda su tre brani cardine ad anticipare l’esplosione, dal ritmo vertiginoso di “Judgement Day”, poi smorzato dall’assolo in wah-wah, all’intro marziale di “Militia Guard”, squarciata dal refrain acustico prima di prendere velocità sul riff ossessivo e sterzare improvvisamente sulla chitarra glam. Con l’implacabile ritmo verticale di “Stallions Of The Highway”, che vede la sezione ritmica come un treno in corsa, i Saxon firmano i loro primi anthem da strada, racchiudendo l’immaginario del biker che farà la la loro fortuna.
Il resto del disco fatica però a trovare una direzione sonica, probabilmente penalizzato da una casa discografica specializzata in disco-music, che non ha perciò ancora trovato un modo per incidere efficacemente un gruppo heavy-metal. Se l’accoppiata “Rainbow Theme”/ “Frozen Rainbow” presenta elementi progressive in uno stile a metà tra Black Sabbath e Thin Lizzy, i numeri boogie “Big Teaser” e “Still Fit To Boogie” pagano più di un debito nei confronti di Marc Bolan. Pur vittima di una produzione balbettante, il disco d’esordio dei Saxon lancia il gruppo sul panorama inglese, inserendolo di fatto tra i fondatori della nuova ondata dell’heavy-metal.
Saxon viene ignorato dal grande pubblico inglese, ad eccezione dei fan delle sonorità più aggressive. Il gruppo decide così di cambiare produttore, ingaggiando Pete Hinton, decisamente più avvezzo agli arrangiamenti heavy. Byford e soci cambiano anche studi di registrazione, scegliendo i Ramport costruiti dagli Who nel distretto londinese di Battersea.

Registrato in appena un mese, Wheels Of Steel esce nella primavera del 1980, ed è un disco seminale per la carriera della band e per l’intero movimento HWOBHM. Come l’aquila cromata e torreggiante sulla ruota da biker, il sound dei Saxon diventa affilato e veloce, lanciato a tutta velocità sulle marce che scalano sul riff al fulmicotone del nuovo inno, “Motorcycle Man”. È di fatto un proto-speed metal, manifesto potentissimo delle due ruote costruito su un ritmo infernale, ancora più spinto in brani dal sapore rock’n’roll come “Freeway Mad”.
La band diventa di botto un punto di riferimento con la sua estetica della velocità sonica, confezionando delle esplosive driving song come la title track, aperta da un boogie irresistibile e ossessivo, squarciato a metà dall’assolo distorto. L’epica on the road accoglie momenti più drammatici come “747 (Strangers In The Night)” - che racconta le complicate vicende del volo 101 della Scandinavian Airlines, rimasto sospeso sopra il JFK di New York a causa di un black-out in città alla fine del 1965 - costruito su un riff leggermente depotenziato e sull’interpretazione lirica della voce di Byford. La band appare in stato di grazia dopo un esordio balbettante, quando “Suzie Hold On” sfodera una perfetta ballad hard-rock, impreziosita da un lavoro di fino delle chitarre di Oliver e Quinn. Sono brevi pause in un disco mozzafiato, che torna a ruggire sui riff tempestosi di “Street Fighting Gang” e sul ritmo da rullo compressore in “See The Light Shining”, poi smorzata da arrangiamenti molleggianti più in linea con il rock marca seventies.
La corsa su due ruote si arresta come è iniziata, prendendo fuoco sulla conclusiva “Machine Gun”, come un cazzotto dritto in faccia che i Saxon assestano nel panorama del nuovo heavy-metal inglese.

Tuono

Wheels Of Steel
è come un lampo abbagliante sul mercato discografico inglese, scalando la classifica dei dischi più venduti fino alla quinta posizione. La British Phonographic Industry (BPI) gli assegna il disco d’oro raggiunte le 100mila copie distribuite in Uk. L’omonimo singolo trascina la popolarità della band, che intraprende un lungo tour in patria fino a calcare il palco del neonato festival Monsters Of Rock. Organizzato per la prima volta nell’estate del 1980 da Paul Loasby e Maurice Jones, il Monsters Of Rock punta subito al meglio dei generi hard-rock e heavy-metal. Loasby ha iniziato a lavorare come promoter dei Rainbow, pensati come primi headliner alla fine del loro tour inglese. Nella suggestiva cornice di Castle Donington, nel Leicestershire, la prima edizione del festival si tiene il 16 agosto 1980 davanti a 35mila persone, includendo appunto i Rainbow oltre a Judas Priest e Saxon. Byford e soci scatenano l’entusiasmo tra i fan, ottenendo recensioni molto positive tra la stampa di settore, prima di fare il botto definitivo in tv durante una puntata del celebre format Top of The Pops con la hit “Wheels Of Steel”.

Tra una data e l’altra del tour viene registrato velocemente un secondo album, Strong Arm Of The Law, ancora con Pete Hinton ai Ramport di Battersea. Cavalcando l’onda del successo, la band si conferma in stato di forma smagliante, dando alle stampe un secondo instant classic dell’heavy-metal. Ad aprire il disco non c’è più il rombo dei motori che incendia l’asfalto assolato, ma effetti di pioggia squarciati dal tuono, che introducono un altro brano anthemico, il proto-thrash “Heavy Metal Thunder”. I Saxon dimostrano di aver appreso parecchio dalle prime esperienze dal vivo insieme ai Motörhead, sfornando brani dall’epica speed come “To Hell And Back Again” e “Taking Your Chances”.
Memore dell’incontro spiacevole con una pattuglia stradale sulle strade inglesi, la band spezza il ritmo forsennato con la nuova hit, “Strong Arm Of The Law”, aperta dall’arioso riff hard-rock e superbamente condotta dalla voce teatrale di Byford. Nonostante un’esecuzione strumentale ai limiti del canonico, il brano è praticamente impossibile da ignorare, strutturato per diventare un classico del British metal. Se la sezione ritmica è libera di scatenarsi sul ritmo roccioso di “20,000 Ft.”, l’arpeggio oscuro di “Hungry Years” introduce un midtempo boogie sferragliante, in cui giocano a rincorrersi le chitarre di Oliver e Quinn.
Il gruppo torna ad accelerare sulla pruriginosa “Sixth From Girls”, prima di chiudere l’album con il ritorno al riff da strada di “Dallas 1 PM”. Incentrata sulle teorie (più o meno complottiste) legate alla morte di John Fitzgerald Kennedy, la canzone assume connotati cinematografici sullo stacco centrale, a dimostrare che i Saxon non sono solo una macchina velocissima, ma anche un gruppo già maturo con un secondo, solidissimo album.
Trascinato dall’omonimo singolo, Strong Arm Of The Law scala le classifiche inglesi fino all’undicesima posizione, ottenendo il disco d’oro. L’album ha grande successo anche in Europa, in paesi come Francia e Svezia, anticipando un lungo tour che parte nel Regno Unito con una percentuale altissima di sold-out. La fama della band si allarga oltreoceano, in estremo Oriente, con il singolo del secondo disco, “Motorcycle Man”, piazzato stabilmente nella classifica giapponese per ben sei mesi.

Alla metà del 1981 la band cambia studi di registrazione, passando dai Ramport di Londra agli Aquarius di Ginevra, in compagnia del produttore Nigel Thomas. In uscita a settembre, Denim And Leather è dedicato a tutti i metalheads emersi agli inizi degli anni 80, generalmente vestiti con jeans denim e giubbini di pelle da motociclista. La band vuole così identificarsi con i suoi stessi fan, per ridefinire ancora di più l’estetica musicale e culturale della NWOBHM. Il disco chiude una superba trilogia dell’heavy-metal, a chiusura di un ciclo irripetibile durato un anno e mezzo.
Il nuovo anthem è sicuramente “Princess Of The Night”, anomala dichiarazione d’amore verso un treno a vapore, trascinata da un riff assassino sulla sezione ritmica indiavolata. Il canto melodico di Byford scolpisce il brano che ottiene un grandissimo successo in America, diventando in breve tempo uno dei capisaldi del genere. L’album è praticamente racchiuso tra due confini manifesto, come la chiusura affidata al perfetto British-sound della title track, appunto dedicata alla liberazione personale permessa dal nuovo look. Continua il lavoro egregio delle chitarre in continua sovrapposizione, con l’introduzione della parte corale finale, che diventa un inno ai capelloni della musica dura.
Incastonato tra due instant-classic, il nuovo materiale registrato dai Saxon resta di altissimo livello, dal riff stradaiolo di “Out Of Control” al boogie supersonico “Rough And Ready” in odore di Deep Purple. Se “Fire In The Sky” torna con eccitazione alle sonorità tipiche dello speed-metal, “Midnight Rider” omaggia la storia on the road raccontata dalla Allman Brothers Band. Dall’esperienza live al festival Monsters Of Rock, “And The Bands Played On” sostituisce il classico riff con un pregevole assolo a costruire un’altra pietra angolare per i fan della band. Mentre “Never Surrender” si lancia come un carrarmato con il suo ritmo uptempo infuocato, “Play It Loud” riprende ancora la lezione dell’hard-rock per consegnare il definitivo tema sull’heavy-metal.

Potere e gloria

Uscito nel settembre 1981, Denim And Leather bissa il successo dei due dischi precedenti, salendo in nona posizione nella classifica Uk. L’album ottiene un grande riscontro commerciale anche in Germania, aggiudicandosi ancora una volta il disco d’oro. Per i Saxon è un momento magico, supremi alfieri dell’heavy-metal prima di band come Def LeppardJudas Priest e Iron Maiden. Ma il destino è beffardo, perché il batterista Pete Gill è costretto a fermarsi a causa di un incidente alla mano, poco prima di iniziare un nuovo lungo tour tra Stati Uniti ed Europa. Per evitare pericolose perdite di tempo, Byford e soci lo sostituiscono con il quasi trentenne Nigel Glockler, nativo di Hove, East Sussex. Nigel ha iniziato a suonare nei Krakatoa, passato poi ai Toyah, band new wave capitanata dalla cantante Toyah Willcox. Quando viene chiamato per le prove in studio, ha pochissimo tempo per prepararsi al lungo tour che aspetta i Saxon, praticamente deve imparare tutto il set in un giorno e mezzo.
È però un’impresa che darà grandi soddisfazioni, perché nel 1982 i Saxon hanno invitato Ozzy Osbourne in apertura, primo gruppo a suonare per due volte al Monsters Of Rock nell’estate del 1982. Durante diverse date del tour europeo vengono organizzate le registrazioni di quello che per la band dovrà essere un doppio album dal vivo, poi ridotto a disco singolo tra grandi proteste nei confronti dei dirigenti della Carrere. Certa stampa britannica non vede l’ora di scagliarsi contro The Eagle Has Landed, pensato dall’etichetta come un semplice greatest hits dal vivo e proprio per questo incredibilmente manchevole di alcuni anthem della band. Abituati ai grandi dischi live negli anni 70, sia giornalisti che fan restano perplessi dalla scelta di lasciare fuori diverse hit ritenute obbligatorie.
Accolti dalla folla in estasi, sul rombo dei motori, i Saxon si lanciano a tutta manetta sull’eccitante “Motorcycle Man”, sicuramente tra le versioni migliori sul disco, tra il ritmo serratissimo della batteria di Glockler e le sfuriate elettriche di Oliver/Quinn. Convincenti e grintose anche le versioni di “747 (Strangers In The Night)” e “Princess Of The Night”, eseguite a mille all’ora a catturare l’essenza live della band. Se “Strong Arm Of The Law” si limita al compitino, la versione di “Heavy Metal Thunder”, pur serratissima, non restituisce su disco l’immane potenza dell’originale.
Sul secondo lato c’è spazio per l’ultima fatica in studio, da “Never Surrender” a “Fire In The Sky” - manca clamorosamente la hit “And The Bands Played On” che verrà inclusa come bonus track solo oltre vent’anni dopo - ma soprattutto per l’epica “Wheels Of Steel”, proposta in una durata allungata di circa nove minuti, a testimonianza della fortissima unione tra band e pubblico.

Trascinata dalle infuocate rotazioni sulla neonata Mtv, la nuova ondata dell’heavy-metal britannico sbarca negli Stati Uniti, quando diversi video dall’album dei Def Leppard, “Pyromania”, sbancano sul mercato oltreoceano. Nel 1983 i Quiet Riot sono la prima band heavy americana a scalare le classifiche di Billboard, mentre lo Us Festival in California prevede in cartellone un “heavy-metal day” con Ozzy Osbourne, Van Halen, Scorpions, Mötley Crüe e Judas Priest.
È un successo incredibile, che trascina il mercato statunitense dei dischi più duri da una quota dell’8 a una del 20%. Nascono diverse riviste dedicate al genere, da Kerrang! a Metal Hammer, portando gli editor di Billboard a dichiarare che “Il metal ha allargato la sua audience, non più dominio esclusivo dei teenager maschi, ma anche delle generazioni più adulte e del pubblico femminile”.
I Saxon decidono così di registrare per la prima volta negli States, agli Axis Sound di Atlanta, con l’esperto produttore Jeff Glixman, già al lavoro con Kansas, Kiss e Gary Moore. Le sessioni iniziano nell’autunno 1982, mentre la Carrere pregusta il botto commerciale per la primavera dell’anno successivo.

Power & The Glory viene così trascinato dall’omonimo singolo, anticipazione del power-metal più lirico sul rullare furente del nuovo arrivato Nigel Glockler. Il disco è però macchiato da una produzione zoppicante, rilasciando un suono come ovattato per tutta la sua durata di circa 40 minuti. La band continua la sua folle corsa sul riff zeppeliniano di “Redline” e sull’ossessivo ritmo oscuro di “Warrior”, anche questo imparentato alla larga con la sabbathiana “Children Of The Grave”. Sul termine del primo lato, il disco spezza la sua furia con la quasi-ballad “Nightmare”, affidata al canto melodico di Byford ma piuttosto scarica in termini di resa, depotenziata dalle strategie audio utilizzate in fase di registrazione. Finito il giro di boa, l’album riprende con il proto-thrash “This Town Rocks” - a conferma dell’ottima scelta fatta dai Saxon per rimpiazzare Gill alle pelli - ma finisce con l’impantanarsi su un paio di riempitivi: l’hard-rock spensierato “Watching The Sky” e la distorta “Midas Touch”. Grande invece il finale sul basso ipnotico che apre “The Eagle Has Landed”, poi condotta dall’eterea chitarra blues in una sorta di nera processione progressive-metal.

Sailing to America

Power & The Glory
è il primo successo commerciale dei Saxon negli Stati Uniti, entrando (anche se basso) nella Billboard 200 verso l’estate del 1983. In patria ottiene la quindicesima posizione, arrivando invece al primo posto nelle classifiche dedicate al metal in Svezia, Francia e Germania. L’album vende oltre un milione e mezzo di copie in tutto il mondo, anche se la critica si divide tra chi esalta un nuovo capolavoro della band e chi intravede un primo declino artistico. I Saxon si imbarcano in un nuovo tour mondiale, che parte in Europa prima di passare negli Stati Uniti in compagnia di Iron Maiden e Fastway. Trascinato dalle vendite copiose nell’area losangelina, il gruppo si chiude dopo pochi mesi nei Sound City Studios nell’area di Van Nuys, con il produttore canadese Kevin Beamish, dall’inizio del decennio al lavoro con Reo Speedwagon e Jefferson Starship.

Pubblicato il 30 gennaio 1984, Crusader minaccia l’ascoltatore fin dalla sua copertina, che riprende una scena da crociata, rivelandosi però più morbido, meno efferato, dei suoi predecessori. Introdotta da corni e cavalli al galoppo, la title track è aperta da un leggero arpeggio di chitarra per poi sfociare in un midtempo melodico. La nuova epica suona però più sbiadita, smorzata nei toni più corali, allontanandosi dal classico stile musicale del gruppo. Se “A Little Bit Of What You Fancy” torna al riff tagliente e veloce in salsa hard-boogie, il ritornello orecchiabile tradisce una strana virata verso i sentieri del glam-rock, esplorati anche nella cover degli Sweet, “Set Me Free”.
Sono poi due i brani che provocano immediato sdegno tra i fan di vecchia data: “Sailing To America” e “Do It All For You” mostrano infatti un arrangiamento Aor, ripieno di morbidezze melodiche ai confini più prossimi al mainstream rock. Probabilmente influenzati dal successo americano, i Saxon abbandonano le efferatezze del British-metal per confezionare brani di Adult rock che fanno storcere il naso a più di un appassionato. La stessa “Just Let Me Rock”, che ripropone i ritmi heavy più cadenzati, vorrebbe essere un nuovo anthem senza averne i mezzi, più simile a certe acconciature tipiche dell’hair-metal. Più incisivo invece il rock’n’roll potenziato “Bad Boys (Like To Rock N' Roll)”, mentre la ruggente “Rock City” sembra fare il verso a certi lavori più furbetti dei Kiss.
Se Crusader è generalmente un disco ben suonato, la crepa che si apre sul finale di “Run For Your Lives” - una vera sciocchezza con inutili e disturbanti cori da stadio - è un campanello d’allarme per una band che sembra improvvisamente seduta sugli allori della fama planetaria.
Nonostante le prime critiche piovute da fan e critica, i Saxon piazzano ancora un numero uno in diversi paesi europei, scalando le classifiche sia in patria che negli States. Crusader vende due milioni di copie, aprendo un nuovo tour mondiale che nella leg americana vede come ospiti gli Accept, mentre la band supporta in alcuni show i Mötley Crüe. Ingolositi dal crescente successo, Byford e soci decidono di non rinnovare il contratto in scadenza con la Carrere, optando per il grande salto tra le braccia di una major molto più potente, la Emi. Fondata nel 1972 come flagship label nel Regno Unito, la Emi Records ha sbancato con band di successo planetario come i Queen ed è anche l'attuale etichetta degli Iron Maiden, che nel frattempo hanno strappato proprio ai Saxon lo scettro di best act nel movimento NWOBHM. Firmato il nuovo contratto, la band si mette subito al lavoro con il produttore Simon Hanhart agli Union Studios di Monaco di Baviera, in vista della pubblicazione di un nuovo album nel settembre 1985.

Quando esce sul mercato, Innocence Is No Excuse divide gli addetti ai lavori ancor più di Crusader, tra chi punta il dito verso una deriva commerciale per compiacere gli ascoltatori statunitensi e chi parla di un lavoro ben confezionato, pur lontano dagli standard del biennio 1980-1981. Il disco dimostra che hanno ragione entrambi, ponendo la verità sulla classica linea mediana.
Si parte con la ruffiana “Rockin’ Again”, che abbraccia uno stile epico da grandi arene, sulla falsariga del rock duro made in America. “Call Of The Wild” non rinuncia al classico gusto del riff potente, pur arrangiato in una veste sonica più commerciale per compiacere il pubblico a stelle e strisce. La nuova direzione porta sicuramente a cose buone, come la ruggente “Back On The Streets”, che esprime il desiderio della band di tornare in contatto con la strada e dunque con i fan di vecchia data che rumoreggiano. Se “Devil Rides Out” risulta eccessivamente patinata con il suo assolo gigioneggiante, “Rock 'n' Roll Gypsy” torna all’accoppiata vincente tra il riff stradaiolo e il refrain epico, sull’esplosività segnata da dischi come Denim And Leather.
Tra i brani più espliciti nel nuovo corso, la struggente ballata “Broken Heroes” dedicata ai soldati americani in Vietnam, con il suo chorus da heavy-rotation su Mtv che di fatto divide fan e critica. Mentre “Gonna Shout” fa il verso agli Spinal Tap, “Everybody Up” mixa il veloce ritmo marziale con il ritornello melodico. Sempre sul filo della totale deriva commerciale, i Saxon riescono comunque a salvarsi in calcio d’angolo, sul riff tonitruante di “Raise Some Hell” e il rock’n’roll muscolare della conclusiva “Give It Everything You've Got”.

Innocence Is No Excuse non riesce a bissare il successo commerciale del precedente Crusader, fermandosi alla posizione 133 sulle 200 disponibili nella classifica americana di Billboard. Nell’autunno 1985, i Saxon si imbarcano in un gigantesco tour mondiale da tutto esaurito, ma le tensioni interne al gruppo crescono, portando Byford e compagni a litigare per le cose più stupide. Il vaso trabocca quando il bassista Steve Dawson viene licenziato, anche se alcune voci parlano di pressioni ricevute dalla moglie ormai stanca di vederlo sempre lontano da casa. L’allontanamento dello storico bassista porta temporaneamente Byford a suonare uno strumento già provato in passato, quando la band si ritrova a fine tour negli studi Wisseloord, nei Paesi Bassi, per registrare il secondo disco Emi con il produttore Gary Lyons.

Rock The Nations tenta di ristabilire le regole classiche del movimento NWOBHM, con arrangiamenti più ruvidi e meno commerciali dell’album precedente. A partire dal grezzo riff della title track, il sound della band risulta paradossalmente ancora più fiacco, cadendo nella ripetizione - se non nel cliché - in brani pseudo-epici come “We Came Here To Rock” e “Running Hot”. Con l’evidente mancanza di un basso adeguato, il gruppo spinge sul formato ballad Aor in “Waiting For The Night”, mentre “Northern Lady” torna a più emozionanti melodie elettro-acustiche dal gusto seventies, anche grazie al piano verticale dello special guest Elton John. Il cantautore inglese viene invitato dalla band a suonare in due brani del disco, dato che sta registrando negli stessi studi olandesi il suo “Leather Jackets”. La collaborazione frutta anche la divertente “Party 'Til You Puke”, che inizia in formato jam improvvisata per scatenarsi in un rock’n’roll tritatutto. È però troppo poco per celebrare un intero album che manca di verve in brani-riempitivo come “Battle Cry” e “You Ain't No Angel”.

S.O.S.

Nonostante il vuoto creativo in Rock The Nations, i Saxon riescono a piazzare ancora un disco nelle zone che contano, fino alla posizione 31 nella classifica inglese degli album metal più venduti. Già inserito nei credits dell’ultimo album, il bassista Paul Johnson viene arruolato al posto di Dawson in vista dell’imminente tour europeo, che include il prestigioso Reading Festival. Praticamente svuotati da quasi dieci anni tra costanti tour e sessioni di registrazione, Byford e soci decidono di prendersi una mezza pausa nel 1987, limitandosi a un breve giro di concerti in Nord America. All’inizio dell’anno devono fronteggiare l’addio del batterista Nigel Glockler, attirato dalla possibilità di lavorare con due mostri sacri, Steve Howe e Steve Hackett, al progetto progressive GTR. Viene così arruolato alle pelli Nigel Durham, che ha da poco collaborato proprio con Steve Dawson negli U.S.I..
In primavera iniziano così le registrazioni negli studi Sarm Hook End, nel Berkshire, con un nuovo produttore, Stephan Galfas, che ha lavorato con artisti molto diversi tra loro, da Cher alla Allman Brothers Band. L’obiettivo non troppo celato della Emi è di far fruttare al meglio i Saxon, che di fatto stanno perdendo consensi, non essendo nemmeno riusciti a conquistare davvero il pubblico americano. La band è così sottoposta a enormi pressioni da parte della major, che vuole assolutamente un suono radio-friendly.
Il risultato, Destiny, è un autentico naufragio artistico, ironicamente sottolineato dalla deriva pop-metal ispirata alla vicenda del Titanic, “S.O.S.”. Aperto da una cover sotto sedativi della hit di Christopher Cross “Ride Like The Wind”, il disco presenta pochissimi spunti degni di nota, forse solo la successiva “Where The Lightning Strikes” che torna a un dignitoso hard-rock. Fallimentari le ballate “I Can't Wait Anymore” e “Song For Emma” - quest’ultima scritta con lo stesso produttore Stephan Galfas - imbottite di effetti atmosferici e melodie sintetizzate. Brani più aggressivi e stradaioli come “Calm Before The Storm” e “Jericho Siren” sono in realtà versioni sotto melassa dei vecchi ritmi heavy-metal, più vicini a certi ultimi lavori dei Whitesnake dopo la svolta hair. Il gruppo ci mette anche il giusto impegno - rivitalizzante la serrata “For Whom The Bell Tolls” - ma viene inevitabilmente risucchiato dalla pressione della Emi, che lo porta a snaturarsi completamente verso un metal plasticoso, vuoto.
Uscito nel marzo 1988, Destiny si rivela un fiasco commerciale, mentre i fan dei Saxon sono sempre più allibiti. La conquista dell’America è perduta, così i vertici della Emi abbandonano il gruppo dopo soli tre album. Ancora lacerati da divisioni interne, i Saxon vedono l’avvicendarsi del nuovo bassista Nibbs Carter al posto di Paul Johnson, mentre torna alle pelli Glockler nel bel mezzo del nuovo tour promozionale tra Europa e Stati Uniti. Diverse date nell’Est Europa vengono registrate in previsione di un secondo album dal vivo, testimonianza di un gruppo che fatica ora a riempire gli stadi come prima, soprattutto nei tanto ambiti States.

Dal palco della Budapest Sports Hall, nel maggio 1988, viene fuori Rock'n'Roll Gypsies,prodotto dallo stesso Byford e distribuito dalla Roadrunner Records, l’etichetta olandese fondata nel 1980 da Cees Wessels per focalizzarsi su produzioni hard’n’heavy. La tracklist è avviata da due classici, l’evocativa “Power And The Glory” e quella “And The Bands Played On” diventata negli anni un inno verso i fan. Spazio poi al materiale in studio più recente, dalla corale “Rock The Nations” alla ballad “Broken Heroes”, suonate dal vivo con un approccio più classico rispetto al nuovo Mtv-sound degli ultimi lavori.
A deludere è però la sostanziale assenza di brani che hanno fatto la fortuna dei Saxon, a parte la potente “Dallas 1PM” con un ottimo assolo di Oliver. Se la resa intima di “Northern Lady” riscalda gli animi con l’intensa performance vocale di Byford, esecuzioni come quella di “The Eagle Has Landed” e “Just Let Me Rock” sottolineano come i Saxon siano incastrati in un limbo d’incertezza, tra la gloria del passato e la tremenda difficoltà nel capire come andare avanti.

Can’t Stop Rockin’

Alla fine degli anni 80, senza un contratto discografico, il futuro dei Saxon è decisamente incerto. Con un miracoloso colpo di coda, il management della band decide di organizzare il 10 Years of Denim and Leather Tour, un lungo giro di concerti in Europa nel tentativo di ristabilire una connessione con i fan del Vecchio Continente dopo il disastro della campagna americana. Vengono così rispolverati i grandi classici dei primi album, raccolti in un Greatest Hits Live che esce su etichetta Castle nel settembre 1990. Dalla furiosa potenza di “Heavy Metal Thunder” e “20,000 Ft” alle irresistibili hit stradaiole “Motorcycle Man” e “Wheels Of Steel”, il disco restituisce agli ascoltatori la vecchia essenza dei Saxon, ben racchiusa in quasi un’ora e un quarto di musica. Mentre il pubblico canta il classico “happy birthday to you”, il ripescaggio di brani storici come “747 (Strangers In The Night)” e “See The Light Shining” è una carta decisamente più vincente di quella giocata con l’ultimo live album.
Dato il successo inatteso del tour celebrativo di Denim And Leather, il management del gruppo strappa un nuovo contratto discografico alla Virgin Records, collezionista seriale di dischi di platino grazie a nomi come Genesis e Culture Club. Il gruppo vola ad Amburgo, ai Karo Studios, per lavorare con il produttore tedesco Kalle Trapp, riconosciuto a livello europeo come uno dei principali architetti dello stile power-metal. La band decide di affidare al nuovo bassista Nibbs Carter il compito di aiutare in fase compositiva, nel tentativo di rinascere con uno stile più fresco e aggressivo.

All’inizio del 1991 esce così Solid Ball Of Rock, aperto dal riff epico della title track, scritta da Bram Tchaikovsky con Micki Broadbent tra eco power-pop e trame sintetizzate. Se l’inizio sembra il preludio a un altro lavoro commerciale, il marziale ritmo thrash di “Altar Of The Gods” è la prima buona prova in cabina di regia per Nibbs Carter. “Requiem (We Will Remember)”, scelto come singolo a promuovere l’album, è un riuscitissimo ritorno al formato anthemico dell’heavy-metal, con il suo andamento cavalcante sul canto intenso di Byford. Mentre “Lights In The Sky” lavora sul ritornello più catchy, “I Just Can't Get Enough” ripercorre il sentiero più classico dell’hard-rock in stile Ac/Dc. Altro brano cardine del disco è “Baptism Of Fire”, ancora scritto da Carter per sfoderare un ritmo rovente a dimostrare che i Saxon sono ancora vivi sul panorama NWOBHM.
Su brani assolutamente godibili come la zeppeliniana “Ain't Gonna Take It” viene così costruito un disco solido come il suo stesso titolo, dopo diversi tentativi andati a vuoto dalla metà degli anni 80. È probabilmente presto per decretare il ritorno ufficiale della band nell’Olimpo dell’heavy-metal, ma diverte il rock'n'roll scanzonato di  “I'm On Fire”, seguito da interessanti sperimentazioni progressive in “Overture In B-Minor/Refugee”. Rivitalizzati dalle idee del nuovo bassista, i Saxon riescono così a riprendere la giusta rotta dopo aver navigato a vista, tornando in classifica in paesi storicamente affezionati come la Germania.

La rinascita del gruppo viene certificata dal successivo Forever Free, registrato in parte a Vienna con l’aiuto del produttore Herwig Ursin, che esce nella primavera del 1992. I Saxon hanno finalmente capito che il tentativo di imitare band come i Def Leppard per conquistare gli States è andato fallito e sono pronti allora a tornare a quel sound grezzo e potente che li ha definiti fin dalla fondazione. A partire dal riff al fulmicotone della title track, il gruppo ritrova il piacere di suonare brani diretti e asciutti, come da migliore tradizione del British metal. Brani come “Hole In The Sky” rispolverano con una verve di freschezza le grandi cavalcate di un tempo, con il basso poderoso di Carter a dialogare con le chitarre gemelle di Quinn e Oliver. La macchina sforna-riff accelera sulla strada del blues con la cover di “Just Wanna Make Love To You” (Willie Dixon), sterzando sull’hard-rock'n'roll in “Get Down And Dirty”. Di grande impatto emotivo poi la folk-ballad in stile seventies “Iron Wheels”, dedicata da Byford al padre minatore con alta densità di arpeggi medievaleggianti.
Il disco scivola con estrema gradevolezza sui numeri più speed-metal (“One Step Away”, “Nighthunter”), persino sorprendendo con il funk ipervitaminizzato “Grind”, furbescamente pensato per compiacere le scalette radiofoniche. Ma è un peccato di poco conto, perché in definitiva Forever Free segna il grande ritorno di una band finalmente redenta e capace ancora di sfornare musica ad altissimo voltaggio.

Rinvigoriti dalle critiche positive tra gli addetti ai lavori, i Saxon girano il mondo in tour, dal momento che i proventi dai concerti superano quelli ottenuti dalla vendita dei dischi, con un certo disappunto da parte della Virgin. Cavalcando l’onda della rinnovata creatività, il gruppo torna a registrare tra Boston (Lincolnshire) e Manchester, con il produttore Rainer Hänsel supportato in fase di missaggio dalla ormai vecchia conoscenza Kalle Trapp. Lo stesso Hänsel viene inserito nei credits come special guest alla chitarra, sul successivo Dogs Of War che esce solo nel settembre 1995, a ben tre anni di distanza dal fortunato Forever Free.
Il terzo disco dell’era Virgin non delude le aspettative dei fan dei Saxon, a partire dalla tonitruante cavalcata nella title track, che suona come un vero instant classic nel repertorio della band. Byford torna a lavorare egregiamente alla voce nella successiva “Burning Wheels”, trascinata da un riff retrò degno dei migliori album negli anni 80. Se “Don't Worry” vira verso un affascinante hard-blues dal ritornello melodico, “Big Twin Rolling (Coming Home)” torna all’elettricità del boogie di strada. Il disco è il frutto di un ottimo momento creativo dopo l’introduzione di Carter al basso e il ritorno di Glockler, dal solido midtempo “Hold On” - in forte odore di Aor - al ritmo rallentato e oscuro di “The Great White Buffalo”. Tra effetti distorti, “Demolition Alley” trasuda un’energia tipicamente metal, arrampicandosi sul classico sound in stile Ac/Dc.
L’album non è esente da piccoli difetti - ad esempio, la marziale “Walking Through Tokyo” è un mero riempitivo - ma i Saxon riescono a mettere la giusta concentrazione per sfoderare un set di nuove canzoni godibili e fresche, come “Give It All Away” che sfodera il riff più granitico o la conclusiva “Yesterday's Gone”, ammaliante tra i vocalizzi armonici di Byford e le scale chitarristiche in frenetico dialogo.

La sottile linea rossa

Mentre Dogs Of War ottiene buone recensioni tra gli addetti ai lavori, scalando le classifiche in Germania e Svizzera, un violento terremoto sconvolge la formazione dei Saxon. Graham Oliver viene licenziato con un’accusa pesante: avrebbe “rubato” tutti i proventi dalla vendita non autorizzata di un bootleg con la registrazione del live al Monsters Of Rock, risalente al 1980. Byford è su tutte le furie e lo vede come un alto tradimento, così il chitarrista viene allontanato dalla band e sostituito da Doug Scarratt poco prima dell’inizio di un nuovo tour promozionale.
Nato a Hove, East Sussex, nel 1959, Scarratt ha iniziato a suonare la chitarra all’età di 12 anni, finito a lavorare come designer grafico dopo l’università, in mancanza di progetti musicali solidi per guadagnarsi da vivere. A proporlo come rimpiazzo di Oliver è Nigel Glockler, suo amico e vicino di casa, attirato dal suo stile chitarristico più aggressivo e improntato allo sfoggio tecnico. Mentre c’è chi sostiene che Oliver sia andato via per incomprensioni sul futuro artistico del gruppo, Scarratt entra nei Saxon per portare un maggiore peso in termini compositivi, così come fatto da Carter da Solid Ball Of Rock in poi. Su insistenza di Glockler, Doug viene accettato dai restanti membri del gruppo, incidendo subito la cover di “You've Got Another Thing Comin'” per il progetto “A Tribute To Judas Priest Legends Of Metal vol.1”, uscito nel 1996.

In estate, la Virgin pubblica un altro live album, questa volta doppio, intitolato The Eagle Has Landed – Part II, registrato in Germania durante l’ultimo tour europeo. A partire da “Dogs Of War” appare subito evidente il nuovo approccio da parte di Scarratt, più aggressivo e improntato alla tecnica di quello di Oliver. Da “Forever Free” a “Requiem (We Will Remember)” c’è ampio spazio per il materiale più recente dell’era Virgin, suonato dal vivo a mille all’ora grazie a una line-up svecchiata. Pur appoggiandosi a brani riusciti, il doppio disco soffre della mancanza dei classici, a parte “Denim And Leather”, con lo special guest Yngwie Malmsteen alla chitarra, e l’ottimo medley finale “Wheels Of Steel/ Demolition Alley”.
Mollati dalla Virgin, nonostante il rilascio di album sopra la media dalla firma sul contratto agli inizi dei Nineties, i Saxon vengono accolti nella scuderia della Cmc International. Fondata come etichetta indipendente dagli imprenditori Bill Cain e Tom Lipsky, la label americana è da diversi anni alla continua ricerca di band dure, volendo arricchire a tutti i costi il suo catalogo hard’n’heavy. La formazione di Byford è perfetta per un rilancio in terra statunitense, ma prima serve ovviamente un nuovo disco da portare in tour.

Registrato ai Karo Studios di Brackel, Germania, con il fido produttore Kalle Trapp, Unleash The Beast è il primo lavoro con la nuova line-up dopo l’addio di Oliver. L’entusiasmo del nuovo chitarrista Doug Scarratt, che accetta senza problemi la leadership sempre più forte di Byford, porta il gruppo inglese verso una terza era, con l’obiettivo di rilanciarsi definitivamente anche sul mercato a stelle e strisce. Come il gargoyle dagli occhi iniettati di sangue sulla copertina maideniana firmata da Paul Gregory, la band promette fuoco e fiamme, introducendo a livello musicale elementi più oscuri.
Aperto dagli effetti notturni in acustico di “Gothic Dreams”, il disco mette le cose in chiaro fin dalla sua title track, improntata a principi di velocità e compattezza, come a rimarcare un ritorno deciso ai fasti del NWOBHM. Come nel riff priestiano della successiva “Terminal Velocity”, il gruppo lucida il marchio Saxon, abbandonando una volta per tutte ogni velleità commerciale o radiofonica. Se ci dovrà essere una ripresa sul mercato americano, sarà alle condizioni della stessa band, liberata ormai dalle grinfie delle esigenti major. E così “Circle Of Light” accarezza l’epicità strumentale, mentre “The Thin Red Line” ritrova il giusto pathos con il suo ritornello ormai diventato marchio di fabbrica. I Saxon sembrano davvero divertirsi sull’ariosa e melodica “Ministry Of Fools”, trovando anche nuove vie soniche più malinconiche e oscure, come in “The Preacher”. Dalla graffiante velocità di “Bloodletter” al martellare plumbeo della monolitica “Cut Out The Disease”, il disco è come una rinascita, un rifiorire sulla bellezza acustica della ballad “Absent Friends”.
Il tour di Unleash The Beast parte in Europa, dove il disco scala le classifiche in paesi come Svezia e Germania, prima di spostarsi in Sudamerica - con una data sold-out a San Paolo in Brasile - e concludersi in Belgio con uno show di Natale. La band riparte subito agli inizi del 1998, calcando i palchi statunitensi per poi tornare in Brasile all’edizione locale del Monsters Of Rock, con Slayer e Megadeth. Nigel Glockler stringe i denti e termina il nuovo estenuante tour, sostituito temporaneamente da Fritz Randow a causa di un fastidioso problema muscolare a collo e spalle.

Nel frattempo è uscito Donnington: The Live Tracks,disco live semi-ufficiale pubblicato legalmente dall’etichetta Angel Air per documentare l’ormai storica esibizione a Castle Donington durante il Monsters Of Rock, il 16 agosto 1980. Al centro delle polemiche interne che hanno portato all’allontanamento di Oliver, l’album sarà ripubblicato dalla Polydor tre anni dopo con il nuovo titolo Live At Donnington 1980.
Dall’esplosiva “Motorcycle Man” ai primissimi brani della band, “Still Fit To Boogie” e “Stallions Of The Highway”, l’energia sprigionata dai Saxon sul palco inglese è devastante, purtroppo rovinata dalla scarsa qualità dell’audio.

Il gruppo di fatto disconosce il disco, puntando invece sul successivo Bbc Sessions/ Live At Reading Festival '86, pubblicato dalla Emi e diviso in due parti. La prima documenta un’esibizione datata febbraio 1980 al Friday Rock Show, celebre programma radiofonico in onda sulle frequenze di Bbc Radio 1. Rispetto alla resa del live al Monsters Of Rock, la scaletta dello show per il format condotto da Tony Wilson è decisamente più elettrizzante, con una versione al fulmicotone di “20,000 Ft.” e una “Dallas 1 PM” serratissima dallo Studio B15 nel maggio 1982. La seconda parte dell’album è registrata dal palco del Reading Festival (1986), aperta dall’epica “Power And The Glory” per poi offrire due versioni incendiarie delle hit più famose, da "Wheels Of Steel" a “Strong Arm Of The Law”.

La battaglia delle teste di metallo

Registrato ancora una volta in Germania, con l’ingegnere del suono Charlie Bauerfeind, il nuovo album dei Saxon si intitola Metalhead e viene pubblicato dall’etichetta indipendente tedesca SPV alla fine del 1999. È il primo lavoro della band con il nuovo batterista Fritz Randow, subentrato a Glockler a causa dei suoi problemi muscolari. A oltre due anni di distanza da Unleash The Beast, il nuovo album di Byford e soci punta su sonorità durissime, a partire dal cupo ritmo thrash della title track.
Il nuovo materiale è avvolgente, scandito dalle rasoiate regali di “Are We Travellers In Time” e impreziosito da affreschi acustici arabeggianti nella serratissima “Conquistador”. Non mancano momenti più melodici, questa volta senza inciampi commerciali, come “What Goes Around”, mentre la furente “All Guns Blazing” soddisfa i palati più esigenti con un rinnovato vigore strumentale. Il disco suona infatti come un regalo per i fan più duri, confezionato da una band tornata a lavorare alla vecchia maniera, tra un riffone militarizzato (“Piss Off”) e il boogie più irresistibile (“Watching You”). E c’è anche spazio per un’autentica gemma, quasi inattesa e incastonata sull’epico finale di “Sea Of Life”, tra rallentamenti vocali e chitarre graffianti.

Metalhead ottiene un buon successo in Germania - arriva al quarantesimo posto della classifica Offizielle Top 100 - portando la band a esibirsi per la prima volta ai festival specializzati in heavy-metal Wacken e Bloodstock Open Air. Galvanizzati dal rinnovato successo, i Saxon pubblicano alla fine del 2001 il nuovo disco Killing Ground, purtroppo penalizzato nella distribuzione negli Stati Uniti a causa di problemi finanziari del partner locale della tedesca SPV. È un peccato, perché i nostri piazzano un altro colpo, a partire dalla title track, che sembra uscita dalle sessioni di Crusader. L’album include la sorprendente cover di “The Court Of The Crimson King”, ovviamente calata nel sound tipico del gruppo, ma perfettamente arrangiata e condotta dalla voce di Byford.
Se “Coming Home” torna a sonorità più hard-rock - con più di un debito nei confronti dei Rainbow - brani come “Hell Freezes Over” ripescano lo stile Ac/Dc per smuovere gli head-banger più spensierati. L’album presenta dei momenti più dimenticabili come le quasi-thrash “Dragon's Lair” e “Deeds Of Glory”, mentre “Shadows On The Wall” alterna melodie corali a strumentazioni epiche. Finale al cardiopalmo con la furba “Rock Is Our Life”, in forte odore di power-metal.
Killing Ground è in definitiva un disco più che onesto, che permette ai Saxon di proseguire il percorso di rinascita dopo le evidenti difficoltà negli anni 80.

Rinati grazie agli ultimi dischi in studio e alla costante attività live, i Saxon devono affrontare una seria minaccia per la propria sopravvivenza, quando gli ex-membri fondatori Graham Oliver e Steven Dawson registrano l’omonimo marchio alla fine degli anni 90. I due si sono infatti accordati per obbligare Byford a rinunciare legalmente al nome della band, scatenando la pronta risposta del cantante che si rivolge ai vertici del Trade Mark Registry per invalidare la richiesta. La tesi degli avvocati di Byford è che Oliver e Dawson hanno ottenuto la registrazione del marchio “in malafede”, in mancanza di accordi con gli altri membri della band. Il caso finisce all’attenzione della High Court londinese, che si esprime a favore di Biff, obbligando Oliver e Dawson a tornare al nome originario di Oliver/Dawson Saxon. Il gruppo può così continuare a lavorare in serenità, con il nuovo batterista Jörg Michael (ex-Stratovarius) in sostituzione di Fritz Randow, uscito nel 2004.
I Saxon tornano così nei Gems 24 Studio di Boston, Lincolnshire, per registrare ancora con Charlie Bauerfeind il nuovo disco, Lionheart, omaggiando la vita e le gesta di Riccardo I, anche detto Cuor di Leone. L’album si presenta dall’inizio per non fare prigionieri, partendo a razzo con “Witchfinder General”, trascinata a ritmi elevatissimi dalla doppia cassa del nuovo innesto Jörg Michael. Se la successiva “Man And Machine” cade nella trappola di un impianto melodico troppo marcato, la title track è invece un nuovo momento epico in salsa power-metal, esaltato dagli svolazzi vocali di Byford e dalla sezione ritmica marziale a sorreggere le due chitarre in continuo dialogo. È il più puro Saxon-style, che dall’agrodolce “Beyond The Grave” passa con disinvoltura alla velocissima “To Live By The Sword", che mette ancora in mostra il mostruoso lavoro alle pelli del nuovo arrivato.
Il disco scivola gradevole sull’ipnotica "Searching For Atlantis” prima di chiudere l’epica di Riccardo I sul ritmo tipicamente heavy di “Flying On The Edge”. Nonostante l’ottimo lavoro su Lionheart, Jörg Michael viene sostituito nel 2005 dal rientrante Nigel Glockler, che raggiunge la band nel tour promozionale del nuovo disco. Viene così pubblicato un altro album dal vivo, The Eagle Has Landed – Part III, contenente diverse registrazioni dai concerti europei, tra il festival di Wacken, Londra, Parigi e Amburgo.

Stato di grazia

Nel 2007 i Saxon sono protagonisti di una puntata del nuovo programma inglese Get Your Act Together, in onda sulle frequenze di Channel 4 con l’obiettivo di restituire nuova linfa vitale a band dimenticate. A condurre le prime sei puntate è il promoter musicale Harvey Goldsmith, noto al grande pubblico per aver contribuito a organizzare importanti show del rock come quelli del Teenage Cancer Trust o del Live Aid. Goldsmith invita i Saxon a registrare il singolo contro le armi “If I Was You”, un mix tra ritmiche heavy e riff più tipicamente hard-rock per una resa catchy in stile Bon Jovi. Il brano ha un successo sorprendente, arrivando al primo posto delle Rock Charts in dieci paesi, il più importante colpo commerciale della band in quasi quindici anni.
La combo apparizione televisiva e singolo spacca-classifiche permette al gruppo di rinascere nel Regno Unito, trascinando le vendite del nuovo album The Inner Sanctum, che in primavera arriva addirittura al quarto posto della Uk Rock & Metal Albums Chart. Ancora prodotto con Charlie Bauerfeind, il disco è aperto dal trittico “State Of Grace”, “Need For Speed” e “Let Me Feel Your Power”, che porta il sound dei Saxon verso una nuova era, più vicina alla contemporaneità del thrash melodico. Il “vecchio” Glockler sembra non aver perso un colpo nei suoi anni di assenza, conducendo alla grande la sezione ritmica robusta e serrata. Con il nuovo tastierista aggiunto Matthias Ulmer, il gruppo prova a svecchiare il Saxon-sound dopo il successo del singolo “If I Was You”, ovviamente incluso nel disco per trascinarne le vendite. “Red Star Falling” è la nuova ballad atmosferica e ipnotica a ricalcare i fasti di “Dallas 1 PM” e “Broken Heroes”, mentre brani come “I've Got To Rock (To Stay Alive)” e “Going Nowhere Fast” puntano all’effetto vintage, proponendo un semplice e diretto hard-rock in chiave Ac/Dc e Led Zeppelin. L’energia sprigionata è contagiosa, alimentata dal riff cadenzato di “Ashes To Ashes” e definitivamente sprigionata dalla nuova epicità storica nella orientaleggiante “Atila The Hun”. Con The Inner Sanctum i Saxon dimostrano di essere una band viva e vegeta, all’alba della terza decade di carriera.

Il successo del nuovo album porta a un tour mondiale dall’estate del 2007, che include una grande esibizione al Download Festival a Donington Park. Tra le varie date viene concepito Into The Labyrinth, che esce nel gennaio 2009 per provare a bissare il successo commerciale. I Saxon fanno centro ancora, arrivando al sesto posto in patria e riuscendo a vendere oltre mille copie negli Stati Uniti in una sola settimana. Il disco è in sostanza un gradito ritorno ai fasti della NWOBHM, incentrato su brani cardine come “Battalions Of Steel” e “Valley Of The Kings”. “Live To Rock” e “Slow Lane Blues” fanno invece riferimento agli stilemi più classici dell’hard-rock iper-vitaminizzato, mentre in “Demon Sweeney Todd” riecheggia un gusto insolitamente goth-dark.
I Saxon ammorbidiscono il sound in “Voice”, condotta da un arrangiamento ai limiti del grunge, prima di far esplodere il nuovo riff sabbathiano “Protect Yourselves”. “Hellcat” accelera furiosamente sullo speed-metal, aprendo all’anthem da universo fantasy “Come Rock Of Ages (The Circle Is Complete)”. Chicca finale la versione acustica di “Coming Home”, intarsiata dal bottleneck sul cantato bluesy di Byford.
Into The Labyrinth bissa così il successo di critica e pubblico del precedente The Inner Sanctum, portando la band a girare nuovamente il mondo, incluso un tour inglese con gli amici Motörhead. Alla fine del 2009 esce il documentario “Heavy Metal Thunder - The Movie”, seguito dall’esibizione trionfale al Download Festival dove viene suonato tutto il disco Wheels Of Steel a trent’anni dalla pubblicazione.

All’inizio del 2011 i Saxon lavorano alacremente tra i Chapel Studios nel Lincolnshire e i Brighton Electric Studios, con il nuovo produttore Toby Jepson, cantante e chitarrista del gruppo scozzese Gun. Biff Byford annuncia alla stampa di settore che il prossimo album sarà un ritorno alle origini della band, a un sound “working-class”, invitando i fan a presentarsi in studio di registrazione per essere coinvolti direttamente come coristi. Le sessioni sono così intense che i Saxon decidono di rinunciare all’esibizione al festival australiano Soundwave, completamente assorbiti da quello che sarà il primo album sulla propria etichetta Militia Guard Music.
Call To Arms esce nel giugno 2011 e segna effettivamente un grande ritorno alle radici soniche del gruppo, interrompendo di colpo il processo di modernizzazione avviato con gli ultimi due lavori. Si inizia con l’urgente ritmo thrash di “Hammer Of The Gods”, subito contraddistinto da una ritrovata compattezza negli arrangiamenti. L’effetto vintage non delude gli ascoltatori più contemporanei nella “Back In 79” cantata con gli stessi fan del gruppo, a rinverdire i fasti di Denim And Leather. Byford e soci tornano effettivamente a un sound duro e puro, come nella veloce “Surviving Against The Odds” o sul riff affilatissimo di “Chasing The Bullet”. Il disco rallenta sull’epicità atmosferica di “Mists Of Avalon”, impreziosita dalle tastiere dell'ospite speciale Don Airey (Deep Purple, Rainbow), prima di virare verso il formato ballad nella struggente title track sull’amore tra un soldato e la sua compagna lontana. Citando la zeppeliniana “Kashmir”, “When Doomsday Comes” ammicca con potenza alle sessioni di Innocence Is No Excuse, mentre “Ballad Of The Working Man” è pura NWOBHM aggiornata al nuovo decennio dei 2000.

Guerrieri della strada

Call To Arms
ottiene un ottimo successo commerciale, arrivando al sesto posto della classifica inglese degli album rock e metal più venduti. A promuovere il disco ci pensa un nuovo tour mondiale, che vede i Saxon supportare i Judas Priest nella data all’Hammersmith Apollo di Londra a maggio 2012. Nello stesso periodo esce, in formato cd e Dvd, il disco Heavy Metal Thunder - Live: Eagles Over Wacken, che raccoglie diverse esibizioni della band all’ormai imperdibile festival tedesco.

Nel 2013 viene dato alle stampe il nuovo album Sacrifice, prodotto con il chitarrista Andy Sneap (Sabbat, Hell), annunciato come naturale successore di Call To Arms. Introdotto dalla breve marcia tribale “Procession”, il disco è incentrato sulla title track, brano estremo ma quadrato, più vicino al metal tedesco che a quello della vecchia guardia inglese. E infatti Sacrifice suona parecchio differente da Call To Arms, più efferato e improntato alla velocità. “Warriors Of The Road”, ad esempio, è puro speed-metal d’assalto, mentre “Guardians Of The Tomb” punta su un ritmo roccioso, arricchito dal ritornello in salsa epic. Nulla di particolarmente originale, ma i Saxon suonano con onestà e vanno dritti al punto, supportati da un ottimo lavoro in fase di produzione. Impreziosita da chitarre Irish, “Made In Belfast” pompa nelle casse con quella convinzione che solo le band navigate possono avere.
Il disco è però meno convincente del suo predecessore: se “Stand Up And Fight” suona particolarmente scontata, “Walking The Steel” scade nell’ormai banale richiamo del riff hard-rock. Meglio la marzialità di “Night Of The Wolf”, interrotta dall’intermezzo di folk acustico prima dell’assolo centrale.
Sacrifice si guadagna la pagnotta sul finale arrembante di “Wheels Of Terror” ed è almeno gustoso il ritmo di “Standing In A Queue”, che però paga troppi debiti nei confronti degli Ac/Dc.

Il successo di Sacrifice è buono, ancora una volta è il Regno Unito a premiare una band praticamente rinata negli ultimi anni. I Saxon partono in tour, annunciando alla fine del 2014 un nuovo disco, prodotto ancora con Andy Sneap. Battering Ram viene descritto come un album a metà tra l’heavy-metal e il rock’n’roll, anticipato dal video della title track, nell’ormai inconfondibile Saxon-sound. Inevitabilmente minacciata dal tempo che avanza, la band inglese dimostra di volersi aggrappare con le unghie ai cuori della propria fanbase, mostrando persino una feroce voglia di battere nuovi sentieri sonici come il folklore oscuro in “The Devil's Footprint”. Le stesse tenebre che avvolgono la marcia funebre “Queen Of Hearts”, prima della botta di adrenalina old-style “Destroyer” e dell’ottimo lavoro alle chitarre nella tonitruante “Hard And Fast”.
La doppia cassa di Glockler in “Stand Your Ground” gira a meraviglia, all’interno di un brano dal vago sapore elettronico, mentre “To the End” è funestata da un approccio ancora una volta troppo zeppeliniano. Ma il finale “Kingdom Of The Cross” è una originalissima ballata sperimentale, condotta dalla voce morbida di David Bower (Hell), a narrare un testo di Byford sulla Prima Guerra Mondiale.

Nel 2017 i Saxon si imbarcano in un tour americano con gli UFO, mentre lavorano ancora con Sneap a un nuovo album per l’etichetta Silver Lining Music. Concepito pensando alle divinità della mitologia greca, Thunderbolt è un altro disco onesto, meno violento di Battering Ram, ma comunque quadrato come il riff della sua title track. Byford e soci viaggiano ormai con il pilota automatico, sfornando dischi mai banali e sempre soddisfacenti per gli amanti dell’heavy-metal di marca britannica. La successiva “The Secret Of Flight” è sicuramente una delle tracce più interessanti, un crescendo epico con una grande performance vocale. Notevole anche la marcia oscura “Nosferatu (The Vampire's Waltz)”, impreziosita dall’organo di Corvin Bahn, mentre “They Played Rock And Roll” è il tributo musicale ai Motörhead dopo la tragica scomparsa di Lemmy Kilmister.
Il semi-growl di Johan Hegg (Amon Amarth) accompagna Byford sulla ruggente “Predator”, lasciando a “Roadie's Song” il compito di stemperare i toni sul finale, grazie a un hard-rock abbastanza canonico. Dopo aver scalato ancora le classifiche inglesi, i Saxon avviano un altro tour europeo in compagnia di Diamond Head, Rock Goddess e Magnum, seguito da un giro come supporter dei Judas Priest durante il Firepower World Tour.

Finale?

Nel 2020, in piena pandemia, i Saxon si ritirano nella storica casa di campagna nota come Brockfield Hall, nella contea di York. Dopo gli ultimi dischi di materiale originale, Byford e soci vogliono semplicemente divertirsi omaggiando gli artisti del cuore, quelli che hanno apportato una più significativa influenza alle origini della band. Pubblicato nel marzo 2021, Inspirations è il primo album costituito interamente da cover, a partire da quella di “Paint It Black” (Rolling Stones), in versione (ovviamente) heavy-metal. Nell’elenco scelto dai Saxon non potevano mancare i Led Zeppelin - la versione di “Immigrant Song” è decisamente fedele - mentre è meno scontata la presenza di una versione velocizzata di “Paperback Writer” (The Beatles). Dalla “Evil Woman” (Crow) in chiara versione sabbathiana all’acida “Stone Free” (Jimi Hendrix), il disco è puro divertissement, nel tentativo sincero di aprire il cassetto dei ricordi musicali. Incredibilmente, l’album riesce dove gli ultimi hanno fallito, ovvero arrivare al primo posto della classifica Uk Rock & Metal Albums nella primavera del 2021.

Registrato a cavallo tra il 2019 e il 2020, il nuovo disco Carpe Diem esce all’inizio del 2022 con l’ormai fidata produzione di Andy Sneap. Nelle interviste che anticipano la pubblicazione, Biff Byford ostenta tranquillità: i Saxon non hanno a questo punto alcuna pressione addosso, possono permettersi di registrare dischi solo se ne hanno realmente voglia.
Fin dalla copertina - con due legionari che scrutano le profondità del Vallo di Adriano – l’album segna l’ennesimo ritorno al tipico sound dei Saxon, che si rivela più che mai vintage nell’iniziale “Carpe Diem (Seize The Day)”, tra riff monolitici e aperture melodiche. In “Age Of Steam” l’ascoltatore viene investito da un ritmo furente, mentre la ballad in midtempo “The Pilgrimage” affascina con la sua introduzione liturgica.
Come in parecchi tra gli ultimi album della band, non si parla di perle di originalità, ma di brani eseguiti perfettamente, da parte di una band che sembra un vecchio zio che non smette mai di volerti bene. “Dambusters” e “All For One” sono due cavalcate non affatto scontate, che mettono in evidenza capacità vocali ancora intatte dopo oltre quarant’anni di carriera. In “Remember The Fallen” da apprezzare la vistosa linea melodica sul tema della pandemia da Covid-19, seguita dall’incedere quasi gothic di “Lady In Gray”.
Sul finale, brani come “Living On The Limit” sembrano una sorta di nuovo manifesto artistico: i Saxon non ci pensano proprio a mollare, risponderanno sempre presente al pubblico dell’heavy-metal.
Mentre parte il Seize The Day Tour, Carpe Diem ottiene un successo forse inatteso, arrivando alla posizione diciassette nella classifica generale degli album più venduti nel Regno Unito. Un risultato incredibile dopo gli ultimi anni dove i Saxon hanno cavalcato solo quella di settore, in ambito rock & metal. Nella primavera del 2023 vede la luce un nuovo disco di cover, intitolato More Inspirations, che include artisti non precedentemente omaggiati. Dal basso imponente di “We Gotta Get Out Of This Place” (The Animals) alla versione esplosiva di “Tales Of Brave Ulysses” (Cream), l’album scorre piacevole, ma solo per veri appassionati della band inglese.

All’uscita di More Inspirations segue una notizia shock: tra i membri fondatori dei Saxon, Paul Quinn decide di dire addio alla scena live, esausto per i continui tour in giro per il mondo. Per sostituirlo durante i concerti viene scelto Brian Tatler (Diamond Head), che partecipa attivamente alle sessioni di registrazione del nuovo album Hell, Fire And Damnation, uscito nel gennaio 2024.
Anticipato dalla title track, con un ritmo da rullo compressore sul ritornello melodico, nel classico approccio sonico del gruppo, il disco non delude, ancora una volta. Dal riff oscuro in stile Iron Maiden di “Madame Guillotine” alle velocità thrash di “Fire And Steel” - uno degli unici due brani in cui suona anche Paul Quinn - l’album soddisfa pienamente i palati dei “metallari”. In “There's Something In Roswell” si torna praticamente indietro di decenni sulla cavalcata più canonica dell’heavy-metal, mentre “Pirates Of The Airwaves” rende omaggio al ruvido hard-rock. Vero è che brani come “Witches Of Salem” risultano decisamente manieristici, ma è un peccato che si può perdonare, perché i Saxon continuano a regalare momenti di grande impatto.
Verso i cinquant’anni di carriera, il gruppo inglese lotta ancora come un vecchio leone dell’heavy-metal.

Saxon

Discografia

Saxon (Carrere, 1979)

6

Wheels Of Steel (Carrere, 1980)

8

Strong Arm Of The Law (Carrere, 1980)

8

Denim And Leather (Carrere, 1981)

8

The Eagle Has Landed (Carrere, 1982)

7

Power & The Glory (Carrere, 1983)

7

Crusader (Carrere, 1984)

6

Innocence Is No Excuse (Emi Records, 1985)

6

Rock The Nations (Emi Records, 1986)

5

Destiny (Emi Records, 1988)

4

Rock 'N' Roll Gypsies (Roadrunner, 1989)

5

Greatest Hits Live! (Castle, 1990)

6,5

Solid Ball Of Rock (Virgin Records, 1991)

6,5

Forever Free (Virgin Records, 1992)

7

Dogs Of War (Virgin Records, 1995)

7

The Eagle Has Landed – Part Ii (Virgin Records, 1996)

6

A Collection Of Metal (Emi Records, 1996)
Unleash The Beast (Cmc International, 1997)

7,5

Donnington: The Live Tracks (Angel Air, 1997)

5

Bbc Sessions / Live At Reading Festival '86 (Emi, 1998)

7

Metalhead (Spv, 1999)

7

Burrn! Presents: The Best Of Saxon (Emi, 2000)
Diamonds And Nuggets (Angel Air, 2000)
Killing Ground (Spv, 2001)

6,5

Heavy Metal Thunder (Spv, 2002)
Lionheart (Spv, 2004)

6,5

The Eagle Has Landed – Part Iii (Spv, 2006)

6

The Inner Sanctum (Spv, 2007)

7

Into The Labyrinth (Spv, 2009)

6,5

Call To Arms (Militia Guard Music, 2011)

7

Heavy Metal Thunder - Live: Eagles Over Wacken (Udr, 2012)
Sacrifice (Udr, 2013)

6

Unplugged And Strung Up (Udr, 2013)
St. George's Day Sacrifice Live In Manchester (Udr, 2014)
Battering Ram (Udr, 2015)

6,5

Let Me Feel Your Power (Udr, 2016)
Thunderbolt (Silver Music Lining, 2018)

6

The Eagle Has Landed 40 Live (Militia Guard Music, 2019)
Inspirations (Silver Lining Music, 2021)

6

Carpe Diem (Silver Lining Music, 2022)

6,5

More Inspirations (Silver Lining Music, 2023)

6

Hell, Fire And Damnation (Silver Lining Music, 2024)

6

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