MAX NOCCO – Rusty Trombone (2018, Killed By Disco)
world music, disco
La contaminazione come approccio fondamentale, e la musica a fungere da vettore alato: è da tale metaforica fusione d’intenti che potremmo partire per entrare nel mondo musicale di Max Nocco, di certo non l’ultimo arrivato, nonostante le due tracce con mix finale di Sonda contenute nel qui presente Ep “Rusty Trombone” costituiscano de facto il suo esordio discografico. Già, perché Nocco ha un passato come batterista in gruppi hardcore/metal (Crollo Nervoso, Frattura, Hyoid, Run Patty Run, Shank), ed è un bravissimo disc jockey, un vero e proprio artigiano ai piatti. Il suo amore infinito per la musica, unito a una visione totale e totalizzante, traccia un percorso che orienta l’ascoltatore verso fascinazioni world al contempo suggestive e pulsanti. C’è vita nella title track e c’è vita anche nella successiva “Viajar Com O Sol”. E’ come se Jon Hassell invitasse i Silver Apples a bere un aperitivo sull’incantevole spiaggia di qualche cala ibizenca nei benemeriti ’70. Un party irresistibile, con ripartenze disco inebrianti, e l’Arthur Russell travestito da Dinosaur L nel mirino e nel cuore. Una doppietta di classe, a cui segue l’ottima rivisitazione in salsa dancefloor del fidato Giovanni Ottini, aka Sonda. Se il buongiorno si vede dal mattino, non ci resta che prendere gli occhiali da sole e attendere l’arrivo del primo atteso Lp divinamente distesi sul più limpido dei bagnasciuga (Giuliano Delli Paoli 7/10)
DEAF KAKI CHUMPY – Stories (2018, autoprodotto)
jazz contaminato, funk, nu-soul
Sono in diciotto, tutti giovani musicisti milanesi che hanno dato vita a un vero e proprio caleidoscopio musicale, un frullato denso di influenze jazz, funk, r&b, latin ed electro. Prendete l’iniziale “Turn On The Light”, l’incedere hip-hop notturno, avvolto da un morbido sassofono, poi, all’improvviso, l’atmosfera s’impenna, dando vita a una seconda parte velocissima, una rincorsa a perdifiato. Anche nel resto della scaletta si alternano momenti descrittivi e decisivi scarti nei quali il funk è sempre dietro l’angolo, pronto a prendersi il centro della scena, sottolineato dai fiati che conducono non di rado verso la ballabilità dell’acid jazz (“Shake It Up”). Le voci alternano italiano e inglese con predilezione per le inflessioni modern soul. Non manca qualche dolce svolazzo di pianoforte e persino una chitarra elettrica all’occorrenza pronta a rinvigorire il mood. A chiusura del disco, una personale versione di “Thinking Out Loud” cover di un brano firmato Ed Sheeran, già contenuto nel vendutissimo “X” (2014). In tutto questo la parola d’ordine dell’intero “Stories” non può che essere una: “contaminazione” (Claudio Lancia 6,5/10)
BAD PRITT - Bad Pritt (2018, Shyrec)
trip-hop
Chitarrista dei tre trevigiani post-rock The White Mega Giant, Luca Marchetto avvia anche una carriera solista elettronica a nome Bad Pritt. Il suo primo album omonimo si apre con “The Ghost In My Bed”, un preludio non soltanto per modo di dire: l’afflato è pienamente sinfonico, l’incedere imponente e marziale. Il battito a tic-tac d’orologio, la voce elettronicamente aliena, i continui arabeschi degli archi, nei dodici minuti di “Stalactite/Stalagmite” espandono il concetto, incrociando pregi e difetti della creazione elettronica coeva. A proseguire più fedelmente la tragicità di “Ghost In My Bed” sono piuttosto “International Dark Sky Association” (nove minuti), aperta da un requiem per ensemble da camera, un momento topico poi attenuato dall’entrata del beat sintetico, come un meeting tra i Wiener Philarmoniker e un collettivo electro-dub, e la sua versione a quadrupla velocità, “XOXO”, non solo più sprintante e dinamica ma forse anche più genuinamente sperimentale. Sovraprodotto, in eccesso di finiture per addizione, e carente di scintilla nelle sue idee un tantino sempliciotte, il disco di Marchetto (già responsabile della piega elettronica della band madre) si riscatta e afferma nella cifra di dramma, una sconsolatezza senza sconti che va giù come acqua fresca. La sua coscienza classicheggiante, violini, pianoforte, persino ottoni e cori, filtrata e riemessa dall’analogico, diventa però davvero cristallina in un’eccezione, il tenue valzerino Sigur Ros-iano di “Falls Like A Domino” (Michele Saran 6,5/10)
LENNARD RUBRA – Paracusie Notturne (2018, LFA 27 Zeitgeber Enterprise)
experimental-pop, weird-pop
Lennard Rubra, classe 1997, polistrumentista di Riccione, affascinato sin dall’adolescenza dalla musica popolare brasiliana degli anni 70, dagli Smiths e da John Cage, dopo due EP rilasciati a maggio del 2018 approda all’esordio su lunga distanza. Un lavoro, a detta dello stesso autore, ossessivo-compulsivo con disturbi dell’umore, rielaborazione personalissima della propria visione di pop deviato. Una forma di pop immerso in una psichedelia iper acida, come se l’universo indie italico dei vari Calcutta di turno fosse fagocitato da dei King Gizzard fuori di senno. Non c’è nulla di lineare o di prevedibile in queste otto tracce bizzarre, frutto di un approccio totalmente free alla materia musicale, fatto di nevrosi notturne, lunghe session di registrazioni e un’innata propensione alla destrutturazione. La forma canzone viene completamente ribaltata, e resa come un magma sonoro nel quale si fa fatica a riconoscere le parole, come miscelare l’alt-rock dei Verdena all’estetica nebulosa dei My Bloody Valentine. Immaginate dei Real Estate sotto LSD, dei Flaming Lips impegnati a flirtare col dream-pop, oppure come potrebbero suonare i Beach Fossils o gli Of Montreal se fossero cresciuti a Riccione. Ascoltare per credere. Se cercate un approccio nuovo e stimolante al moderno it-pop, da queste parti lo troverete (Claudio Lancia 6,5/10)
DES MOINES – Like Freshly Mown Grass (2018, We Work)
songwriter
Simone Romei, reggiano, s’inventa il soprannome Des Moines per un primo omonimo (2015) autoprodotto e autodistribuito, in cui trova origine la sua alternanza tra strumentali e canzoni lo-fi in stile Iron & Wine. L’Ep “Backwoods” (2018) reinterpreta tre di queste canzoni e di fatto anticipa nell’estetica il successivo “Like Freshly Mown Grass”. Le due componenti si rinnovano. La dimensione solo strumentale riceve una classica infatuazione per l’american primitive di John Fahey: imitazioni acquarellate dei suoi lenti “cantici di morte” si ritrovano più o meno fedeli in “Crickets And Cicadas” e nel lungo brano eponimo di chiusa, ma la più autentica e commovente è forse l’aurorale “Wood Gathering”. Le canzoni cantate ricevono la benedizione di archi da camera con preziosismi quasi barocchi (“Afternoon Sun”) e sovratoni indiani (“Happy Smiles”), fino a trovare convergenza, un’epica quadratura in “Daffodils”. Fluido nelle tessiture folk, con padronanza per le scansioni e le cadenze, lo attorniano nomi importanti, Egle Sommacal (produzione, arrangiamento), Emanuele Reverberi (violino), Samuele Riva (violoncello), Mali Yea (shruti-box). E’ un album-progetto che tende al totale, a una sfumatura impalpabile fatta di commistioni di tecniche, con lo charme e i limiti dell’incompiuto. Co-produzione We Work e diNotte (Michele Saran 6,5/10)
WHIP HAND – Sometimes, We Are (2018, MiaCameretta / Lady Sometimes)
dream-pop, indie-rock, shoegaze, wave
Nuovo capitolo della proficua collaborazione fra le due label laziali MiaCameretta e Lady Sometimes: il secondo album dei Whip Hand, band di Trani che miscela dream-pop, indie e shoegaze. Il quartetto pugliese propone atmosfere più brillanti (“Already Gone”, la title track) e meno malinconiche rispetto alle precedenti pubblicazioni, un approccio a tratti persino prepotentemente alt-rock (“The One Who Taking Care Of The Past”) che non cela il consueto senso generale di inquietudine. “Sometimes, We Are” presenta per la prima volta la seconda chitarra, elemento che conferisce ulteriori soluzioni rispetto a quelle già sperimentate in passato. Atmosfere oniriche, in costante bilico fra sogno e realtà, testi incentrati su rapporti che si incrinano, sulle necessità che mutano, su persone che intraprendono percorsi differenti. E un paio di eccellenze dai tratti wave, non prive di belle intersezioni strumentali, una su tutte, “Compromises”. Un disco che segna una discontinuità importante e presenta una band matura, pronta per il grande salto e in grado di far propria la lezione di Smiths e Cure. Una produzione che avvicina i Whip Hand a tante significative proposte d’oltre manica (Claudio Lancia 6,5/10)
SAVANA FUNK – Bring In The New (2018, Sidecar)
funk-rock
Il chitarrista jazz Aldo Betto, nato in Veneto ma di stanza a Bologna, chiama a sé una sezione ritmica di origini afroamericane, il bassista Blake Franchetto e il batterista berbero Youssef Ait Bouazza. Il primo disco del terzetto, “Musica analoga” (2016), abbozza piccole jam e numeri rilassati. Il secondo “Savana Funk” (2017) accentua la componente afro ed è la vena della line-up definitiva, che non per niente si rinomina proprio Savana Funk e in qualche modo ri-esordisce con “Bring In The New”. La title track in tempo rilassato e sovraccarica di riverberi sembra richiamare il periodo elettronico dei Parliament; “Old School Joint”, invece suonata tutta d’un fiato su controtempi spericolati, offre spettacolarità e divertimento. Il combo spicca pure nella versione lenta, spoglia e morriconiana, “Hip Latin”. Gli undici minuti, otto più reprise in coda, di “Zahra” sembrano stroppiare, per via dell’esotismo troppo scoperto e del tour-de-force di Betto che evidenzia limiti di immaginazione (non va molto oltre lo street-funk e il frasario blues Hendrix-iano), pur con un finale festaiolo. S’allunga la lista della moda del passatismo funk all’italiana, con Calibro 35 e Nu Guinea, tradizione ribalda in modi spesso ruffiani. Non mancano però momenti di scatto brioso e di sapienza atmosferica, e un numero cantato – voce di Chris Costa – che punterebbe all’hit-parade pur scentrando lo stile, “The Walls Of The Shy” (un quasi-reggae). Lo scafato Nicola Peruch all’intelaiatura elettronica è un ottimo quarto uomo, ma ci sono anche Danilo Mineo, percussionista siculo, e “Don Antonio” Gramentieri dei Sacri Cuori (Michele Saran 6/10)
SEBASTIAN STRAW – Welcome Yesterday (2018, autoprodotto)
brit-pop, indie-rock
Il cantautore laziale Sebastiano Paglia, in arte Sebastian Straw, firma con l’Ep “Welcome Yesterday” il proprio esordio solista: quattro tracce scritte e arrangiate in prima persona, dalle quali emerge prepotente l’amore incondizionato per il britpop di Oasis, Verve, Blur e Supergrass. Un legame asfissiante con le sonorità inglesi che caratterizzarono gli anni 90, inequivocabile in particolar modo nella conclusiva “Better Than Before”, Gallagher sin nel midollo. Testi autobiografici nei quali in molti sapranno rispecchiarsi, sound talvolta malinconico, con dolcezza e rabbia che si rincorrono, in un mix di chitarre elettriche ed acustiche, pianoforti e tastiere, tutti suonati da Sebastian. Questi brani meritano di uscire dalla proverbiale “cameretta” per essere sottoposti alla prova della “rete” e del palco. E soprattutto meritano di trovare la compagnia di altre composizioni che andranno a comporre un album, al momento previsto per la prossima estate. Se son rose… (Claudio Lancia 6/10)
AUTOBLASTINDOG – Pornophorno (2018, Professional Punkers)
metalcore
Combriccola di quattro elementi dell’entroterra grossetano, Guerra (voce), Andrea (chitarra), Isacco (basso) e Ale (batteria), Autoblastindog debutta con le irruente scariche ultra-death di “HermesLyre” (2010), forti anche di due ingredienti destabilizzanti, entrambi a cura del vocalist, l’elettronica e un secondo growl più ferino. “Batracomiomachia” (2014) non per niente ne accentua le dosi, con un’attitudine appena più sbrigliata (collage di campionamenti e sortite semiserie alla Mike Patton) in mezzo alle muraglie di distorsione e alle mazzolate ritmiche. In “Pornophorno”, a parte episodi fini a sé stessi (“Stairway To Enel”, “L’attore porno”, “Diffusa illegalità”, “Vulvevolvendo”), il combo diffonde rude divertimento, con una “La morte di Eraclito” per cantante metallaro marziano e pause precisissime, una “M’asciuga” ripiena di kazoo canticchiante, un hardcore “bellico” come “#Soppartito”, e “Luddismo Mon Amour” che alterna il solito vomito bestiale a monologhi plateali, fino ai bisbigli finali di “S.C.C.”. Ci sono comunque due gioielli, “E il sommo decade”, finora la loro baraonda migliore, e “Selfie=sega”, introdotta da bombardamenti, svolta come dei System Of A Down al fulmicotone, infine capitombolante nel caos più decerebrato. Dopo l’esperienza parallela con i Lvtvm (“Adam”, 2015), una sorta di concept su pornografia (di massa viepiù), social network, talent show e salottini TV, ma più che altro terzo capitolo di una saga a follia crescente. Che include: spezzoni campionati (tra cui il proclama elettorale di Moana Pozzi), citazionismo lirico (anche la “Carmen” di Bizet) e canzonettistico, e turgidi cambi di tempo che cercano di spazzolare lo scibile della letteratura ritmica rock. Mattacchione e goliardico, ma non proprio innocuo. Co-prodotto con Cave Canem DIY (Michele Saran 6/10)
GIAN MARCO BASTA – Quando Basta vol. 3 (2018, Libellula)
songwriter
Gian Marco Basta, poeta girovago di strada con due raccolte all’attivo, “Pierrot randagio” (2002) e “Bisogna vivere!” (2008), scopre nella sua Bologna anche l’arte del cantautorato. Le sue canzoni, le ultime collezionate in “Quando Basta vol. 3”, sono infatti proprio poesiole trasformate col minimo indispensabile di musica, cantate così cosà. “Don’t Cry alla CRAI”, anche primo singolo, sbeffeggia le ballatone da accendino, “Vegano vegano”, in tempo di vaudeville, ci dà ancor più dentro di rime, assonanze e citazioni di spot, “Roby Puma” richiama “Arriva la bomba” di Johnny Dorelli, “Accalappio cani” è una gag con aromi quasi dixieland. Lo completa una contenuta regione di brani sentimentali in una più ortodossa vena acustica. Seguito di “Teatrino di Basta” (2014) e “Secondo Basta” (2016), patetico, comico, ridondante e irritante in parti (quasi) eguali. Rinnovellata la tradizione dei guitti d’avanspettacolo alle prese con tragedie coeve (ludopatia inclusa) mimetizzando e svilendo la vis polemica in burla scacciapensieri. Arrangiamenti rustici ma non ruspanti di Claudio Giovannini, produzione di Francesco Guaraldi (Michele Saran 5/10)