John Vanderslice

John Vanderslice

Visioni analogiche in hi-fi

Appassionato di tecniche di registrazione e fondatore degli studi Tiny Telephone di San Francisco, John Vanderslice ha saputo costruire disco dopo disco un songwriting capace di non rinunciare mai alla ricerca meticolosa del suono. Dando vita a un repertorio denso di influenze letterarie e di suggestioni cinematografiche

di Gabriele Benzing

“Wear your headphones and I’ll whisper you the code”

 

“Sloppy hi-fi”: cura e imperfezione, unite in un tutt’uno inscindibile. È il binomio coniato da John Vanderslice per descrivere la propria musica: una commissione di fai-da-te e alta fedeltà che fa da perfetta sintesi dell’indole di un songwriter atipico, votato tanto alla spontaneità espressiva quanto alla ricerca maniacale del suono.

Cresciuto tra Florida, Georgia e Maryland, è a San Francisco che Vanderslice ha trovato la dimensione ideale. Proprio all’ombra del Golden Gate, infatti, Vanderslice ha dato vita nel 1997 agli studi Tiny Telephone, compimento perfetto della sua passione per le tecniche di registrazione. Tra le mura degli studi hanno preso forma dischi di gente come Mountain Goats, Death Cab For Cutie, Okkervil River e Spoon. Ed è proprio l’attenzione meticolosa per il suono a segnare il discrimine tra la musica di Vanderslice e i consueti canoni del cantautorato indie americano.

 

Tra il 1994 e il 1999, la carriera artistica di Vanderslice prende le mosse dal lato più avventuroso, come leader dei MK Ultra al fianco della chitarra di John Tyner, del basso di Dan Carr e della batteria di Matt Torrey. Con tre album all’attivo, tutti all’insegna di un audace alt-rock, e con un seguito concentrato soprattutto nell’area della Baia di San Francisco, la band si scioglie all’indomani dell’abbandono di Tyner. Giusto in tempo per salutare il debutto solista di Vanderslice, Mass Suicide Occult Figurines, che vede la luce nel 2000 per l’etichetta di Seattle Barsuk Records.

Un esordio con cui Vanderslice riesce a conquistare persino la ribalta della cronaca negli States, inventandosi la storia di una persecuzione legale da parte della Microsoft per avere intitolato uno dei brani del disco “Bill Gates Must Die”: una sarcastica invettiva che si scaglia senza troppi giri di parole contro Mr. Windows, incolpandolo della dipendenza dalla pornografia in rete del protagonista.

 

Le canzoni di Mass Suicide Occult Figurines suonano fortemente debitrici dell’indie-rock americano anni Novanta, collettivo Elephant 6 in testa. Non a caso, il titolo dell’album deriva proprio dai versi di un brano dei Neutral Milk Hotel, “Song Against Sex”.

Lo si sente sin dall’iniziale “Confusion Boats”, con la sua melodia vaporosa contornata da spigoli di chitarra. Le atmosfere si distendono momentaneamente tra le pieghe di “Josie Anderson” e “Gruesome Details”, fino a confluire negli archi del brano strumentale che dà il titolo al disco. E i saturi riff elettrici di “Speed Lab” e “Bill Gates Must Die” confermano il legame con la precedente esperienza tra le fila dei MK Ultra.

 

Appena un anno dopo, l’opera seconda del songwriter americano, Time Travel Is Lonely, è già realtà. Ma, rispetto al predecessore, il cambiamento di clima è subito evidente. Ad annunciarlo sono le tastiere e la fanfara di “Keep The Dream Alive”, capaci di tratteggiare con la forza dell’inno il primo vero punto saldo del repertorio di Vanderslice.

Affiancato in sede di produzione da John Croslin e Scott Solter, Vanderslice accentua l’anima elettronica dei brani, dagli accenti di drum machine di “Little Boy Lost” e “Gainesville, Fla” agli interludi strumentali che inframmezzano la scaletta (e che si spingono a portare a bordo di un UFO nientemeno che il “Clavicembalo ben temperato” di Bach).

 

Time Travel Is Lonely cresce anche in coesione, sia dal punto di vista musicale che da quello tematico. Le liner notes dell’album danno voce al racconto di un immaginario isolamento dal mondo tra i ghiacci dell’Antartide, fino alla progressiva perdita del senso della realtà.
In questo concept solitario, a percorrere in controluce i brani è il senso del ricordo. Un ricordo che si declina ora come memoria storica (l’immagine dei carri armati di piazza Tienanmen citata in “Do You Remember”), ora come reminiscenza familiare (i luoghi d’infanzia rievocati in “Gainesville, Fla”). Assumendo addirittura i tratti di un'estrema risorsa della tecnologia, come suggerisce la title track: “Wear your headphones and I'll whisper you the code/ Of a helper application that you can download/ It's called Remember”. Con il suo andamento da solenne apocrifo di “Ok Computer”, è il perfetto emblema delle angosce futuriste di Vanderslice.

 

Can you survive a look inside?”

 

Cellar DoorUno scantinato trasformato in laboratorio musicale, una pila di cassette TDK pronte all’uso e un registratore a quattro tracce Tascam 424: è lo scenario che fa da sfondo a Life And Death Of An American Foutracker, il disco con cui John Vanderslice rende omaggio più esplicitamente che mai alla sua viscerale passione per la registrazione analogica. A partire dall’ode feticista al Tascam 424 di “Me And My 424”, un gioco di incastri di pianoforte e archi dall’appeal obliquamente pop in cui il songwriter americano si fa affiancare da Ben Gibbard dei Death Cab For Cutie.

Si tratta di uno soltanto degli ospiti del disco, visto che John Darnielle dei Mountain Goats firma a quattro mani con Vanderslice una coppia di brani (“Nikki Oh Nikki” e “Cool Purple Mist”), suggellando un rapporto di amicizia e condivisione artistica destinato a permanere negli anni (tanto che proprio Vanderslice produrrà per lui due dischi del calibro di “We Shall All Be Healed” e “The Sunset Tree”).

 

Le coordinate di Life And Death Of An American Foutracker proseguono lungo la scia di Time Travel Is Lonely, senza però riuscire a replicarne la medesima efficacia. A sottolineare la continuità con il disco precedente, persino gli intermezzi strumentali adottano una numerazione progressiva rispetto a quelli di Time Travel Is Lonely.

Anche in questo caso è un concept unitario a legare i capitoli dell’album, scandagliando l’animo e le relazioni di un artigiano del lo-fi. Così, quella che sembra la semplice invettiva di un amante deluso si trasforma in “Nikki Oh Nikki” in una sorta di riconciliazione con sé stessi e con gli altri, in un vibrare di tastiere e interferenze scandite da una tintinnante ritmica pinkfloydiana.
I brani si sviluppano seguendo costruzioni mutanti, dalle improvvise aperture di fiati di “The Mansion” alle divagazioni farmacologiche di “Amitriptyline”, ma spesso faticano a trovare a trovare la loro dimensione. La tentazione di Vanderslice, in fondo, è sempre la stessa: innamorarsi di un suono fino al punto di trascurare l’equilibrio complessivo.

 

Si dice che “cellar door” sia la più bella espressione della lingua inglese: un perfetto esempio di purezza fonetica, a detta di J.R.R. Tolkien. Nel 2004, John Vanderslice sceglie proprio Cellar Door come titolo per il suo quarto album, unendo la suggestione letteraria al senso di apertura verso universi sconosciuti (“Donnie Darko” docet).

La formula costruita dal songwriter americano nei dischi precedenti raggiunge il suo equilibrio più compiuto, da qualche parte tra le pulsioni alternative degli Spoon e un cantautorato dal retrogusto bowiano. Lo scheletro dei brani privilegia la dimensione acustica, ma è un’acustica distorta, sostenuta dalle tastiere e sporcata di pulviscolo elettronico. “C’è qualcosa di femminile e sottile in una chitarra acustica”, riflette Vanderslice, “anche quando è distorta fino ad arrivare al cielo”.

 

Tra accordi di piano, orchestrazioni ed occasionali inserti di fiati, la voce dai riflessi metallici di Vanderslice declama appassionata le sue vivide immagini cinematografiche, citando pellicole di culto come “Mulholland Drive” di David Lynch in “Promising Actress” e “Requiem For A Dream” di Darren Aronofsky in “When It Hits My Blood”.

“Up Above The Sea”, con il suo moog scandito come un codice Morse verso il cielo, introduce subito in un’atmosfera visionaria, raccontando le riflessioni di un cacciatore riluttante tra i clangori di percussioni dall’andatura marziale. La morbidezza degli archi non toglie slancio a “They Won’t Let Me Run”, mentre “White Plains” lascia insinuarsi sottopelle la melodia.

Cellar Door (a cui si affianca l’album di remix MGM Endings) porta insomma le ambizioni del songwriter di San Francisco a un livello superiore. Vanderslice dichiara addirittura di ispirarsi alle tecniche pittoriche di Paul Klee per lo “studio sulla distorsione” messo in scena sul respiro sgranato di “Pale Horse”. “From the haunts of daily life/ Where is waged the daily strife/ Common wants and common cares/ Cuts the human heart with tears”: la condizione umana è fatta di cuore e lacrime, sembra suggerire Vanderslice. Non ci si può accontentare delle illusioni.

 

“Some kind of declaration”

 

Pixel RevoltLa sfida più difficile è sempre quella con il riflesso della propria immagine nello specchio. Soprattutto per chi, come John Vanderslice, ha sempre messo al primo posto la costruzione di una galleria di storie e di personaggi. Il songwriter americano decide di affrontarla a viso aperto nel 2005, con un album destinato a diventare il punto di riferimento della sua discografia: Pixel Revolt.

“Ad incoraggiare questo cambiamento è stato il fatto che nella mia vita personale ogni cosa era andata a pezzi”, racconta. “Mi è diventato sempre più chiaro che dovevo immergermi a scrivere di quello che mi stava succedendo”. Un processo più doloroso che catartico: “Concretizzare sensazioni ed emozioni è stato come osservare una farfalla fossilizzata nell’ambra”.

Vanderslice decide così di affidarsi all’aiuto di due dei suoi più stretti amici e collaboratori: il mago dei suoni Scott Solter e il mago delle parole John Darnielle. “Ogni respiro e ogni nota, nel disco, hanno qualcosa a che vedere con Scott e John”, spiega. Con il leader dei Mountain Goats, in particolare, si crea un vero e proprio “workshop di songwriting”, come lo definisce lo stesso Vanderslice: Darnielle passa al setaccio ogni canzone, offrendo suggerimenti e correzioni. “Mi ha dato tonnellate di revisioni, a volte aggiungendo persino versi e intere strofe. Mi ha dato una prospettiva diversa nella scrittura, perché sapevo di dover lavorare duramente prima di mandargli qualcosa”.

 

Le angosce personali, in Pixel Revolt, si confondono con quelle dell’America segnata dall’11 settembre. Tra i fraseggi di mellotron di “Exodus Damage” (ispirata nel titolo a un verso dell’amico David Berman dei Silver Jews), Vanderslice mette in scena un dialogo serrato tra un militante antigovernativo e il suo misterioso committente, in cui le ipotesi di complotto che aleggiano tra le immagini degli attentati suicidi sfumano in un falso videogioco di rivoluzione.

Il soffio avvolgente delle morbide tastiere punteggiate di aghi di “Trance Manual” lascia senza fiato, mentre su un battito appena accennato la partitura sintetica degli archi sembra un miraggio nella calura: a Vanderslice bastano pochi versi per tratteggiare l’incontro tra un giornalista al fronte e una prostituta irachena vestita come la “bandiera di una nazione minacciosa”, ed è un capolavoro di grazia nella polvere della guerra.

 

Il clima si fa più raccolto e intimista del solito, dal pianoforte rarefatto di “Farewell Transmission” alla nudità di “Dead Slate Pacific”, passando attraverso l’aura soffusa di “New Zealand Pines”. Anche i riferimenti cinematografici esplorati in Cellar Door fanno nuovamente la loro comparsa, dando vita in “Continuation” alla storia della caccia a un serial killer ispirata a “L’elemento del crimine” di Lars Von Trier.

A conferma dell’importanza di Pixel Revolt per Vanderslice, dell’album vengono offerte in download gratuito due ulteriori versioni: una rilettura acustica catturata da un registratore a due tracce (Suddenly It All Went Dark) e un remix analogico firmato Scott Solter (Scott Solter Remixes Pixel Revolt In Analog), senza dimenticare l’edizione giapponese del disco, che aggiunge alla scaletta l’outtake “The Kingdom”.

Con cinque album sfornati al ritmo vorticoso di uno all’anno, la Barsuk Records decide di riassumere nel 2006 il percorso di Vanderslice attraverso i tredici brani della raccolta Five Years, sorta di anomalo greatest hits senza hits che fa da perfetto biglietto da visita del songwriter di San Francisco. La venerazione di Vanderslice per i Radiohead trova invece sfogo l’anno successivo, con l’inclusione di una suggestiva cover di “Karma Police” nella compilation “Ok X: A Tribute To Ok Computer”, presentata dal sito web Stereogum.

 

Le ossessioni dell’America di inizio millennio, come una ferita che si ostina a non volersi rimarginare, bruciano anche nel successivo album di Vanderslice, Emerald City, pubblicato nel 2007. Lo spettro delle Torri Gemelle getta ancora una volta la propria ombra sinistra sui versi, ma stavolta la paranoia è ancora più opprimente, l’angoscia più livida, l’insicurezza più profonda. Saette che squarciano il cielo, nubi che oscurano i grattacieli di New York, la Torre dei tarocchi come un’oscura premonizione di sventura: Emerald City si presenta come il disco più teso e nervoso del songwriter californiano, dominato da riverberi di chitarre ed immagini di apocalittica claustrofobia.

Un approccio diretto ed essenziale, che conduce Vanderslice a osare meno che in passato nella ricerca sonora. I momenti più efficaci di Emerald City finiscono per essere così quelli in cui gli spigoli delle chitarre acustiche prendono il sopravvento, riempiendo lo spazio con i loro effetti distorsivi, come nell’iniziale “Kookaburra”, in “Time To Go” e nella vibrante “White Dove”.

Non mancano le ballate nel più classico stile di Vanderslice, come “The Parade” e “The Tower”, ma quando cerca di spingersi in una direzione differente, Emerald City preferisce lasciare da parte le pulsazioni analogiche di Pixel Revolt: “Tablespoon Of Codeine” e “The Minaret” si spostano così verso atmosfere indietroniche scandite da un pianoforte jazzistico, da qualche parte tra Tunng e Thom Yorke.

La città di smeraldo del titolo si riferisce alla “zona verde” di Baghdad, l’enclave eretta dalle forze americane nel centro della capitale irachena come quartier generale del governo provvisorio dopo la caduta di Saddam Hussein: metafora di un’assedio permanente in cui l’America si sente stretta ed in cui la vita sembra rimanere intrappolata.

Dal protagonista di “Tablespoon Of Codeine”, imbottito di narcotici per sfuggire all’assillo che gli attentati dell’11 settembre non siano altro che un falso, fino al soldato americano che in “The Minaret” raggiunge la cima di una moschea e rimane paralizzato dalla possibilità di contemplare entrambi i lati del campo di battaglia, per i personaggi di Emerald City sembra impossibile sfuggire dalla propria gabbia.

 

Il circolo vizioso della condizione umana può essere spezzato solo da un’impossibile irruzione del perdono, verso di sé e verso gli altri. È questa la consapevolezza che Vanderslice sembra suggerire al vertice del disco, quando in “White Dove” descrive la scena di un uomo che va a trovare la propria nuova vicina di casa, fermandosi da lei a bere un drink sulla veranda. Un’istantanea di quotidianità inconfondibilmente americana, che viene spezzata da una semplice domanda: “Hai figli?”. Con una smorfia di rabbia, ecco fluire allora il racconto del brutale rapimento e assassinio di una bambina di otto anni, che si contrappone drammaticamente al simbolo di pace evocato dal titolo. “It’s not about mercy, not about tears anymore / White dove, what are you thinking of?”. Misericordia sembra davvero una parola sconosciuta al vocabolario umano. Eppure è solo quel paradosso apparentemente inaccettabile che può vincere la spirale della vendetta.

 

“Time to go”

 

Romanian NamesUna nuova etichetta, nuovi collaboratori, un nuovo contesto: il settimo disco firmato John Vanderslice, Romanian Names, pubblicato nel 2009, si propone come un nuovo inizio e, al tempo stesso, come una sorta di summa del raffinato stile perfezionato negli anni dal songwriter americano. Lasciate da parte le asperità di Emerald City, Vanderslice torna così ad avvicinarsi alla ricchezza di Pixel Revolt, confezionando quello che appare come il suo lavoro più apertamente pop.

“Volevo dare una scossa”, spiega. “Penso che sia soltanto positivo uscire da dove si sta più comodi”. Dopo quasi un decennio alla Barsuk Records, eccolo allora traslocare in cerca di nuovi stimoli presso la texana Dead Oceans, label “sorella” di Jagjaguwar e Secretely Canadian. “Sapevo che avrei realizzato un disco diverso se avessi cambiato etichetta. Mi interessa quello che capita quando lavori con persone differenti: cambia il modo in cui scrivi e in cui pensi alla musica”.

 

La vaporosa atmosfera alla Grandaddy di “Tremble And Tear” detta subito un clima più solare che mai. “Fetal Horses”, con le sue tastiere acidule e le sue punteggiature di pianoforte, sembra provenire da certe pagine del Joseph Arthur meno convenzionale. E il ritmo spigliato dell’addio di “C&O Canal” fa pensare ad un Casiotone For The Painfully Alone in vena di leggerezza. Ma se c’è un classico, in Romanian Names, si tratta senz’altro di “D.I.A.L.O.”, con il suo andamento dal sapore retrofuturista e i suoi riverberi morbidamente Flaming Lips.

L’attenzione si concentra soprattutto sulle linee melodiche e sulle parti vocali: le canzoni di Romanian Names non sono nate come di consueto tra le pareti familiari degli studi Tiny Telephone, ma nella cantina di Vanderslice, con il solo ausilio di chitarra, pianoforte e voce; le stratificazioni di tastiere, mellotron e “intermittenze” sono arrivate solo in un secondo momento, con la collaborazione del solito Scott Solter e con la decisiva influenza di un batterista di estrazione jazzistica come Matthias Bossi.

 

“Stone by stone / I left my only home”. Sul levitare fluido delle tastiere di “Too Much Time”, Vanderslice riflette sulla fuga e sulla solitudine, per arrivare ad un’amara conclusione: “Freedom is overrated”. È la parabola di una relazione in cui ci si ritrova a specchiarsi l’uno nell’altro, il tema di fondo di Romanian Names; una parabola fatta di contraddizioni, come la lotta che in “Oblivion” contrappone la volontà di dimenticare ed il bisogno di essere ricordati. I versi di Vanderslice assumono un tono meno narrativo e maggiormente evocativo che in passato, fino alla pagina di diario di “Hard Times”, che conclude il disco con un lirismo di archi: “To find an answer I searched every sentence / And ended deeper still in hard times”.
Tra il 2009 e il 2010, Vanderslice dà alle stampe una coppia di Ep: il primo, Moon Colony Bloodbath, cointestato con i Mountain Goats, porta a compimento l’ininterrotto gioco di squadra con John Darnielle, tratteggiando con taglio asciutto uno scenario da sci-fi claustrofobica. Il secondo, Green Grow The Rushes, viene offerto in download gratuito e raccoglie un pugno di outtake di Romanian Names, senza aggiungere molto al quadro complessivo dell’album.

 

Il desiderio di cambiamento già sotteso a Romanian Names si acuisce nel 2011 con l’incontro tra Vanderslice e la Magik*Magik Orchestra, un'orchestra modulare di giovani musicisti classici guidata da Minna Choi, che apre al songwriter di San Francisco le porte di una dimensione artistica per lui ancora inesplorata. “La cosa cruciale per me, ora, è lo stupore, il rischio”, afferma Vanderslice: quell'istante decisivo in cui la vita si trova di fronte a una scommessa da accettare. “Voglio trovarmi costretto a chiedermi dove diavolo mi sono cacciato: sono questi i momenti che ci insegnano qualcosa”. Quello che ne nasce è un disco libero e arioso, intitolato White Wilderness.

È lo stesso modus operandi di Vanderslice a venire riscritto dalle fondamenta: tutto nasce da un pugno di bozzetti per chitarra e pianoforte, affidati senza riserve alle mani di Minna Choi e della sua orchestra. “Le ho detto solo che non volevo sentire niente di quello che avrebbe realizzato: volevo che fosse libera al 100%”. Un passo indietro tutt'altro che facile, per un maniaco delle rifiniture sonore come lui, ma grazie al quale la sua musica si scopre inaspettatamente trasfigurata: “È stata una completa rivelazione: se si confrontano i demo con il risultato finale, sono totalmente all'opposto”.

 

L'afflato cameristico degli arrangiamenti, in brani come “The Piano Lesson”, divaga in guizzi e intrecci alla Sufjan Stevens, destreggiandosi tra diafani gorgheggi e bordoni di fiati. Ma la concisione del disco riesce a mantenere un equilibrio misurato e mai gratuitamente pretenzioso: basta ascoltare la ricchezza circense di “Convict Lake”, animata da intermezzi di ottoni dal sapore felliniano, o la coralità suadente delle partiture di “Alemany Gap”.

La voce di Vanderslice si fa più indifesa che mai, sullo sfondo dei paesaggi impressionistici della title track. Tra l'enfasi squillante di “Overcoat” e il lirismo cinematografico di "20k", a rendere speciale "White Wilderness" non è solo l'apporto della Magik*Magik Orchestra (tutt'altro che nuova ad esperienze del genere, come dimostrano le collaborazioni con gente come Dodos e Mike Patton), e nemmeno il tocco di John Congleton in sede di produzione: la solidità di scrittura dei brani risalta anche quando a prevalere è la semplice nudità acustica, come in "After It Ends".

 

"Le canzoni di "White Wilderness" sono come brevi cartoline autobiografiche", confessa Vanderslice. Ad accomunarle è il desiderio di liberarsi dalle incrostazioni della dimenticanza di sé. Un desiderio di cui "English Vines" riesce a dare una rappresentazione surreale ed emblematica, attraverso l'incubo della lotta con una pianta rampicante che cerca di avviluppare il cuore, contagiandolo con l'epidemia della rassegnazione. "By night our neighbours' invading vines / Rooted into my dreams from underground / Twined their nooses around our lives". Occorre andare fino alla radice, se si vuole estirpare quel vuoto che minaccia ogni giorno la vita: "I finally scaled their fence / To kill the source of this malevolence".

 

“In the deep dark woods”

 

Dagger BeachCime di alberi che si perdono verso la sommità del cielo. Scogliere che si gettano a capofitto nell’Oceano. Camminare, un passo dopo l’altro; camminare alla ricerca del proprio volto. Fino a ritrovare nel silenzio il suono della propria voce.

John Vanderslice passa un anno ad avventurarsi nel profondo dei boschi della California: uno zaino e una tenda per affrontare in perfetta solitudine la natura selvaggia. E per rimettere in movimento la vita dopo la fine di una relazione. Dagger Beach è il diario di questa rinascita, che ha i tratti di un ritorno alle origini.

 

“In the deep dark woods, alone with my fears/ Under the jackpine the sky was galvanized”. La melodia obliqua di “Raw Wood” si svela con un fremito di inquietudine. “Durante il cammino, mentre ascoltavo dischi a ripetizione, ho cominciato a essere ossessionato di nuovo dalla musica”, racconta Vanderslice. L’ascolto diventa così la prima tappa del viaggio.

Sono tre gli album che Vanderslice non riesce a smettere di sentire: “Have One On Me” di Joanna Newsom, “The Natural Bridge” dei Silver Jews e “The King Of Limbs” dei Radiohead. “I primi due mi hanno ricordato quanto i versi possano essere cruciali, come la tua esperienza di un disco possa evolversi e mutare mentre decodifichi lentamente una scrittura profonda e complessa. “The King Of Limbs” mi ha mostrato quanto potente possa essere un songwriting lineare, quando dei sottili cambiamenti nella forma e dei motivi ripetuti si trasformano piano piano in qualcosa di completamente diverso”.

 

“I set up in wildcat camp, just me and the owls and the bats”. Nel senso di libertà dei sentieri solitari, nuove canzoni cominciano a prendere forma. “Rifinivo i versi camminando, lavoravo alle canzoni nella mia testa”. Un processo di scrittura completamente nuovo per Vanderslice, che lo porta a esplorare nuove strade. I contorni dei brani si fanno meno definiti, la struttura si sviluppa intorno a ossature ritmiche che rispecchiano l’influenza radioheadiana (mentre ai Silver Jews è dedicato l’esplicito omaggio di “Song For David Berman”).

Al ritorno a San Francisco, per Vanderslice è subito chiaro che l’esperienza che ha vissuto richiede una dimensione più libera per essere portata a compimento: il marchio Tiny Telephone diventa così anche un’etichetta discografica, pronta a dare alla luce nel 2013 Dagger Beach con il supporto di una raccolta di fondi su Kickstarter (mettendo a disposizione dei sostenitori anche una rilettura integrale di “Diamond Dogs” di David Bowie e la raccolta di scampoli JV Rarities).

 

Dopo la felice parentesi chamber-folk di White Wilderness, Vanderslice torna alle cesellature sintetiche del passato, affiancato da Jason Slota alle percussioni. Tastiere dai riverberi alieni, ritmiche sfuggenti, miraggi evanescenti di moog: dalle rifrazioni di “Damage Control” all’avvitarsi nervoso di “Gaslight”, i brani di “Dagger Beach” puntano ad atmosfere “più svincolate, più strane e più libere”, per usare ancora le parole di Vanderslice. Atmosfere che (proprio come nei suoi primi album) sfociano in una coppia di fluttuanti interludi, cui si aggiunge la strumentale “Song For The Landlords Of Tiny Telephone”, firmata dal violoncellista Shawn Alpay.

La personalità delle canzoni, però, finisce per risultare meno a fuoco, disperdendosi in deviazioni e scarti in cui i dettagli prendono il sopravvento sulla visione d’insieme. Non è un caso, allora, che a convincere maggiormente siano la delicatezza incantata degli arpeggi di “Song For Dana Lok”, le slabbrature di “How The West Was Won” e gli accenti di marimba di “Sleep It Off”, che ricalcano più da vicino il tipico songwriting di Vanderslice.

 

“Dagger Beach”, per Vanderslice, non è tanto un “break-up record”, quanto piuttosto un “put-me-the-fuck-back-together record”: non un epilogo, ma una ripartenza. Lo annuncia subito “Raw Wood”: “One day the pain will pass on from me to you/ It will then be clear if it’s really true:/ I’ve moved on”.

Certo, il retrogusto amaro della parabola letterario-amorosa di “Harlequin Press” non nasconde un fondo di rancore. Ma tutto quello che resta, sulle scie elettroniche di “North Coast Rep”, è lo sguardo fuori campo di una fotografia in cui non ci si riconosce più. “Dagger Beach” affronta il primo passo verso la ripresa. Il passo più difficile, anche quando rimane ancora incerto.

John Vanderslice

Discografia

Mass Suicide Occult Figurines (Barsuk, 2000)6
Time Travel Is Lonely (Barsuk, 2001)7
Life And Death Of An American Fourtracker (Barsuk, 2002)
6,5
Cellar Door (Barsuk, 2004)7
MGM Endings (self released, 2004)6
Pixel Revolt (Barsuk, 2005)7
Suddenly It All Went Dark (self released, 2005)6,5
Scott Solter Remixes Pixel Revolt In Analog (self released, 2005)6
Five Years (anthology, Barsuk, 2006)7,5
Emerald City (Barsuk, 2007)6,5
Moon Colony Bloodbath (Ep with The Mountain Goats, Camdean Dawn, 2009)7
Romanian Names (Dead Oceans, 2009)7
Green Grow The Rushes (Ep, self released, 2009)6,5
White Wilderness(Dead Oceans, 2011)7
Vanderslice Plays Diamond Dogs (Tiny Telephone, 2013)6
JV Rarities (Tiny Telephone, 2013)6,5
Dagger Beach (Tiny Telephone, 2013)6,5
Pietra miliare
Consigliato da OR

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Time Travel Is Lonely
(live, da "Time Travel Is Lonely", 2001)
Pale Horse
(live, da "Cellar Door", 2004)
Promising Actress
(live, da "Cellar Door", 2004)
Exodus Damage
(da "Pixel Revolt", 2005)
Trance Manual
(da "Pixel Revolt", 2005)
Plymouth Rock
(da "Pixel Revolt", 2005)
White Dove
(live, da "Emerald City", 2007)
Time To Go
(da "Emerald City", 2007)
Romanian Names
(live, da "Romanian Names", 2009)
Too Much Time
(live, da "Romanian Names", 2009)
Forest Knolls
(live, da "White Wilderness", 2011)
Convict Lake
(live, da "White Wilderness", 2011)

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