STEFANIA AVOLIO - NATURAL ELEMENT (autoprod., 2020)
minimalism
La pianista e cantante Stefania Avolio debutta con un concept naturalista, “Natural Element”, fatto solo di pianoforte, elettronica e canto. “Symbiotic” si muove oscura e vaporosa su un “canto” di sintetizzatore, oltre alla melodia del piano e l’inno gaelico quasi-Enya della voce. L’altro pezzo con testo (ma più sorta di mantra), “Silent Moon”, vagamente jazzato, sembra generato dal “Chiaro di Luna” beethoveniano. Il grosso del disco fa però a meno delle parole, altresì con i gorgheggi di Avolio a fluttuare, svanire, ricomparire o assottigliarsi (tecnica dell’humming) sopra pattern classici ribattuti (“Natural Element”) o melodie tristissime (“Escapism”), qua e là ritoccate dal reverse psichedelico, a elevarsi in polifonie celestiali su temi palpitanti (“Cymatic”), o accordi riverberati con contrappunti vertiginosamente baroccheggianti (“Blizzard”), a mutare in ululati di sirena su un piano elettrico sdoppiato tra pattern di scala ascendente e la luccicante decorazione del Manzarek di “Riders On The Storm” (“Hypnotic”), fino a duettare con sé stessa nella più adorabilmente insistente, “Crystallization”. Già collaboratrice dei dischi di Lorenzo Masotto, Avolio si rivela distaccata e multiforme poetessa della tonalità minore. Assimilando con umiltà tre modelli, il “Vocalese” di Rachmaminoff, certo Wim Mertens e certa Meredith Monk, e anche se non sempre con pari fermezza, mesce la dolcezza con la mestizia, l’arcano con la turbolenza. Singolo: “Escapism” (video con la performer Elena De Angeli) (Michele Saran, 7/10)
MAESTRO PELLEGRINI - FRAGILE (Black Candy, 2020)
it-pop, songwriter
Abbiamo imparato ad apprezzarlo prima come chitarrista dei Criminal Jokers di Francesco Motta, poi - dal 2016 - come new entry nei Zen Circus, contribuendo in maniera determinante a rendere ancor più elettricamente intensa la formazione di Appino. Francesco Pellegrini inaugura con “Fragile” la propria carriera solista, un album anticipato negli scorsi mesi da due Ep che hanno svelato otto delle nove tracce qui incluse. Sin dalle prime note di “Siamo noi” la voce di Francesco è una piacevolissima scoperta: un musicista che mostra di avere - oltre alla tecnica chitarristica - la stoffa per potersi mettere al centro della scena. L’impronta del suo songwriting è in qualche modo it-pop, ma con la profondità della migliore canzone d’autore, riuscendo a delineare una strada propria, alternativa rispetto a quelle delle due band nelle quali ha finora militato. Amici e colleghi intervengono con featuring preziosi: Motta in “Francesco”, Appino e Giorgio Canali in “Cent’anni”, Lodo Guenzi de Lo Stato Sociale in “Semplice” (Claudio Lancia, 7/10)
GIUMO - NEBBIA EP (Peermusic Italy, 2020)
emo-rap
Dalla crew con base a Milano dei producer Klen Sheet (nonché di inni, loro spin-off) si distacca il solo Giumo per l’Ep “Nebbia” che già contiene qualche magia: una “Tutto dopo”, dedica anti-sentimentale strimpellata e introdotta da un bailamme elettroacustico; “Pa”, inno dolente su luccichii glitch-folktronici; una “Stessi disordini” giocata sul contrasto tra frenesia del beat e screziata liturgia della soundscape; “Ridormo”, una trap rallentata e deforme come in una rifrazione. Classe ’94, nativo di Bari ma residente a Milano, aiutato dai compagni di collettivo Goldreick e maggio, prodotto da Zollo, Giumo (al secolo Giuseppe Francesco Montemurno) scrive e produce il suo debutto all’insegna d’una sentita solennità, qualche volta tentato da una sorta di trascendenza personale che è il lato migliore della sua narrazione del nuovo disagio post-adolescenziale. Il peggiore sta in quell’indolenza volatile che, comunque, giustifica il titolo e supporta il piglio generale. Un credibile successore all’italiana di Lil Peep (Michele Saran, 6,5/10)
FRANCESCO MALAGUTI - ODISSEA 1984 (Miraloop, 2020)
electro-pop
Il multistrumentista Francesco Malaguti si dedica ora a Omero ridisegnando e condensando il suo poema epico con il mini di quattro pezzi “Odissea 1984”, affidandolo ad altrettanti “corifei”. Gliese Imai canticchia la nenia pop francesizzante di “Il vento ci spinge dentro”, inframezzandola con una buona prova di recitazione svampita, acquisendo verso la fine accenti dolenti come una rilettura chill-out della “Children” di Robert Miles. Emgy canta come una novella Cassandra in “The World Is Moving On”, in una landa di beat disco vecchio stile dall’incedere solenne più che ballabile. Anche quanto segue sta meglio in una sala d’ascolto anziché in una discoteca. Il beat elastico de “Il silenzio delle sirene”, da parte dell’ugola di Sir Jane, si avvampa in un lungo solo di sintetizzatore tremulo mareggiante. La chiusa di “Acheronte” prende l’abbrivio da una recitazione monologante (Leonardo Bianconi) per avvicendare tastiere grandiosamente polifoniche alla Vangelis e melodrammatiche divagazioni chitarristiche alla Slash. Primo risultato spendibile e godibile, qua e là anche originale nella sua pseudo-coralità, per il mastro artigiano di concept autoreferenziali “social-mediali” di origini bolognesi. Ne fa la fortuna la lussuosa, nitida mise di Gerolamo Sacco che non solo rabbonisce una forma di composizione altrimenti esosamente sovraccarica, ma cerca pure di restituire una rilettura mimetica della tragica grecità nei rigurgiti modaioli dell’oggigiorno. Dediche sottaciute alla scomparsa di Morricone (“Il vento ci spinge dentro”) e al dramma dei migranti (“Acheronte”) (Michele Saran, 6,5/10)
HOLA LA POYANA - A LONG COLD SUMMER EP (Hopetone, 2020)
folk-rock
Hola La Poyana è il moniker del cantautore Raffaele Badas (Cagliari). Nel suo Ep “A Long Cold Summer” aggiunge nuovi traguardi al suo canzoniere: “Your Past Doesn’t Mean A Thing”, stomp prebellico con sostrato di suoni psichedelici, “Like A Modern Jesus Christ”, su un plumbeo profluvio di corde acustiche ed elettrificate (arpeggio, brodo lisergico, assoli e contrappunti), e “Before You Leave”, marchiata da un sax spartito tra fanfare e svirgole. Terzo e forse migliore parto dopo il primo Ep “Lazy Music For Dry Skins” (2012) e il seguito “A Tiny Collection Of Songs About Problems Relating To The Opposite Sex” (2014), oltre alla partecipazione come bassista ai Takoma, anche se non poco rovinato da un’incursione nel lo-fi pop di basso calibro (sia strumentale, “Grab Thos Monsters”, che cantata, “Being The Odd One Out”). Soprattutto il suo più affollato, ben distante dal solipsismo degli esordi, in cui contano più le orchestrazioni (membri di Lilies On Mars, Was, Diverting Duo, il sax di Rigolò) che le canzoni. Ma non conta molto: la voce raspa e la personalità iniettata di Califone e Akron / Family incoronano a dovere il suo tumulto desertico. In regia Simone Sedda non si limita a dirigere il traffico (Michele Saran, 6/10)
MY GRAVITY GIRLS - I MISS SOMETHING AND MISS EVERYONE (Weakmusic, 2020)
dream-pop
I parmensi My Gravity Girls cominciano nel segno del dream-folk di Mark Kozelek-iana memoria, appena venato d’uno spirito lo-fi, con “The Curiosity For The Animals Remains” (2010), cui seguono due volumi di “Irrelevant Pieces” (2016). A un soffio dallo scioglimento del progetto il leader e fondatore Mattia Bergonzi riesce a far sopravvivere la sigla per “I Miss Something And Miss Everyone”, un suo disco solista corroborato da collaboratori vecchi e nuovi. La più emblematica di questo nuovo corso a base di strumenti elettronici e manipolazioni di studio è “Ann”, uno stomp-saltarello luccicante con pianoforte e coro-fantasma gorgheggiante. La cantilena intorpidita di Bergonzi (qua e là echi di Matt Berninger) si muove inerzialmente tra brume elettroniche, come in “Intimacy”, andando poi a lambire ipotesi ambient-techno basate su un timbro d’organo particolarmente atmosferico, come in “Wide Eyes” e “Blank Space”. “Berlin” e l’ancor più profonda “Five AM” ambiscono alle creazioni casual-pop di Brian Eno: un cantico appena strimpellato e canticchiato altresì ripreso e costruito con piena maestosità dalle tastiere. Perdonata una certa anemia generale non raramente paralizzante, e tagliati via brani pericolosamente sbilanciati verso un modaiolo soul elettronico, da questa collezione si scopre una polpa fatta d’incanto intimista e d’autunnale mestizia che sa guardare e scandagliare tanto l’interno quanto l’esterno del sé. Tutto prodotto in uno studio personalizzato, edito da una label di propria invenzione (Weakmusic: nomen omen) (Michele Saran, 6/10)
COLLARS - TRACOMA (Karma Conspiracy, 2020)
post-metal
Tutto in quel di Bologna: due menti dei Ornaments, Enrico Baraldi e Davide Gherardi, si distaccano dalla sigla principale per unirsi ai due Nadsat (Michele Malaguti e Alberto Balboni), peraltro prodotti dallo stesso Baraldi. Da questa fusione nascono i Collars e un disco di debutto, “Tracoma”. “Osmio” apre con un’alternanza tra il battito cardiaco rimbalzante della batteria e gli accordi distorti lapidari delle chitarre, poi anche variati e smunti in sospensione. L’ambience desolata di “Vertebra” si fonda su uno strimpellio rachitico via via imbruttito e inacidito a forza. Il picco di suspense oscura sta in “Livido”, con tintinnio in disparte della seconda chitarra, portata avanti fino all’ipnosi e poi a un pinnacolo di trascendenza, non solo corrivamente distorta. “Cumuli” inverte il processo (prima il forte roccioso poi il piano misterioso), ma la sua accelerazione esorbitante power-metal suona fuori tono; si fa perdonare con una chiusa di musica horror da camera. Il disco potrebbe finire così, giacché “Lautreamont” suona piuttosto ridondante e spompata (nonostante ci dia dentro proprio con la pompa). Sarebbe un disco di metal alternativo strumentale come tanti, e pure fuori tempo massimo, non ci andasse di mezzo un senso tragico in sospensione e progressione, quel grandguignolesco avvicendarsi di tonalità Slint-iane, a far capolino a volte come dissonanza e altre come gradiente ambient, che Baraldi in regia insaporisce con mestiere (Michele Saran, 6/10)
MORO & THE SILENT REVOLUTION - UNBECOMING (Vanishing Fox, 2020)
songwriter
Il liviense Massimiliano Morini continua imperterrito la sua avventura alla testa dei Silent Revolution con il settimo “Unbecoming”. Il disco comincia benino con uno sprint power-pop, “Nothing To My Name”, però ripreso al meglio in “Running Out Of Time” (l’highlight), ma fa deglutire storto in un paio di pezzi con i medesimi pro e contro, “Have You Ever” e “Boys”, entrambe forte di suoni vocalizzati quasi drone ed entrambi troppo reminiscenti di hit alt-rock dei 90 (la prima “I Can’t Sleep” dei La’s, la seconda “1979” dei Smashing Pumpkins con voglie alla Morrissey). Ritorno al canto anglofono dopo la deviazione italica di “L’imbarazzo senza scelta” (2019) ma la riconquista della comodità non basta: le canzoni, pur spesso pimpanti nel ritmo, accusano una anonimità e inerzia che la produzione sciatta di un deludente Franco Naddei non fa che risaltare e che alla lunga figlia pure momenti morti. Sarebbe un netto passo falso non ci fosse il trittico cantato dalla sua corista storica Paola Venturi: la novelty folk-pop “Come Along With Me” con rumori di modem, la solenne e distorta “Stay Out Of Trouble”, e la psichedelica rumorosa “After Dark”, tutto prodotto creativamente da Morini stesso. Perché non pubblicarlo come mini-album con un altro nome? (Michele Saran, 5,5/10)
HENRY CARPANETO - PIANISSIMO (Orange Home, 2020)
piano blues
“Voodoo Boogie” (2014), primo culmine di popolarità del bluesman Enrico Carpaneto (entroterra genovese), vede finalmente un seguito, “Pianissimo”, co-scritto con l’ospite d’onore del caso, Tony Coleman. Il suo piano ultravirtuoso, zampillante come un gioco d’acqua di fontane, imbevuto di esperienze live a rotta di collo, domina sia nei tempi boogie spavaldi da pianobar con fanfare di fiati New Orleans-iani che nelle composizioni più lente, come la title track di suo pugno o “My Kinda Slow”, praticamente una passerella di abilità improvvisative, o la ballad soul “I’ll Be There”, o ancora “Empty” per trio jazz. Raccolta più assemblata che meditata (cover, standard, e un pezzo cantato fuori calibro), pure tirata via nel finale, viepiù datata e canonica ma con sound notevolmente solido e una certa quale varietà che talvolta sa rinfrescare l’attenzione. Coleman spadroneggia e per farsi perdonare sfoggia una batteria (già con un certo B. B. King) autenticamente apprezzabile. Ci sono anche Waldo Weathers (sax, anche con la James Brown Band) e Lucky Peterson (chitarra, da poco mancato). Registrato tra Nashville e Leivi (Michele Saran, 5/10)
YELLOW KINGS - SONGS FOR THE YOUNG EP (atuprod., 2020)
alt-rock
Chiusa l’esperienza con i Vanessa Van Basten, Morgan Bellini si trasforma in Angela Martyr per un primo “November Harvest” (2016), quindi chiama a sé un basso (Zappeo) e una batteria (Franz Valente) per un nuovo progetto di gruppo, dapprima battezzato Droga quindi Yellow Kings. Perso Valente i due lo sostituiscono con una drum machine: giocoforza l’ultimo Ep “Songs For The Young” vira nel sound a un misto di grunge e rock industriale di marca Steve Albini e Godflesh. “Fucked Up” suona però come dei Soundgarden remixati (maluccio) dai Rammstein. “Junkfuck” è invece un hard-rock dal temperamento quasi psichedelico e un prefinale da arieti industrial-rock (che però all’ultimo abdica in favore del ritorno alla nenia del canto). Per sentire un’altra canzone con un po’ d’impatto e impeto bisogna arrivare a “Wrong Side Of The River”. Seguito del primo omonimo “Yellow Kings” (2017), che era una demo. Anche la resa di questo, piatterella e pure squinternata, non va molto oltre il provino. Qualche buon innesto metal-gaze, il genere di massima confidenza del Bellini strumentista; va molto meno bene con gli innesti dark-wave, probabilmente ancora reminiscenti dell’Ep “Disintegration” (2015), ultimo parto a nome Vanessa (ma sono cover dei Cure). E’una sorta d’operazione nostalgia non meglio collocata, non ben caratterizzata. Quasi un tonfo per il chitarrista genovese (Michele Saran, 4,5/10)
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