È impossibile parlare di una scena vera e propria, d'altronde in questi frenetici anni Dieci al di fuori del risveglio delle cosiddette “periferie” si è riusciti a individuare ben pochi moti aggreganti che potessero farsi pensiero di una mentalità collettiva. Vero è però che nonostante l'eterogeneità di provenienza e contesto, quella del cantautorato dalle forme dark è stata una corrente che ha interessato un discreto numero di autrici e autori sparsi nel globo, decisi a trarre forza da immaginari più cupi e densi di mistero per fornire un vestito alle proprie riflessioni, di qualsiasi natura esse possano essere. Tra più evidenti interpreti di uno scenario espressivo che ha nuovamente trovato lo slancio per uscire da un'impasse durata anni (Zola Jesus, Chelsea Wolfe, Anna Calvi), e protagonisti che ne allargano le possibilità comunicative più ai margini (King Dude, Daughn Gibson), può risultare bizzarro, almeno di primo acchito, fare menzione di un'autrice come Nadine Shah. Basta però addentrarsi un minimo nella produzione della cantautrice britannica (nonché dare un'occhiata alle sue tenebrose copertine, talvolta reminiscenti del giallo italiano), per scorgere come dietro a un volto pulito e a un'immagine senza troppi orpelli si nasconda in realtà un'anima ben più inquieta di quanto le apparenze vogliano dimostrare, pronta a sfruttare il proprio talento per trattare di argomenti tutt'altro che accomodanti e gradevoli. Contralto dal crooning vibrante e profondo, talento esecutivo che spazia dalle chitarre al pianoforte senza grossa soluzione di continuità, Nadine Shah si è mostrata nel corso delle pubblicazioni artista dotata di una penna affilata e di un talento espressivo che accorpa in un unicum umori jazz, progressioni blues, pattern industriali e più robuste incursioni post-punk, tramutandosi, disco dopo disco, nella più convincente (e alquanto temibile) erede spirituale di personalità come PJ Harvey e Nick Cave, condividendone mood, potenza lirica e spinta al rinnovamento. Il discorso, in ogni caso, ha preso sin dall'inizio una piega diversa.
Nadine Petra Katarina Shah nasce il 16 gennaio 1986 a Whitburn, piccolo villaggio marittimo a sud di Newcastle, da madre britannica di origini norvegesi, e padre pakistano, emigrato nel paese di Sua Maestà a 25 anni di età. Se possono sembrare dettagli intrusivi (la stessa autrice inizialmente si dichiara non particolarmente contenta dell'insistenza con cui le sue origini vengono tirate fuori in ogni occasione), si tratta invece di particolari fondamentali, che impatteranno in maniera significativa la produzione futura della musicista, specialmente dal punto di vista tematico/lirico. A stretto contatto con la cultura della terra natia del padre e dei parenti da quel ramo, la giovane Shah cresce in un ambiente che accoglie sotto un unico tetto spunti di musica classica (a cui si deve anche il notevole controllo sul pianoforte) e tradizione sufica, interpretazioni di ghazal e album jazz, nonché i primi Lp del primo Scott Walker, in un meticciato culturale che ben descrive una larga fetta della generazione millennial britannica, adattatasi sin dal contesto familiare a un complesso sistema di stimoli e riferimenti. In particolare, però, saranno proprio Scott Walker (Shah definisce “Scott” come il suo album preferito) e gli spunti jazz a dare il via a una formazione musicale non particolarmente ampia negli orizzonti, ma senz'altro alimentata con notevole intensità e fervore, al punto da costituire un propellente irresistibile per i sogni e l'ambizione di una ragazzina, che comincia a nutrire glorie da star.
A soli sedici anni, figurandosi una carriera da diva jazz, lascia le spiagge scogliose di Whitburn e si dirige alla volta della capitale, per tentare la sorte e provare a concretizzare la propria idea. La scalata, manco a dirlo, si infrange in breve tempo, eppure l'esperienza si rivela tutt'altro che infruttuosa. Habitué dei jazz-club londinesi, ascoltatrice attenta e avida, Nadine Shah impara dagli svariati musicisti con cui entra in contatto la disciplina e la costanza necessarie, se non per arrivare ai vertici delle classifiche, quantomeno per non desistere dalle proprie intenzioni e perseguire un ideale diverso per le proprie prospettive artistiche.
They name you dumb, they name you mad
Ciò nonostante, malgrado un continuo processo di ascolti, frequentazioni e contatto diretto con musicisti di varia natura, è soltanto all'inizio degli anni Dieci che da una cantante ormai non più in erba cominciano a fuoriuscire i primi brani e composizioni, manifestazioni di un talento inizialmente stentato, ma più che sufficiente per consentire al suo nome di passare di diffondersi gradualmente nel settore e arrivare infine alle orecchie di Ben Hillier, tra i mammasantissima della produzione made in Uk (Blur, Elbow, Doves, e chi più ne ha più ne metta).
Sarà proprio grazie al suo fiuto, a una collaborazione in cui la scrittura di Shah comincia ad affinare e a trovare articolazioni più mature e personali, che vedono la luce i brani del primo album. Covati a lungo, scritti e riscritti in un processo che l'autrice definirà sfibrante, i pezzi prendono forma senza particolare fretta, sviluppati con cura, con l'intenzione di far quadrare ogni elemento chiamato in causa. Al chiudersi del 2012, con una data d'uscita per l'album d'esordio già stabilita per l'anno successivo, finalmente l'autrice comincia a presentare i suoi primi brani al pubblico, a porre le fondamenta della sua carriera futura.
Rappresentati da due Ep lanciati nell'arco di cinque mesi, gli inizi discografici di Nadine Shah, per quanto fin troppo contenuti nella durata, non costituiscono affatto il classico approccio stentato con lo studio e le consuetudini della registrazione, la piccola cartolina di presentazione da cui ricavare la classica promessa per gli anni a venire. Nelle sei canzoni ripartite tra Aching Bones e Dreary Town (le title track dei quali finiranno con l'essere tra i brani di punta di Love Your Dum And Mad) la songstress si mostra già perfettamente conscia di cosa le interessa offrire e del modo più convincente con cui presentarla. Indubbiamente il supporto di un produttore di peso sin dai primi vagiti realizzativi ha permesso uno slancio e un controllo sulle dinamiche sonore a cui altri non avrebbero avuto accesso, tuttavia è nella penna di Shah, nella pluralità di riferimenti che riesce a intercettare, che risiede il succo del discorso, e che la stessa non tarda quindi a sfruttare a suo vantaggio.
Frutto delle passioni letterarie e cinematografiche dell'artista, dotata di una teatralità di cui le interpretazioni (rigorosamente nell'accento di Newcastle) si fanno costantemente carico, la scrittura dell'autrice si avvale di tessiture ispide, pattern cigolanti e ripetitivi, aspre svolte espressive, specchio di un'oscurità pulsante, drammatica, sufficientemente appassionata da portare subito a tracciare paragoni con PJ Harvey e Nick Cave. L'autrice dichiarerà di essersi avvicinata ai due mammasantissima del rock soltanto a registrazioni ultimate, tuttavia l'affinità con i due, anche soltanto di tipo umorale, si rende evidente sin da subito. Nei sei brani dei due Ep, Shah si divide quindi tra tenebrose perlustrazioni dell'anima, attraverso cui esibire la propria fascinazione per sinistre aperture blues (la stessa “Aching Bones”, col piglio industriale delle percussioni a fungere da supporto marziale all'imponente parata gotica sovrastante), composizioni chitarristiche in cui traspare uno sbilenco gusto folk, talvolta acuito dal carattere narrativo dei testi (“Bobby Heron”, quasi un aggiornamento gothic-country dell'eredità tradizionale britannica), e inquietanti aperture cameristiche, in cui il supporto pressoché esclusivo del pianoforte rafforza la complessità delle performance dell'autrice, capace di dare con le sue scalate vocali improvvise un'accezione del tutto nuovo al concetto di chanteuse dark (“Dreary Town”, “Cry Me A River”, specie nell'impressionante coda finale).
È proprio all'interno di questo triangolo stilistico, con una penna che acuisce ancora di più le peculiarità espressive del contralto di Shah, che si individua lo spazio entro cui si muove Love Your Dum And Mad, un esordio in formato full-length che a suo modo giunge quasi a corollario di un semestre denso di attività discografica, a già degna rappresentanza di un talento pienamente sbocciato. Dedicato a due morti suicidi per ragioni di salute mentale (uno dei quali è anche il firmatario delle copertine di Ep e album, a cavallo tra Egon Schiele e le figure deformi di “Guernica”), col titolo che astutamente rinuncia alla “b” di “dumb” per rendere palese il tema del lavoro e l'affascinante inversione delle iniziali, il lavoro si fa carico di esplicitare in forma espansa tutto l'estro e il carattere che avevano già pervaso le oscure prove d'esordio, con una consapevolezza e una progettualità per ovvie ragioni ben più manifeste.
Tra il grigio del rimpianto e il rosso vivo della passione più pura, in tutte le sfumature che intercorrono tra i due, si svolgono quindi le undici storie raccontate nelle canzoni di Love Your Dum And Mad, canzoni in cui tormento e rimorso la fanno da padrone, attorno a idee quali perdita e sconfitta, che ricorrono lungo tutto il corso della scaletta. La profonda malinconia per una giovinezza lasciata scorrere inesorabilmente via (“To Be A Young Man”), funeree dediche a persone care, prematuramente scomparse (la stessa “Dreary Town”, amarissimo valzer-ricordo dell'ex suicidatosi, composto due giorni dopo il misfatto), narcolettiche riflessioni di ordinaria quotidianità ed emarginazione (la superlativa “Floating”, felice ossimoro musicale realizzato attraverso l'innaturale calma apparente del tappeto minimale di sfondo): la Shah non teme demoni di sorta, non li respinge, anzi li richiama a sé, li poetizza, come buoni amici per far fronte all'oscurità circostante. E non vi è dubbio, questo è un esorcismo che riprende da vicino le atmosfere gotiche di quel “To Bring You My Love”, che catapultò PJ Harvey nell'empireo delle icone anni Novanta. La stessa musicista si troverà spesso a dover testimoniare la somiglianza, quantomeno di mood, con Polly Jean (basti ascoltare la già citata “To Be A Young Man”, folk-rock fosco e battagliero, per intravedere tra i suoi meandri il ricordo dell'indimenticabile “Send His Love To Me”), tuttavia la sua arte si spinge ben oltre nel discorso, seguendo traiettorie che scavano ancora più nel profondo di un dolore che pare infinito. Di certo, premere il tasto delle patologie mentali e del suicidio non può che aver accentuato determinate dinamiche.
Facendo leva su pochissimi elementi, tutti imperniati grosso modo sulle fugaci impressioni del pianoforte dell'autrice (specialmente nella seconda metà del disco, superato il giro di boa dello sconfortante blues sintetico “All I Want”), Shah costruisce, con un'ispirazione centratissima, sortilegi in cui la scrittura, obliqua e sinistra, rifulge in tutta la sua potenza. Potenza peraltro accentuata da un contralto sensualmente tormentato, che le è valso accostamenti alla Diamanda Galàs interprete. L'autrice in effetti sfrutta la sua versatilità vocale sin dall'incipit: se è vero che il tour-de-force canoro di una “Cry Me A River” non è rintracciabile nel disco, le interpretazioni rendono conto di una voce autenticamente mutaforma, ora capace di trasformarsi in rantolo sommesso da blues-woman di stazza, ora pronta a prendere la strada di commosse liturgie terrene. Il lavoro si fa insomma carico, senza troppi complimenti, di un'angoscia che anche giunti in fondo, nella ballata cameristica “Winter Reigns”, non si è riusciti a dissolvere se non in minima parte, come una sorta di esorcismo nei confronti della perdita e dell'abbandono.
Per quanto l'estrazione jazz e l'impostazione teatrale indubbiamente accrescano tanto del dramma che serpeggia nell'album, tendenzialmente molto più posato e sfumato nei dettagli (come anche la stessa “The Devil” suggerisce), nondimeno un album come Love Your Dum And Mad si fa testimone di tematiche e di una sofferenza raramente trattate con questo senso di compartecipazione, con uno slancio che sa farsi carico di un'introspezione profondissima e rivelarla in tutta la sua potenza, senza grossi filtri. Raramente album d'esordio hanno saputo far combaciare arte e spaccati di vita vissuta con simile lucidità.
You, my sweet, are a fool, you, my sweet, are plain and weak
Neanche due anni dopo, con un bagaglio di esperienze bello zeppo e un procedimento di scrittura ben più rapido e affilato (la stessa parla del suo songwriting come di un esercizio da coltivare con costanza e una pratica continua), Shah dà alle stampe Fast Food, il seguito del già notevole esordio, adoperandosi in maniera decisa per approfondire il lato più viscerale e carnale della sua musica, abbattendo ulteriori filtri nel modo di esporre ed esporsi. Tagliando cortissimo sulle pubblicazioni pre-album, limitandole alla diffusione dei singoli “Fool” e “Stealing Cars” (comunque ben indicativi dell'impronta conferita al sound), l'autrice di Whitburn restringe il campo d'azione dal punto di vista sonoro, ma non arretra di un passo rispetto alla sofferta intensità dell'esordio, che viene finanche estremizzata negli sviluppi e nelle modulazioni. La sterzata che ne sovviene ha determinato aggiustamenti importanti nelle mire artistiche della musicista, invitata adesso a scelte di peso e a un maggiore raccoglimento stilistico: anche così, quella potente inquietudine che ha contraddistinto i trascorsi di Shah trova mille e più modalità di espressione.
Posta davanti a se stessa, agli scogli ancora insuperati, alle paure da affrontare e al passato con cui fare i conti, Nadine non pone alcun filtro, non indora la pillola. Soprattutto, non sceglie la strada del pietismo, dell'auto-indulgenza compiaciuta, da decantare con il supporto di tre accordi e qualche lamentevole linea canora appena abbozzata. Con tinte forti, accese, a richiamare le locandine dei film horror anni 70, e con il volto dell'autrice a far finalmente capolino con una posa degna di una femme fatale dei tempi passati, la copertina parla chiaro: è di passione, rabbia e ardore che si parla, non c'è più tempo di riflettere, di risparmiare il fiato e giocare a rimpiattino con i sentimenti. È giunta l'ora di agire insomma, di correre qualche rischio in più; se questo significa alzare i toni, ben venga. Slancio e fervore quindi, senza troppe soluzioni alternative: ancora meglio che a finire sotto la lente d'ingrandimento di Shah siano riflessioni sui rapporti interpersonali, sulle relazioni finite male, sugli strascichi psicologici che possono causare personaggi tossici ma anche ben più tranquille frequentazioni recise di netto. Piuttosto comprensibile, insomma, che a tracciare la mappatura dell'anima della songstress, più che il pianoforte si presti un organico strumentale corposo, possente, dall'impianto rock ma dalle derive imprevedibili. In questo senso, Fast Food amplifica e sparpaglia le direttrici elettriche che avevano fatto la fortuna della prima cinquina di brani di Love Your Dum And Mad, talvolta mettendone in evidenza il lato più ossessivo e minimale, talaltra aprendosi a soluzioni più estrose e spiazzanti, che recidono ogni accostamento specifico di genere.
Se quindi la strada maestra rimane quella di un blues cupo, serrato, variegato nelle ritmiche e nelle modulazioni, le sviate sono sempre dietro l'angolo, pronte a manifestarsi inattese, senza biglietto da visita. Accanto alle fogge apparentemente più canoniche del “Stealing Cars”, dove la Nostra tratta il tema dell'ansia non senza una generosa iniezione di teatralità e con una struttura che pare tutta un lungo ritornello, convive così la risoluzione decisa ma accorata di “Nothing Else To Do”, nenia in minore giocata su un costante sviluppo dell'arrangiamento, in una sorta di bolero minimalista che riesce pure a piazzare con assoluta cognizione di causa una notevole sezione di ottoni sul finale.
“Big Hands” (unico brano a disporne con così larga ampiezza), corre poi in piena fuga da ogni forma di intimismo da ballad o ricamo jazz, intrappolandosi con coscienza in un bizzarro trotto dal taglio ritmico, pienamente in controsterzo rispetto all'incalzare di chitarra e percussioni.
Nel tenere alto il tasso di sperimentazione, timbrica e compositiva, Shah enfatizza l'aspetto più drammatico e suggestivo delle sue interpretazioni, acuite nel trasporto e nell'intensità, senza però tramutarle in tronfi ghirigori senza significato. Dall'apertura ruspante della title track, con un taglio secco e desertico che sarebbe piaciuto tanto a Hugo Race, alla potenza granitica di “Fool”, provvista di un ritornello possente come un carrarmato e di un arrangiamento che flirta con noise-rock e post-punk, Nadine porta la propria esplorazione anche a fascinosi contatti con materiale più pop, con una dimensione melodica che si apre con decisione a platee più importanti, senza difettare in alcun modo di personalità.
Nuda di fronte ai sentimenti, con una sincerità disarmante a suo vantaggio, Nadine Shah bissa con Fast Food tutte le grandi peculiarità, emotive e stilistiche, della propria arte, pur attingendo a un ventaglio espressivo più contenuto nelle opzioni, calando fuori una decina di brani che superano in scioltezza lo scoglio del secondo difficile album, alzando in maniera considerevole un'asticella già piazzata a discrete altezze. E se i paragoni a PJ Harvey e Nick Cave (appellato anche nella stessa “Fool”, nel duplice ruolo di “dannato” e “santo”) continuano a sprecarsi, la realtà mostra un'autrice matura e sufficientemente personale da archiviare ogni paragone (spesso mosso con fare screditante) e sfruttarlo semmai a suo vantaggio, come parte integrante di un terzetto delle meraviglie dedito a un rock oscuro, talvolta bluesy, ma mai meno che potente e appassionato. A suo modo, non può esserci migliore complimento.
Damn your men, damn your women, damn the children damn yourselves
Varcata la soglia dei trent'anni, ben consapevole del proprio linguaggio artistico e di come lo stesso possa prestarsi anche a tematiche di più ampio portato (senza per questo fungere da mero pretesto sonoro al soggetto prescelto), per il suo terzo album Nadine Shah decide di ampliare lo sguardo e aprirsi a osservazioni di stampo politico, inserendosi con forza in un fermento creativo che incoraggia scopertamente riflessioni di questa natura. Non che vi sia opportunismo nella scelta, d'altronde la stessa, complice anche la sua estrazione familiare e il cognome che porta, non è immune a certe dinamiche di razza e alle chiusure xenofobe dei suoi compatrioti; di cose da dire insomma ne ha e con una prospettiva che da tempo mancava ai cantautori britannici.
A scatenare però l'idea di un lavoro quale Holiday Destination giunge in soccorso un evento di ordinaria banalità, ma con una valenza simbolica capace di trascendere di spanne il fatto in quanto tale. Sullo sfondo della crisi umanitaria e dell'emergenza dei migranti che da anni interessa il Mediterraneo, alcuni turisti in vacanza sull'isola di Kos, trovatisi ad assistere in prima persona agli sbarchi di massa dei fuggiaschi siriani provenienti dalla Turchia, non appena furono interpellati sulla questione non tardarono ad affermare come l'intera situazione avesse finito col rovinare la loro vacanza. Della miseria e della sofferenza dei fuggiaschi menzione alcuna. Sulla base di queste interviste, e su un documentario per Al Jazeera dei campi profughi al confine tra Siria e Turchia effettuato da suo fratello (per il quale Shah ha curato il commento musicale) la cantautrice firma con il suo terzo album un progetto duro, inflessibile, un esemplare manifesto che coniuga particolare e universale sotto una visione unitaria e appassionata. Xenofobia, cronache di ordinario razzismo, rabbia, desolazione e allo stesso tempo speranza si riuniscono quindi sotto lo stesso tetto, in un ciclo di canzoni che vedono l'autrice appropriarsi di un linguaggio mai così diretto e immediato, in cui il messaggio giunge attraverso costruzioni melodiche e compositive tra le più pop e brillanti nel repertorio della musicista.
Il balzo di qualità rappresentato da Holiday Destination, nel mettersi in mostra come parte di un insieme ben più ampio e significativo, non lascia insomma grosse possibilità di smentita. Le scelte espressive prettamente musicali seguono a ruota: se è vero che quelle chitarre lancinanti e sofferte, a un passo dall'industrial-rock, fanno parte del background strumentale di Shah sin dagli esordi (il fido collaboratore e co-produttore Ben Hillier ad accompagnarla ancora nelle sue visioni artistiche), e che i contatti con il rock gotico sono sempre stati evidenti anche nelle più spoglie ballate pianistiche, l'enfasi data ai riferimenti più wave del suo suono raggiunge in questo disco il proprio apice, sviluppandosi in mille rivoli diversi. Tenendo fede all'intento di una maggiore immediatezza, i pattern ritmici si fanno più ostinati e presenti, basso e chitarre scoprono senza remore le ammalianti possibilità del groove, le melodie si fanno più delineate e accessibili, non per questo perdendosi in facilonerie di poco conto. Anzi, se per questo la maggiore linearità d'impianto comporta un'ulteriore compenetrazione tra significato e significante, parti di un tutto da cui risultano entrambe rafforzate, strumenti al servizio di un'incontenibile spinta comunicativa.
In "Place Like This" (l'immedesimazione con le macerie illustrate in copertina viene quasi spontanea) il tono lugubre e cavernoso dell'apertura dà spazio a lucidi stacchi ritmici e chitarre in vena di funk latino, in un gioco di contrasti su cui l'interpretazione di Shah poggia con decisione e severità, cantando di sradicamento e accoglienza in terra straniera, spegnendosi prima del finale per lasciare che la chiusura venga lasciata a un corteo di protesta, marciante al grido di: "Refugees are welcome here!".
Nella stessa title track l'ostinazione con cui viene ripetuta la frase "How you gonna sleep tonight?" non soltanto fa menzione delle tragiche condizioni di vita dei rifugiati, ma instilla nell'apatico Occidente il seme dell'inquietudine e della solidarietà, di fronte a una situazione che tocca più nel profondo di quanto si possa pensare. Un testo forte, scandito da una melodia dalle chiare pretese pop (siamo ai livelli di una "Fool", per intenderci), in cui però la dissonanza dell'arrangiamento rimanda alle migliori pagine di Siouxsie Sioux, sviluppando una sorta di disturbante godimento. Se quindi "Evil" denuncia senza sconti il razzismo registrato dalla songstress da parte dei suoi compatrioti, muovendosi tra jangle cigolanti, bassi massicci e improvvise scariche di rumore, in perfetta aderenza all'estetica dell'inquietudine ricercata sin dal principio, lo sguardo si allarga ulteriormente e abbraccia lo scenario politico internazionale, tra stoccate alla condotta di Trump ("Yes Men") e la ribalta sempre più preoccupante delle destre nazionaliste ("2016"), muovendosi su temi così scottanti con estrema facilità compositiva, in un prestigioso carnet di melodie che coniugano ridefinizione e fascino.
Terzo centro su tre in definitiva: riversando il proprio vissuto e le esperienze degli ultimi anni in un contenitore che ne rafforza il valore caricandolo di significati universali, l'autrice di Whitburn scrive con Holiday Destination una delle più umane e ponderate riflessioni sulla contemporaneità sociale e politica in musica, senza sacrificare un briciolo della sua caratura espressiva. In un mare magnum di pubblicazioni dal taglio "consapevole" in realtà alquanto mediocri, questo è tra i rari album che realmente ottengono un effettivo scopo comunicativo.
Shave my legs, freeze my eggs, will you want me when I am old
“E quando ti sposi? E quando lo fai un bambino? Guarda che hai già passato i trent'anni da un pezzo, non ci pensi al tempo che scorre?”. Chissà quante volte queste domande saranno state rivolte a Nadine Shah, o quante volte le saranno passate per la testa, anche soltanto guardandosi attorno. Per una donna, concetti come matrimonio e maternità rimbalzano con frequenza sempre maggiore al passare del tempo, al punto che non prenderli in considerazione viene (quasi) visto come un problema. È questa la premessa generale di Kitchen Sink, quarto album per la formidabile cantautrice, il leitmotiv che la spinge per la prima volta a parlare con così ampio margine di se stessa e a considerare temi quali femminilità, sessismo, invecchiamento, con tutta l'ironia a sua disposizione, inscenando quadretti di alienante, disgustosa quotidianità.
Meno eversivo in paragone ai suoi progetti precedenti, e in questo senso più affine alla spigolosa attitudine post-punk dello scorso Holiday Destination, il nuovo progetto se ne diparte allo stesso tempo per una visione più estrosa, che all'assetto wave aggiunge un dinamismo versatile, tale da aggiustarsi al tono lirico/melodico di ogni singolo brano. Parole e suono viaggiano di pari passo, costruendo brani salaci, asfissianti, in cui gli arrangiamenti si muovono scattanti, pronti a sostenere il peso dei passaggi lirici. Stacchi di batteria ed esplosioni di ottoni introducono il progetto con tutta la forza necessaria, intensificando i tratti laidi del testo di “Club Cougar”, gli appellativi indesiderati rivolti da sconosciuti in mezzo alla pista. E se la filastrocca cantata dal fratello durante l'infanzia diventa il tema centrale di “Ladies For Babies (Goats For Love)”, le cronache da quel lavello, tanto detestato quanto paradossalmente bramato, si fanno più cariche di angoscia e tensione, piene di quel terrore indefinito che spinge a vedere nel tempo che scorre la peggiore condanna.
In questa girandola di quesiti non richiesti, incontri imbarazzanti e relazioni disfunzionali, la penna di Shah si muove decisa, carica di verve narrativa, pronta a prendersi anche i rischi del caso, ma sempre cosciente del suo turbolento sguardo sul mondo, su dinamiche (di genere e non solo) la cui scadenza è stata abbondantemente superata. C'è decisamente vita, anche ad avere passato i trent'anni e a non avere figli, e una risata sprezzante è pronta a chiarirlo, ancora una volta.
Light up your house for the greatest dancer, happy for now watching shiny dancers
Occorre attendere quattro anni, prima che Nadine Shah torni a presentarsi con un nuovo lavoro. Un lavoro che rischiava proprio di non uscire: con la pandemia e i suoi strascichi a fungere da bieco contesto, la formidabile autrice britannica ha dovuto affrontare la morte della madre, si è sposata, ha subito un rovinoso tracollo che l'ha portata a tentare il suicidio. Da qui la faticosa risalita in un centro di recupero e infine il divorzio. Non è proprio poco da gestire, in un lasso di tempo tutto sommato alquanto contenuto. Disporre però della sua caratura di musicista conduce a una certezza: l'assoluta abilità elaborativa, l'impeto che converte la tragedia in oscura materia narrativa. Presentarsi con tutta la sporcizia accumulata in questi anni è una necessità inderogabile, l'esigenza di un mondarsi pubblico e privato con cui scendere a patti, posta la giusta distanza, col proprio inferno interiore. E chi lo dice che nel ripulirsi del proprio strazio non possa scappare anche una risata di cuore?
Di nuovo steso assieme a Ben Hillier, vero complice di Shah sin dagli esordi, Filthy Underneath è disco che spezza, si spera in maniera definitiva, alcuni degli assunti su cui ha finora poggiato il percorso dell'artista. Prima tra tutti la voce: non più soltanto l'intenso contralto che ha contraddistinto ogni sua fatica, con questo lavoro si libera da ogni limitazione, si fa slancio ferino, mostra inattese cornici soul, piroetta invasata quasi parlando del niente. È il caso di “Topless Mother”, affilato spaccato di ordinaria incomunicabilità tra l'autrice e un suo terapeuta, in cui il ritornello è un rapido vomitare di parole in libertà, accostate con euforico slancio infantile. Già “Even Light” però, con i suoi accenti sintetici stravolti a mo' di ottoni e le geometrie di basso, fa sfoggio di una voce che non teme lo slancio verso l'alto, la pienezza del proprio potenziale. E se è vero che i cambi sonori sono stati una costante nel percorso della musicista, nondimeno mai come adesso si osserva una potente eterogeneità di tratto, che non dimentica i trascorsi post-punk del recente passato ma li lascia navigare in vibranti acque arty, sulle quali la luce proietta sinistre figure, tutte dotate del proprio colore.
È difficile restare inermi di fronte alla spirale discendente che Shah immortala in vari brani. Difficile restare impassibili davanti alla poesia obliqua di “Greatest Dancer”, il resoconto di una notte di delirio trascorsa a ballare in stato di allucinazione di fronte a una puntata di “Ballando con le stelle”. Il capitolo spoken di “Sad Lads Anonymous”, tutto giocato su un gorgogliante basso gotico, fa uso di una sferzante autoironia per commentare la pessima decisione di un trasferimento in una fatiscente cittadina di mare. Che il marcio di quel periodo possa palesare addirittura risvolti umoristici è la vera forza di un lavoro che non cade mai nell'eccesso, ma adotta linguaggi volta volta diversi per raccontare la sua brutale vicenda. Il taglio rarefatto della produzione, l'ossessiva insistenza, rendono il brano la più vischiosa ballata ambient degli ultimi anni, a cui fa da contraltare la fine fragilità di “Hyperrealism”, la cosa più vicina al pallore innevato di “Love Your Dum And Mad”, col pianoforte in bella mostra e un inatteso tocco soulful.
Ha tutto il senso del mondo che la conclusione sia affidata a “French Exit”. Giocando sul significato del titolo, che indica l'allontanarsi da una festa senza salutare chi resta, Shah affronta il momento del tentato suicidio. Con pudore, in controluce, creando appunto il minor disturbo possibile: nel gesto estremo, nell'atto violento che non può privarsi di una sua specifica tensione, cala il sipario. Di colpo, lasciandoci parte integrante di una storia che l'album trasporta nel futuro. Oltre l'angoscia, oltre lo smarrimento, si cela la liberazione.
Sicura sui suoi passi, artefice di uno dei percorsi più stabili e affidabili del cantautorato britannico dell'ultimo ventennio, Nadine Shah raduna in un solo, largo abbraccio personale e universale, oscurità wave e slancio pop, coniando una formula avvincente e riconoscibile, per quanto tesa costantemente alla ridefinizione nei moduli e nella composizione. A suo modo, è già un classico.
Aching Bones (Ep, Fandango, 2012) | ||
Dreary Town (Ep, Apollo, 2013) | ||
Love Your Dum And Mad (Apollo, 2013) | ||
Fast Food (Apollo, 2015) | ||
Holiday Destination (1965, 2017) | ||
Kitchen Sink (BMG/Infectious, 2020) | ||
Filthy Underneath (EMI North, 2024) |
Aching Bones (video, da Aching Bones, 2012) | |
Dreary Town (video, da Dreary Town, 2013) | |
Cry Me A River (live, da Dreary Town, 2013) | |
To Be A Young Man (video, da Love Your Dum And Mad, 2013) | |
Runaway (video, da Love You Dum And Mad, 2013) | |
Stealing Cars (video, da Fast Food, 2014) | |
Fool (video, da Fast Food, 2015) | |
Out The Way (video, da Holiday Destination, 2017) | |
Yes Men (video, da Holiday Destination, 2017) | |
Holiday Destination (video, da Holiday Destination, 2017) | |
Ladies For Babies (Goats For Love) (video, da Kitchen Sink, 2020) | |
Topless Mother (video, da Filthy Underneath, 2024) | |
Greatest Dancer (video, da Filthy Underneath, 2024) |
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