Luigi Porto è un musicista e compositore italiano che, ormai da vari anni, ha lasciato l'Italia per trasferirsi a New York dove ha intrapreso una carriera da musicista ricca di soddisfazioni e svariate collaborazioni. Anche nel 2019 l'ho contattato per discutere degli album a suo parere più interessanti dell'anno, oltre a fare un consueto punto sugli avvenimenti principali degli ultimi dodici mesi.
Ciao Luigi, da un po’ di anni ormai chiudiamo l’anno parlando degli album che ti sono sembrati più rappresentativi e non solo. Si chiude l’anno 2019 ma si chiude anche un decennio che per quanto non sia un periodo lunghissimo, è comunque un periodo caratterizzante. Molto spesso noi ragioniamo in musica o cinema anni 70 o 80, riconoscendo in ciò caratteristiche peculiari in ogni singolo decennio. Questo decennio dieci cosa ci lascia?
Ciao Valerio e grazie di avermi pensato anche quest'anno, la cosa buona di avere un appuntamento fisso, come dici tu, è che cerchi di non farti cogliere del tutto impreparato. Musicalmente, per quello che ho potuto notare io, gli anni Dieci sono stati una sorta di reazione al ventennio precedente, in cui un certo dilettantismo era quasi un valore, l'eredità del garage, dove l'urgenza era tutto ed il mestiere era secondario. La preponderanza della prima sul secondo aveva creato il lo-fi, l'indie, personaggi mitologici come Daniel Johnston, Will Oldham, Jeff Magnum. Molta della musica che girava era istintiva, quasi inconscia di sé stessa, mancavano le raffinatezze armoniche e formali dei 70 e checchè se ne dica anche degli 80, in favore però di una coscienza espressiva molto forte. Poi siamo scivolati dalla parte opposta, il trionfo del professionalismo, sia nel mainstream dove gli artisti emergono dopo essere stati giudicati idonei in mondovisione da un panel di esperti, sia nell'underground, dove spesso le produzioni sono perfezioniste e il più delle volte i membri di una band dei musicisti professionisti provenienti dal mondo del jazz e della classica. Questo crea un ritorno a certe raffinatezze compositive, ma anche a una sterilità generale e all'inevitabile perdita di quell'urgenza naive che aveva caratterizzato il periodo precedente. Perciò ho scelto dei dischi che, pur provenienti da autori musicalmente preparati, vanno di nuovo in quella direzione, per cercare di raccogliere quella che potrebbe essere una tendenza di sintesi, ancora non lo sappiamo.
Qualche giorno fa parlavamo di elezioni in giro per il mondo, Brexit, e tu mi esponevi teorie molto pessimistiche. Sembra che questo decennio abbia preso una svolta che sembra difficile arrestare. Vedi proprio così nero? E un musicista (o un artista) nel suo piccolo cosa potrebbe fare?
Più che pessimismo forse sostenevo l'inevitabilità della deriva politica contemporanea, il classico vento di destra che quando tira tira forte, ma in questo caso è una situazione molto complessa perché certe tendenze che mischiano autarchia e xenofobia sono (anche) il risultato ormai noto di politiche errate per troppi anni sui fronti democratici. A complicare le cose, siccome è più facile schierarsi contro che schierarsi per qualcosa, queste tendenze, che sembrano essere l'unica risposta all'accettazione della globalizzazione dei mercati, attirano se non le simpatie perlomeno la curiosità anche di alcuni che si definiscono di sinistra, ma si tratta più che altro di pigrizia mentale. E' veramente difficile essere di sinistra oggi, riuscire a distinguere e a rifiutare gli epigoni del blairismo ma al contempo non cadere nelle trappole dei nazionalismi e delle facili fascinazioni per gli uomini forti. E' come guidare un'auto da corsa su un terreno accidentato, si fa uno sforzo tremendo per andare dritti, per essere anticapitalisti ma anche internazionalisti, cercare di capirci qualcosa sull'integrazione e sui grandi movimenti di masse umane senza abbandonarsi da una parte al rifiuto dell'analisi delle cause e dall'altra, se non alla xenofobia, ai complottismi (penso ai vari piani Kalergi, Soros eccetera). Non è una stranezza che un partito che si prefigga un programma che risponda a questa complessità non riesca a ottenere che una manciata di voti, o ne perda drammaticamente (Corbyn).
La cosa assurda è che la mia generazione era quella dei no global e del movimento di Seattle, il cui messaggio che all'epoca veniva considerato perlomeno utopistico quando non pericolosamente estremista, è oggi di fatto condiviso, seppur con altri termini, proprio da quelli che nel 2001 stavano nella questura di Genova, mentre dall'altra parte, dove si sventolava No Logo, oggi si usano parole come branding e si utilizzano tecniche comunicative figlie del marketing, anche quando dal mercato si è naturalmente fuori, penso agli artisti. E' come se gli antagonisti che una volta erano i fuorilegge, oggi debbano essere quelli tranquilli e quasi bigotti, perché al potere ci sono i cattivi dei fumetti.
I complottismi poi sono le derive fuorvianti perché tendono a dare un volto e un nome a un nemico, invece di riconoscere che il nemico è una dottrina, non degli esseri umani. E siccome certe parole chiave a dirle sono i “complottari” automaticamente certi argomenti perdono di significato, quando invece andrebbero affrontati in maniera seria.
Cosa possiamo fare noi poveri musicisti? Non so, di certo provare ad avere coscienza critica, senza rifugiarsi nel presunto ascetismo, nel quale non credo. Non siamo fini analisti, però la nostra la dobbiamo dire, ci dobbiamo provare, a costo di risultare supponenti, ma perlomeno col coraggio di mettersi in gioco. Il testo che mi piace di meno di tutta la discografia di Battiato è “I'm That” da "Dieci Stratagemmi", dove prende le distanze dalle religioni e dalla politica, adducendo come motivazione “perché sono un musicista”. Ecco, per me questo narcisismo passivo è veramente supponente, con tutto il rispetto e l'ammirazione possibile per Battiato. Un artista non è "super partes", non ha diritti speciali, e l'ascetismo e lo spiritualismo non sono incompatibili con l'essere nel mondo, e a me la militanza coraggiosa piace – da non confondersi con quella di convenienza ovviamente. E pazienza se poi portasse agli estremi degli anni Settanta, dove un Battisti che non parlava di politica veniva attaccato dai ragazzi negli studi televisivi, dove venivi espulso da un partito perché discutevi su un autore scomodo, io preferisco questi eccessi al disimpegno colpevole, o all'artista indipendente che utilizza le stesse tecniche di marketing dell'artista pop di successo, senza peraltro averne i quattrini. Quello è proprio ridicolo e lo penso da vent'anni.
Almeno due, forse tre dischi da te scelti, sono caratterizzati da elevati livelli di oscurità, di lutto e di pessimismo. Due invece hanno un legame con la musica classica, tra questi "Lingua Ignota", Lp estremo, figlio di una situazione familiare estrema. Non ti sembra inattuale come in un mondo dove le tv mostrano il modello del giovane consumatore sempre sorridente, che non si pone domande, magari anche un po' stupido, ci siano artisti che riescono a entrare così in fondo alla loro depressione?
Eh, capito? Ti ricordi quella contestazione tipica della fine del secolo scorso che insisteva sull'orrore covato sotto la cenere dello stereotipo della famiglia americana ostentatamente felice e senza problemi? Quella famiglia americana si è espansa a tutto il mondo, dalla pubblicità ai social si ostenta la retorica del vincente in ogni ambito, e allora io ho scelto queste risposte crude o crudeli, come al solito non tanto o non per forza per il valore in sé degli album – non credo molto nelle classifiche, ma soprattutto non credo di ascoltare abbastanza musica e mi perdo un sacco di roba – ma appunto per una sorta di scommessa e per cercare di essere coerenti con un tema che mi interessa, e che quest'anno è appunto questo della dicotomia urgenza espressiva/competenza musicale. Eviterò di citare "Ghosteen" di Nick Cave, di cui si è parlato già moltissimo.
Xiu Xiu – "Girl With Basket Of Fruit"
Gli Xiu Xiu sono un esempio di come si possa essere eclettici, rumoristici, sperimentali e tutto quello che vuoi, mantenendo il tutto coerentemente al servizio della succitata urgenza, che nel caso della band di Stewart è un'urgenza piuttosto drammatica, disperata, schizofrenica. Gli Xiu Xiu dimostrano che sperimentare non vuol dire per forza “famolo strano”, ma può voler dire addentrarsi dentro i territori dell'assurdo per costruire una sorta di “interno mente” mediante i suoni. In "Girl With Basket Of Fruit" l'abitudine della band di creare delle canzoni che sono dei costrutti mentali incorpora elementi che vengono anche dal mainstream, ci sono echi di trap, di reggaeton, di quella musica che anche se sei un asceta, un intellettuale, un aristocratico, un prete, quello che vuoi tu, semplicemente non puoi far finta di non sentire ogni giorno dagli hifi delle macchine in strada o diffuse in qualsiasi bodega, se abiti in California. E' una musica che anche se non ti piace, finisci per ascoltare di più di ciò che ti piace, perché é un ascolto forzato. Ecco, loro di questo hanno fatto strumento, e per me questo strumento l'hanno utilizzato benissimo.
The Murder Capital – "When I Have Fears"
Altro disco che farà parte di diverse classifiche di fine anno, se ho capito come funzionano le classifiche di fine anno, è questo degli irlandesi Murder Capital, che è nulla di più che un onesto disco di post-punk, suonato bene e con ottimi testi, che anche grazie ai videoclip ha quella marcia drammatica in più che lo rende intenso anche se scorrevole – caratteristica presente solo nel post-punk – e ti lascia la sensazione di star ascoltando qualcosa di “importante”. Sarà una questione affettiva, ma io ci sento la vecchia working class anglosassone, il grigiore che animava i Joy Division a Manchester – gruppo peraltro che è uno statement inappuntabile per la band di Dublino, che riesce a coaugularli nel modo giusto, molto più coerentemente di altre band che in recente passato sono state accostate ai ragazzi di "Unknown Pleasures". Non hanno paura di citarli esplicitamente anche nel video di "Green And Blue" letteralmente richiamando il look di Curtis e soci, camicia nei pantaloni a vita alta, capelli corti eccetera. Stravinsky diceva che i cattivi musicisti copiano, i bravi musicisti rubano, e mi sembra che questo sia il caso.
Lingua Ignota – "Caligula"
Questo me lo hai fatto conoscere tu. E' un disco veramente estremo, non adatto a tutti i momenti per usare un eufemismo. Kristin Hayter è un'altra californiana, come gli Xiu Xiu – è curioso come la California, palme, spiagge, quella di "La La Land", San Francisco, possa essere anche la patria di alcune di cose come il death-rock, Lingua Ignota e gli Xiu Xiu, ci ha vissuto e composto per anni Arnold Schoenberg. Polistrumentista, la Hayter ha avuto una formazione classica, si sentono nel suo lavoro un sacco di utensili compositivi che caratterizzano la musica d'arte americana della sua generazione, tutti quei “devices” che sono stati mutuati dal minimalismo e da certa musica per film. Sdraiata su questa coscienza colta ci sta un'esistenza tormentata fatta di violenze familiari, traumi e depressione, che Kristin mette a nudo nel modo più diretto possibile (“I Don't Eat, I Don't Sleep”). Avete già un'ottima recensione su questo sito quindi inutile che la faccia anche io, mi interessa sottolineare che Lingua Ignota è, al momento, la rappresentante dell'orrore, della follia, della depressione e del trauma nella vita di una donna bianca americana, senza mezzi termini, non ha neanche bisogno di ricalcare nessuno degli elementi della femminilità in musica, va dritta al cuore dell'orrore, usa la musica – che sa fare e suonare – per aprirsi in due come un'anguria.
Michael Kiwanuka – "Kiwanuka"
Ecco un coetaneo di Kristin Hayter, però maschio, nero e britannico – anche se ha fatto un disco talmente black che sembra provenire dall'incrocio tra la 125 e Lenox. Disco conscio della tradizione, rispettoso, ma potente, impegnato, diretto ma raffinato, è quel soul che parla direttamente alla sua comunità, è la musica nera, quella in cui denuncia sociale, sofferenza e movimento del corpo sono la stessa identica cosa. Non esagero credo se dico che è un fatto veramente difficile da capire per chi nero non è, i bianchi lo intellettualizzano, lo comprendono attraverso un'analisi, ma non lo colgono mai direttamente. Kiwanuka è cresciuto lontano da quell'America lì, e a tratti si sente che è quel soul “inglese” che aveva caratterizzato per esempio le produzioni di Amy Winehouse, penso a "Cold Little Heart", ma altrove riesce a essere “uno di loro” in una maniera che ha del mistico.
Michael Tilson and San Francisco Symphony Orchestra – Symphony 3 and 4, Charles Ives
Charles Ives non è solo per me il più grande compositore americano nonché probabilmente il mio compositore preferito, ma è anche il più moderno “architetto” della musica che sia mai esistito. Spesso, anche e soprattutto da scopritori ed estimatori, Ives è stato associato alla naivetè, al non professionismo (fu per tutta la vita un assicuratore, anche molto di successo, tra l'altro fu l'inventore della vendita delle assicurazioni porta a porta), Bernstein usò addirittura il termine primitivismo. In realtà Ives aveva una coscienza orchestrale immensa, secondo me davvero superiore a chiunque altro, ma a differenza di chiunque altro non gli è mai interessata la musica “pura” e non ha mai avuto bisogno di usare gli strumenti della composizione in senso puramente musicale, tutto in lui nasce da visioni, tutto in lui diventa oggetto, e le sue composizioni sono strati su strati su strati di oggetti. La Sinfonia numero 3, ancora di derivazione beethoveniana, è un ascolto in funzione della comprensione della quarta (e ultima), che è uno dei punti di arrivo di questo slegarsi dalla musica intesa come musica, dall'armonia, dal contrappunto, da tutte quelle codificazioni che nelle avanguardie furono poi rinnegate per essere semplicemente sostituite da altre codificazioni. Ives sapeva tessere ragnatele di musica attorno a qualsiasi cosa, ma in vita sua non l'ha mai mostrato in senso fine a sé stesso, non ha mai creato noiose teorie, l'ha invece nascosto così bene da essere considerato uno che di musica quasi non ne sapeva, nonostante fosse tra l'altro da giovane il più richiesto organista del New England. Una recensione di un suo pezzo, uscita con lui ancora in vita, recitava “la musica del signor Ives può essere ascoltata in qualsiasi casa in cui un gatto o un infante abbiano accesso al pianoforte”. Ecco, non esiste nessun corto circuito tra professionalismo e urgenza espressiva più intenso di Charles Ives. E Michael Tilson sembra averlo capito bene in questa incisione.
Fuori concorso, ma solo perché è un amico e suona nei miei dischi, lo sto ascoltando spesso in questi giorni e calza al pennello con il filo rosso di questi titoli, segnalo il recentissimo "Raven Waltz" di Al The Coordinator. Tra l'altro è il secondo anno di seguito che uno dei dischi che ti segnalo me l'ha fatto conoscere lui (Kiwanuka, l'anno scorso era quello di John Prine). Come quello di Kiwanuka è un disco inglese di musica nera americana, Raven Waltz è un disco italiano di musica bianca americana. Profondo, canzoni accompagnate con chitarra o banjo e pochi e sporadici altri strumenti, di una psichedelia sottile, quella musica che ti sembra suonata in poltrona curvi su un focolare. "I Always Wanted To Stay At Home" potrebbe essere una outtake da "On The Beach" di Neil Young, non fosse per una voce decisamente più ruvida, ha un testo semplicissimo che per me risuona molto con il decennio che si chiude. Canzoni intimiste, ma non naive, storie piccole ma non fragili, anzi suonate da un professionista della sei corde, che però mette la tecnica completamente al servizio della canzone, finanche dell'apparentemente adolescenziale "Smile Today".
Grazie per i preziosi consigli. Salutandoti, ti chiedo che progetti hai per il 2020 e cosa ti auguri accada per la tua carriera da musicista nel prossimo decennio?
Grazie a te, figurati, sei tu quello che mi consiglia le cose. Il 2020 vedrà sicuramente il nuovo disco, che ti dico già si chiamerà "Tell Uric", perché appunto cerchiamo di stare lontani dalle logiche di marketing, incluse quelle stronzate di tenere le cose segrete per creare aspettativa. E' un disco in cui ho ripreso anche a cantare. Sul fronte orchestrale la messa in scena in autunno di Anita di Laguna, la cui suite orchestrale ha avuto tre première recenti (Kazakistan, Casinò di Sanremo e La Croisette a Cannes). L'opera, che è tutto tranne che un'opera nel senso classico del termine, sarà presentata in forma completa a New York e Philadelphia, preceduta di alcuni estratti a Carnegie Hall il 3 marzo prossimo. Ho anche appena finito di incidere la musica del film "Uljhan", che uscirà in primavera, e sto musicando un bel documentario italiano sui pupi siciliani. Mi sembra di averti detto tutto quello che so al momento, nel prossimo decennio spero semplicemente di rimanere vivo, e poi di continuare a fare quello che faccio, andiamo contro anche a questa cretinata di mostrare ambizione ad ogni costo e spezziamo una lancia in favore dell'essere soddisfatti e accontentarsi. Al massimo credo che suonerò un po' di più in pubblico, che è una cosa che mi ha sempre interessato poco e ho fatto relativamente poco, ma forse a 38 anni è il momento giusto.
A presto, buon solstizio, che è oggi mentre ci scriviamo, e buon inizio di decennio!