"Di certo, non facciamo musica per guadagnarci degli amici. Abbiamo scelto la 'musica sbagliata'"
(Vincent Van Go-Gogh)
Misconosciuti autori di una delle musiche più "disturbanti" e avventurose del loro tempo, i Rake. appartengono al settore più sperimentale dell’universo rock. Miscelando psichedelia, noise, musica industriale, free-jazz, cosmica, tape-music e avanguardia tout court, la band statunitense ha dimostrato, soprattutto nel capolavoro assoluto The Art Ensemble Of Rake/The Tell-Tale Moog, quanta prodigiosa forza creativa possieda il rock quando, unito a una dissacrante attitudine dadaista, s’immerge nelle torbide acque dell’improvvisazione collettiva.
Tutto ha inizio nel 1988. A Fairfax, nell'omonima contea della Virginia, il bassista Bill Kellum (nomi di battaglia: Rex, SKB) e il chitarrista e clarinettista Jim Ayre (iscritto all’anagrafe dell’underground con i nomi di Vincent Van Go-Gogh, VvGg, Vinnie Van Go-Go, OASTEM! Jim o semplicemente V) s'incontrano al liceo e incominciano a divertirsi con "graffianti sonorità di chitarra cosmica". Registrano anche una cassetta: "50 Ways To Leave The Planet", di cui non si hanno tracce. Probabilmente, non è mai esistita. O, semplicemente, è stata spedita nello spazio a cercare forme di vita intelligenti. Pur essendo ancora dei giovincelli desiderosi di non farsi sfuggire i piaceri della vita (su tutto, "videogiochi, birra a buon mercato ed erba"), i due hanno già le idee molto chiare: "Volevamo registrare dischi che non avremmo potuto ascoltare da nessun altra parte - ricorda Vincent. Etichette come la ESP e la ReRecords avevano creato un mondo sonoro che ci aveva spinto a guardare oltre le barriere del rock. Non che ci fosse qualcosa di sbagliato nel rock - avevamo pur sempre i nostri piaceri proibiti! (Bill, ad esempio, suonò anche in alcune cover band di heavy-metal) - ma definimmo un piano per scardinare le norme. Avevamo un’attitudine molto free-jazz e gran parte del rumore e della furia dei nostri primi dischi derivava dalla voglia di improvvisare, di 'sballare'. Suonare a tutto volume e in maniera anarchica rappresentava per noi una vera e propria strategia, un modo personale di riprodurre, con gli strumenti del rock, l’energia del free-jazz. Spesso ci siamo riusciti, altre volte, invece, suonavamo come una band di noise-rock relativamente ordinaria. Ma, certo, eravamo ancora giovani". (Bill)
Con l'arrivo del batterista e fanatico del sintetizzatore Moog, Carl Moller (aka C-man e Planet C), i Rake. sono cosa fatta. Quanto alla scelta del moniker, qualcuno ritiene si tratti di un omaggio ai Velvet Monkeys di Don Fleming, il cui terzo disco s'intitolava, per l'appunto, "Rake". In un'intervista del 1993, però, il trio sostenne che a scegliere il nome era stato Bill, che si era occupato della copertina del loro primo singolo ancor prima che i tre scoprissero l'esistenza del disco della compagine di Washington. Tuttavia, dovrebbe far riflettere il fatto che Vincent abbia scelto come "cognome" Van Go-Gogh e che il pittore olandese Van Gogh abbia realizzato, tra il 1883 e il 1885, due disegni dai titoli "Man With Rake" e "Silhouette Of A Man With A Rake"...
La mucca e il pesce morto nel giardino sotterraneo della marijuana
Tra il 1990 e il 1993, vengono registrati e pubblicati tre Ep e due cassette. Pur lasciando intravedere quella volontà di ridisegnare le norme, gli Ep si muovono ancora - ma con grance convinzione - in un territorio di confine tra violenza (post)-hardcore e implacabilità "emo". Pubblicato in 100 copie dalla L Records, il 7” Cow Song/My Fish Died è il primo vagito della nuova creatura. Due tracce provenienti dalle cosiddette Upland Sessions, con la supervisione tecnica di Barret Jones. Con riferimenti ai problemi legali del sindaco di Washington, Marion Shepilov Barry (accusato di fare uso di cocaina e di falsa testimonianza), quello di "Cow Song" è un urto/urlo post-core che fa precipitare i Fugazi dentro un assordante uragano psichedelico in cui pare di riconoscere anche le sferzanti escandescenze chitarristiche di Dave Rick dei sottovalutatissimi Phantom Tollbooth. Dissennata, nichilista e assatanata, "My Fish Died" è, invece, una slamdance al vetriolo che s'inerpica lungo il crinale di un solo isterico.
"Questi due brani vennero fuori dalla nostra prima vera session! Quello fu un periodo ricco di soluzioni 'pesanti'. Penso che da qualche parte debbano esserci almeno altri 40 minuti di musica inedita... tra cui una grande canzone scritta da Bill, intitolata 'I'm Fugazi NOW!'. C'era un passaggio in cui diceva: 'Suono le tastiere. E faccio pratica, faccio pratica...', che mi faceva piegare in due dalle risate!".
Nel 1991, è la volta dell'Ep Motorcycle Shoes (per la Collision Time Records), vinile colorato in mille copie. A causa della tecnica di registrazione, il sound si è fatto ancora più caotico e assordante: tutti gli amplificatori, infatti, furono posizionati l'uno contro l'altro, in una piccola stanza ("non più grande di un bagno!") senza insonorizzazione, tanto che è possibile scambiare la chitarra di Vincent con il basso di Bill o viceversa. Dedicata a Rodney King (il tassista di colore pestato a sangue dalla polizia di Los Angeles il 3 marzo del ‘91), la title track indaga i temi del potere politico e dell'alienazione, ripescando la claustrofobia deforme e "primitivista" del giovane Albini in versione Big Black (che, ricordiamolo, registrò i suoi primi brani proprio in una baracca di fortuna…), ma riposizionandola in una feroce dimensione "aliena" (per l'appunto…), tra svariati sample pescati da nastri di fortuna e un discorso, tenuto da ubriaco (c'è tanta bella gente, in giro!), dall'ex-presidente della prestigiosa (ma certo…) università della Virginia. "Quel brano divenne il nostro primo marchio di fabbrica. Ne abbiamo fatto diverse versioni, usando stili sempre differenti". (Vincent).
In "The Center", domina, da cima a fondo, un martellante, indiavolato tappeto percussivo. "My Miserable Existence" e, soprattutto, "Look At Rocks" portano, invece, al parossismo la lezione degli Scratch Acid, in un massacrante gorgo di reiterata auto-flagellazione.
L'anno successivo, è la volta di Subterranean Marijuana Garden/U.S. TV (1992), con un sound meno caotico e più solido. Questo 7" in vinile chiaro, rilasciato in proprio in 600 copie, mette sul banco il clima ossessivo, vicino a "The Center", del lato A e i feedback singhiozzanti di un lato B che ha sicuramente digerito un bel po' di Jesus Lizard.
Ma la band è ormai decisa a confrontarsi con un sound decisamente più libero e folle.
Vincent: "La Dischord stava certamente dando spazio a quella che era ritenuta, un po' da tutti, come una delle musiche più rumorose in circolazione. Tuttavia, per noi quei dischi erano fin troppo prudenti, mancanti, com'erano, di quel caos che sperimentavamo giorno dopo giorno. Quei suoni erano stati codificati in una struttura sociale in cui davvero non poteva germogliare una vera e propria contro-cultura. Magari erano prepotenti e aggressivi per loro, ma noi avevamo una diversa concezione della musica. Non ci doveva essere alcun riguardo per le norme e le convenzioni".
Ed è così che il sintetizzatore Moog portato in dote da Carl iniziò a diventare presenza fissa dei loro concerti. Le variazioni cromatiche dello strumento messo a punto nel 1963 dall'omonimo ingegnere statunitense Robert Albert permise, così, ai ragazzi di trasformare la percezione del caos in un vivido affresco di costanti fluttuazioni psichiche. Come sottolinea Bill: "Il Moog è sicuramente uno strumento misterioso. Non avevamo un'idea precisa di come funzionasse e dei suoni che era capace di emettere. Avevamo un micromoog ed era anche piuttosto malandato, per cui non sempre funzionava come doveva - ma questo faceva parte del gioco!".
Lentamente ma con decisione, il trio inizia, quindi, ad esplorare una sorta di "estetica del Moog", cercando di ricavare da questo strumento quelle sonorità capaci di spingere il loro sound verso dimensioni tutte da scoprire.
Intanto, nel 1993, arriva The Day I Remembered Seeing Ice.Assemblata da Patrick Foster (cantante e chitarrista dei conterranei Wingtip Sloat) per la sua Sweet Portable Junket, questa cassetta voleva essere un "best of" (!) di quanto la band aveva prodotto fino a quel momento nei suoi avventurosi live-set (vi trova posto anche una cover di "Vertical Slum" degli Swell Maps). La qualità audio è, spesso e volentieri, discutibile, ma l'anarchica commistione di generi fa di quest'ora scarsa di musica un'interessante anticipazione della furia collagista di The Tell-Tale Moog. Il sintetizzatore Moog (per l'occasione, lo suona anche Malcom Riviera, chitarrista dei Velvet Monkeys, in brani quali "Malcojam", "Power Supply", "Malcojam (Conclu)" e "Through Ow Borrow-ing") s'intrufola, qua e là, come una lama affilatissima tra le pieghe di un suono pericolante e sbandato e, con la comparsa dei primi fiati free, viene evidenziata, anche se ancora a un livello blando, l'intenzione di incamminarsi lungo il sentiero di alcuni dei mostri sacri dell'avant-jazz americano (Art Ensemble of Chicago e Albert Ayler su tutti).
Con il co-pilota, verso il capolavoro
La necessità di avere il controllo totale sulla propria musica aveva, intanto, spinto Bill Kellum a varare, nel 1991, la Vhf Records, destinata a diventare una delle etichette indipendenti più importanti e apprezzate del panorama statunitense. Dopo aver ristampato l'Ep Motorcycle Shoes (numero di catalogo 1) e pubblicato, tra gli altri, Ep di Wingtip Sloat e Circle, la band si dedica allo split 7” Grim Humour Presents... (allegato al numero 3 dell'omonima fanzine inglese diretta da Richard Johnson) in coabitazione con gli industrial-noisers Con Demek, (i Rake. vi partecipano con il brano "Crayon Face"), seguito dalla cassetta Shock Tart Chew Up, con il debutto, dietro le pelli, di Vincent, ribattezzatosi, per l'occasione, V2G2.
La passione per il genio di Albert Ayler trova uno sbocco di grande tensione creativa nelle enigmatiche riletture di "Ghosts", riunite nella suite, in quattro parti, "Ghosts Of Ghosts". Dai loop di sassofono che, nella loro circolarità "ambientale" (è qui che ha origine il senso di quell'"infinita dilatazione" che è alla base di un brano simbolo - lo vedremo più avanti - come "Quadrablenders"), sembrano omaggiare i "solo" di Evan Parker, mentre s'immergono in un pulviscolo di voci trovate e concretismi assortiti ("I"), si passa alle strutture più canonicamente free-jazz di "II", fino ad arrivare agli scarabocchi di Moog che fronteggiano scansioni industriali in "IV". In queste partiture jazzistiche insieme dilatate e stilizzate, il basso cerca di assomigliare quanto più possibile a un contrabbasso, mentre la batteria, privilegiando il suono dei piatti, avvicina, seppur di scorcio, le soluzioni espanse di Sunny Murray.
La lunghissima (oltre trentadue minuti) "Chair Throwing, History Of, 17th Century, With Tea" (conosciuta anche col titolo programmatico di "This Moog's On Fire") è, invece, una jam dominata dalle acrobazie asimmetriche del sintetizzatore di Moller, che contiene in nuce il sound post-psichedelico/ambientale e free-form di "Art Ensemble Of Rake".
Quanto sperimentato su "Chair Throwing, History Of, 17th Century, With Tea" trovò un primo, ufficiale riconoscimento con la pubblicazione dell'Lp Rake Is My Co-Pilot (1994; 2 tracce, 45:02) (il titolo è un gioco di parole che richiama i God Is My Co-Pilot), per la registrazione del quale "furono necessarie lunghissime jam in quel di Herndon. Fu, quello, l'unico periodo in cui davvero la band divenne un progetto attivo, con prove regolari e un clima disteso" (Vincent). Una di queste jam vide Carl (al sax e alla batteria) e Vincent (chitarra e voce) darsele di santa ragione coadiuvati dai synth e dalla drum machine di Malcolm Riviera e da un certo Johnny N. Goode alle prese con un po' di roba assortita. La jam (disponbibile, a nome Fang Bart Board, in streaming su www.oastem.com, sito gestito dallo stesso Vincent che raccoglie un sacco di materiale inedito) mostra a che livello di libertà si erano, ormai, spinte le loro improvvisazioni. Al di là del valore artistico (accanto a momenti relativamente interessanti, ve ne sono altri sicuramente innocui o, quantomeno, ambigui), Megaphone (così è stata ribattezzata questa lunga improvvisazione suddivisa in tre parti) apre uno squarcio sul laboratorio "perenne" dei tre musicisti. Un laboratorio dove le esplorazioni dell’universo Moog (si ascolti, a tal proposito, "Part 3"...) andavano di pari passo con l’ampliamento delle loro prospettive sperimentali.
Alla fine, per Rake Is My Co-Pilot vennero scelte due lunghe improvvisazioni per chitarra, sax, clarinetto, doppia batteria (c’è il rinforzo di Fred R. Groth), basso e Moog che, oltre a scandagliare possibili innesti spacedelici e impro-noise su corpo free-jazz, lambendo, in qualche caso, la pura astrazione sonica ("The Thin Herd"), riescono anche a conservare un appeal fortemente rock, nonostante le irriverenti traiettorie di synth e i caotici asserragliamenti di fiati (si veda la versione dilatata di "Motorcycle Shoes", l'apice creativo di questa prima fase insieme a "Ghosts Of Ghosts").
Anche se ancora per certi versi acerbo e timido nello spingere il piede sull’acceleratore della disintegrazione strutturale, questo disco rappresenta la prova generale prima del grande salto verso il capolavoro assoluto della band.
"Gesù, che cazzo è successo a questa generazione?"
Annunciato dal singolo Squelch/Phrase Text Slur (uscito su Fourth Dimension Records), il monumentale (in tutti i sensi…) doppio The Art Ensemble Of Rake/The Tell-Tale Moog (81 tracce; 139:08) viene dato alle stampe per la Vhf nel 1995.
"Gran parte del materiale più sperimentale registrato fino a quel momento finì sul primo disco, Art Ensemble Of Rake, registrato dopo numerose prove all’Herndon Rec Center, l’edificio adiacente la piscina pubblica dove Planet C viveva. Era il 1994. In quel periodo, abbandonammo l’idea di scrivere canzoni e diventammo una band free-form. Il Rec Center era un grande ambiente e noi non facevamo altro che andare in giro, distruggendo sedie e cose lasciate in giro per produrre rumore. Poi, abbiamo incominciato a invitare gente a suonare con noi. Una volta, un tizio entrò per sbaglio nella stanza dove stavamo suonando ed esclamò: 'Gesù, che cazzo è successo a questa generazione?'" (Bill).
Gli fa eco Vincent: "Abbiamo speso molta energia per assemblare il disco. Magari è difficile da credere, ma ci furono dibattiti piuttosto accesi sul modo in cui avremmo dovuto posizionare, uno dietro l’altro, i brani".
La scelta del titolo, oltre a rappresentare un omaggio alla raccolta di racconti brevi di Edgar Allan Poe ("The Tell-Tale Heart"), costituisce anche un gioco di parole che chiama in causa il collettivo Art Ensemble Of Chicago, una delle influenze dichiarate del trio, tacere della quale sarebbe delittuoso, oltre che incredibilmente fuorviante.
"Art Ensemble Of Chicago, Sun Ra, Faust e Frank Zappa sono tutti artisti che, in un modo o nell’altro, hanno avuto il loro impatto sulla realizzazione del disco", ricorda Vincent. Contaminando, quindi, la forza esplosiva del free-jazz con la potenza analogica e visionaria del Moog, i Rake. scrivono, con questo doppio, una delle pagine musicali più iconoclaste, indecifrabili e rocambolesche della storia del rock.
"Hai ragione: si tratta di un disco indecifrabile - continua Vincent. Si trattò sicuramente di uno spartiacque per noi, nel senso che, finalmente, ci fu tutto lo spazio necessario per dire quello che volevamo dire, per essere finalmente liberi. E il dualismo che giustamente hai rilevato riguardava anche il nostro rapporto con la musica che amavamo in quel periodo: una musica analizzata e decostruita in un modo particolare, meno ovvio di quanto possa oggi sembrare [soprattutto dopo le tante scalmanate esperienze dell’America più rumorosa e weird dell’ultimo decennio!, ndr]. I due dischi, inoltre, si completano l’un l’altro, ma in una maniera, diciamo così, 'astratta'. Entrambi gettano uno sguardo profondissimo sulla complessa identità della band. Ecco perché sono così problematici e conflittuali, oltre che ricolmi di un’energia tremenda che cerca di ricucire queste ferite, questi mondi”.
In effetti, quella dei Rake. è una musica fatta di tensioni anche insostenibili, dove le contrapposizioni tra elementi apparentemente inconciliabili si risolvono in uno stream of consciousness sonico dominato da un singolare approccio post-: "Qualcuno, al tempo, considerò le nostre mosse alla pari di un gesto 'punk': insomma, eravamo visti come quelli che avrebbero, ulteriormente, distrutto certi clichés, per spingerci chissà dove… Ma il fatto è che noi non siamo mai stati dei punk! Eravamo dei cani sciolti, degli hippies, dei freak che suonavano una musica che, in qualche modo, si opponeva al punk, ma per il tramite di una rivisitazione di quanto avevano fatto Sun Ra, gli Henry Cow e molti krautrocker".
Alle quattro texture in continua, magmatica, asimettrica evoluzione del primo, fanno da contraltare, sul secondo disco, 75 (!) frammenti da un minuto ciascuno, che si succedono, senza soluzione di continuità, in un delirio-distruttivo applicato. E’ la meraviglia del caos: la sua allucinata poesia. Ma per Bill si trattò anche, e forse soprattutto, di un modo per ricordarsi che suonare è innanzitutto divertimento.
"Non posso negare che la nostra musica possedesse una rilevante valenza 'arty' ma, almeno per quanto mi riguarda, non sono mai riuscito a dare grande importanza alla cosa. E questo perché, ancora oggi, non riesco a distaccarmi dalla prospettiva secondo cui gran parte della musica che abbiamo registrato sia nata essenzialmente dalla voglia di 'divertimento'. D’altra parte, io non ho mai suonato il mio strumento principale (dato che V già suonava la chitarra) e difficilmente mi preoccupavo molto della resa complessiva del nostro sound. Tuttavia, pur essendo in balia delle decisioni di Vincent e Carl (erano loro, in fin dei conti, i responsabili di gran parte della musica), alla fine solo le cose su cui eravamo completamente d’accordo venivano registrate”.
La percezione remota e il frullatore quadrifonico
Art-rock e voglia di divertimento: se è in questo binomio che si nasconde, dunque, la chiave per comprendere la musica dei Rake., allora non è un caso che ad aprire e chiudere "Art Ensemble Of Rake" ci sia il tema di Mario Bros: pura 16-bit music che, all’inizio, fa da preludio all’insistito, minimalistico risuonare di un’unica nota di chitarra. E’ l’introduzione a "Klang Co." (19.55), registrata dal vivo a Richmond, durante "un esaltante concerto insieme a Harry Pussy, Labradford, Charalambides e Spatula" (Vincent). Incredibile, enorme buco nero di free-jazz-noise spaziale, in balia di fiati guizzanti (dilatati in agglomerati multi-fonici) che improvvisamente distillano cangianti panoramiche di vellutato onirismo, ottuse cadenze metalliche, drumming disordinatamente irruente (alle batterie siedono Casa G. - già presente in Motorcycle Shoes e Cow Song/My Fish Died - e Fred R. Groth), coaguli di Moog (a dare man forte a Carl ci pensa Rahsaan Rob Wynn) e un continuum sotterraneo di subliminali dissidi sonici.
L’impressione è quella di assistere alla lenta decodificazione di un lirismo trasandato, nel cerchio di un ritualismo degenerato a sistema, fino alla lunghissima coda dove s’aggirano, come spettri, mulinelli in loop di chitarra, stecche chitarristiche (un po’ Derek Bailey, un po’ Henry Kaiser), aurore bibliche, crepe interstellari e voci che, muovendosi spaurite oltre lo sbocciare sonnambulo di un’alienazione sconnessa - come "un chiacchiericcio di anime morte ai margini di un sogno", per dirla con DeLillo (1) - sembrano riportare alla memoria il Robert Ashley di "Automatic Writing" (1978). Ciò che ancora in Rake Is My Co-Pilot era approssimazione ed "esperimento", in "Klang Co." diventa, grazie a una più compiuta proliferazione di dettagli e ad un lavoro sofisticatissimo sul versante dell’interazione "telepatica" degli strumenti, l’indizio, chiaro ed evidente, del sentiero che la band ha deciso di intraprendere.
Eppure, le barriere della convenzione non sono state ancora del tutto distrutte.
Quando arriva, fulmineo, l’urlo raccapricciante che apre la fornace iridescente e deforme di "Remote Sensing" (12.33), il passo definitivo è compiuto. Man mano che la furia va placandosi, il panorama definisce i confini di una sinfonia free-form di poltiglie elettrico/elettroniche che avanza incoerente come se si trattasse di una seduta di scrittura automatica a più mani (nient’affatto surrealista, ma furiosamente espressionista). Il concetto di struttura è qualcosa di incomprensibile per musicisti che, come questi, procedono a tentoni dentro il tunnel dell’ignoto. Free-form music post-atomica che trasla il "sentimental journey" della danza moderna dei Pere Ubu tra le ragnatele radioattive di strumenti/macchine che diffondono atti psicologici sotto forma di brandelli sonori ("In fin dei conti, quello che ci ha influenzato di più è il nostro inconscio, insieme individuale e collettivo..." - Carl).
Un soundscape allucinato di feedback, dissonanze, macerie chitarristiche (da sottolineare la presenza di Justin Chearno dei Pitchblende e dei Doldrums, band, quest’ultima, che - con lo stesso Kellum alle tastiere - lavorerà su alcune intuizioni qui presenti) che continuano a venerare il "cadavere" di Fred Frith, urla lancinanti, clarinetti pigolanti tra deserti "mentali" e glaciali claustrofobie: dove sia finita l’idea del divertimento, nessuno osa chiederlo. Probabilmente, è stata trangugiata da frotte di marziani che ascoltano questa musica a palla nelle loro astronavi di serie…
Dal canto suo, "Helio Moog" (23.52), accentuando i legami sotterranei tra psichedelia e industrial, rappresenta l’estremo "gestuale" (in quanto tentativo di purismo psichico-sonoro) della musica dei Rake. Un brano, insomma, che mostra come la musica industriale altro non sia che il punto terminale della tradizione più rumorista e speculativa della psichedelia (in tal senso, si dovrebbe risalire almeno fino ai Red Crayola di "Parable Of Arable Land", anno di grazia 1967). Non più, quindi, musica per la rivelazione dell’animo umano ("psyche-delein"), ma musica per rischiarare le paranoie e le angosce proiettate dall’uomo sul mondo che lo circonda, attraverso un’altalena estenuante di "orrore ed euforia", diade esemplare nella quale Ekkehard Jost racchiuse tutto il senso del suono indemoniato di Albert Ayler.
Tra le lingue incandescenti di un gorgo noisy, un nevrotico conciliabolo di fiati viene cullato dall’interplay dimesso di basso e batteria, unico baricentro solido (?) di questa farneticante discesa tra gli inferi raccapriccianti di un free-rock raramente così sovversivo e spietato. Alle pulsazioni extraterrestri dell’elettronica fanno da contraltare periodiche accumulazioni massimaliste, ma la musica si spinge fino al limite del completo autismo, con gli strumenti che, invece di assemblare partiture musicali, sembrano più interessati a imbastire, in modo finanche sbadato, un dialogo tra sordi.
Man mano che il disco svela i suoi segreti, appare chiaro il legame che unisce questi freak fuori tempo massimo con la "tribù" più famosa del jazz d’avanguardia: l'Art Ensemble Of Chicago. Anche se i fiati hanno la loro cospicua fetta di spazio, è il Moog - ormai lo sappiamo - a dispiegare di continuo, e con un’agghiacciante carica dissacrante, la forza espressiva delle loro improvvisazioni. In tal senso, allora, Art Ensemble Of Rake può essere letto come una ri-codificazione del sound del collettivo chicagoano in cui le ance spericolate di Roscoe Mitchell, Lester Bowie e Joseph Jarman vengono "rimpiazzate" dalle parabole instabili del sintetizzatore analogico, mentre la chitarra interroga, senza sosta, se stessa, cercando un suono capace di irretire la poesia dell’errore. Una poesia che non smette di essere anche una via d’accesso per le labirintiche oscillazioni dello spirito: "Adoro il frastuono degli amplificatori e il modo con cui riesce ad attraversare la pelle. Avverto una specie di energia esistenziale quando lascio entrare la mia chitarra in rotta di collisione con l’amplificatore. Di certo, non facciamo musica per guadagnarci degli amici. Abbiamo scelto la 'musica sbagliata'". (Vincent). "Sbagliata" e tremendamente erratica, aggiungo, fosse solo per il modo, magari indiretto, con cui getta ponti verso esperienze lontane nel tempo.
Si riaccendono, dunque, i riflettori sulle ricerche sonore in bilico tra live-electronics e free-jazz che Paul Bley e Annette Peacock condussero agli inizi degli anni Settanta in dischi fondamentali quali "Improvisie" e "Dual Unity". Nella title track del primo, ad esempio, le interazioni angolari e atonali dei sintetizzatori della coppia Bley/Peacock costruivano strutture mutabili di emozioni frante, mentre la batteria di Han Bennink decorava, aerea e dislessica, lo spazio circostante. Un'esplorazione dei vortici e dei vuoti sonici dello spazio e del silenzio (l’"unità duale") che i Rake. condurranno al manicomio ventiquattro anni dopo. Alcune registrazioni inedite (anche con formazioni monche o allargate) sembrano proprio evidenziare questa "linea di discendenza". Per esemprio, At War With Jazz (registrata ad Arlington il 16 marzo del 1996 con Cman al sax, un tale Roberto al moog e OASTEM! Jim alla batteria) continua a sottolineare la vicinanza con le esperienze sonore della coppia Bley.
Ma, ovviamente, si può ancora fare un passo indietro, rispolverando l’avventura dell’ensemble Musica Elettronica Viva, le cui sculture sonore dovevano gran parte del loro fascino amorfo al suono del Moog di Richard Teitelbaum, in seguito coinvolto in ambito free-jazz con Anthony Braxton.
E che dire, poi, delle radicali accumulazioni materiche degli AMM? Delle oscillazioni isteriche del Conrad Schnitzler di "Rot"? O della barbarie ultra-cacofonica dei Borbetomagus? Insomma, una tradizione di outsider che continua il suo sinistro percorso di demolizione e che nei momenti di massima disgregazione indica già le rotte più spastiche e libertarie del nuovo free-noise americano, a cominciare dalle mostruose aberrazioni dei Temple Of Bon Matin di quell’epico pandemonio che risponde al nome di "Bullet Into Mesmer's Brain" (1997).
La "musica sbagliata", appunto. E, mentre il fuoco vacilla, "Quadrablenders" chiude con un salto nel vuoto cosmico: profondità amplificate a dismisura, scricchiolii impercettibili, enigmatici rimbombi e sbadigli di un clarinetto abbandonato a se stesso, prossimo al suicidio.
Nell’inesorabile dileguarsi del suono, anche il silenzio viene sfregato contro le pareti dell’assenza.
"Lookout, rattlesnakes!”
"The Tell-Tale Moog nacque come un collage di cassette registrate durante le prove. C’era un po’ di tutto in quelle cassette: trip abortiti, tentativi di scrivere canzoni "rock", bislacche partiture strumentali, suoni trovati, voci, accordature etc. Una vera e propria babele di cose buone e di momenti "terribili". Eravamo completamente in disaccordo su cosa scegliere per il disco, così finimmo per ascoltare una montagna di roba. Alla fine, decidemmo di usare una strategia: ognuno di noi avrebbe assemblato il disco come meglio credeva. Il più convincente sarebbe stato scelto”. (Bill)
"Decisi di mettere a punto una cassetta-sunto di tutti quei nastri - una cassetta vagamente incentrata sul brano 'Vitamin-9' (un jazz-blues annoiato che, improvvisamente, si incazza come una bestia..., ndr). Durava quaranta minuti ed era piena di effetti sonori. Non ricordo, però, come finimmo per giungere alla conclusione di fare un cd con tutti brani da 60 secondi, ma so con certezza che la cosa ci divertì moltissimo, quasi fosse una presa in giro del formato cd. La fabbrica che doveva stampare il disco rigettò il master originale, dicendo che era chiaramente registrato male e che non lo avrebbero stampato. Allora, Rex lo rimandò indietro, con una nota in cui sosteneva che l’unica cosa di cui si dovevano preoccupare erano i soldi che avevano ricevuto". (Vincent)
Il delirio miniaturistico di "The Tell-Tale Moog", oltre a rappresentare un rovesciamento delle prospettive espanse di Art Ensemble Of Rake, entra, di diritto, nel pantheon della miniaturizzazione applicata al rock, anche se, in più di un caso, i brani vengono semplicemente suddivisi in più tracce, quasi a formare delle micro-suite in cui, comunque, il limite dei 60 secondi non necessariamente blocca lo sviluppo "perpetuo" delle tracce. Mentre, quindi, utilizzano una delle tecniche anti-progressive per eccellenza, i Rake., di rimando, si impadroniscono, con intenzioni parodiche, della forme musicale (la suite) più usata nell’ambito di quella tradizione. Il pastiche post-moderno di The Tell-Tale Moog è, comunque, lontano dalle esperienze "progressiste" di etichette come la SST, per dire, proprio perché la quasi totalità di quelle stesse esperienze vieni qui travolta da un modus operandi assolutamente anarchico, capace di smembrarne le intenzioni e i risultati in un gioco di specchi che, invece, di sintetizzarli, finisce per oltrepassarli, dirigendosi verso alcuni degli gli act più sovversivi della storia del rock.
Settantacinque brani che, dalle prove sulle frequenze sonore di "1" arrivano fino alla computer music imbrattata di harsh-noise digitale del gruppo 72-75. In mezzo, il regno assoluto di Dada, il trionfo della libertà espressiva, la distruzione e la rigenerazione del rock, il suo funerale e la sua ascesa al cielo. Il divertimento e la furia. Lo spazz-core che muta in allucinata farneticazione acid-emo (2-6 e le reprise di 8-9); i serpenti a sonagli, le mesmeriche fluttuazioni di feedback, il noise-rock a bassa fedeltà che santifica l’eccesso e sbanda paurosamente prima di lasciarsi avvelenare da turpiloqui elettrostatici in cui l’elettricità infiamma lo spazio fino a bestemmiare la stessa idea del divino (10-17); il duetto schizofrenico chitarra-batteria e il Moog nelle mani di un pazzo omicida che, percepita la bellezza del cosmo, cerca a tutti i costi di lanciare messaggi intergalattici prima che vengano a prenderlo ("Speaker Phasing Test" + "Tell-Tale Moog"); il country-blues da quattro soldi di "V-9/Weird Bus Stop Man" e il videogame fuori fase di "Witch’s Brew", dove i cattivi si son rotti le palle di aspettare che i buoni si diano una mossa e fanno un massacro. E poi vanno a bere alla faccia loro insieme a prostitute raccattate sulla tangenziale. Più facile da ascoltare che da descrivere, credetemi…
"Bass Flap By Rex" e "Monks Vs. Nunns" compongono un dittico di ispida frenesia post-punk, mentre, se da "Temporal Clutch" fino a "Sovtek vs. Gretch" assistiamo all’ennesimo potenziamento drammatico ed emozionale del post-core, con Vincent sull’orlo del collasso vocale (roba da andare, davvero, fuori di testa…), col trittico "Tell Tale Moog/Charlie Wilkens/BANISH THE SCEPTRE!" le distorsioni montano in una fluorescente mareggiata apocalittica, con le campane lontane che risuonano a morto. Proseguendo tra panoramiche spaziali, caustici garage-rock che saettano tra miriadi di asteroidi, vengono troncati da alteri interludi prog-metal (!) e sfociano in un sequenziale di impulsi extraterrestri, corde sfasciate in penombra, agguati punk, la band conduce il mosaico-monstre verso il climax definitivo della sua pantagruelica esaltazione. Predisposta dal ralenti art-noise invasato di 49-52, la gloriosa odissea di 53-75 vola sulle ali di uno space-rock maestoso, fino alla disintegrazione, lenta e impietosa, tra le maglie di improvvisazioni chitarristiche al vetriolo, elegie fantascientifiche, modulazioni/emanazioni lisergiche, trivelle, voci deformate, blues come marce funebri, suoni verità e Mario Bros inseguito e fatto a pezzi dalla principessa… In una parola: f-a-n-t-a-s-t-i-c-o!
A coronare il tutto, arriva, un anno dopo, Art Ensemble Of Rake (Carlophonics)/The Tell-Tale Moog (Carlophonics), ovvero le due ore e venti del doppio condensate da Carl Moller in un vinile 7” di dieci minuti e quarantaquattro secondi (!). Per la serie: genius (again) at work…
"Molti ci avevano confessato che l’ascolto dell’intero disco spesso li metteva in difficoltà. Così, Carl prese i nastri e li smembrò nel suo computer, condensando il tutto in appena dieci minuti e quarantacinque secondi..." (Vincent).
Improvvisazioni, agenti segreti e supergruppi (o presunti tali…)
Improvisations For Modern Dance doveva essere pubblicato nel 1996 dalla Fourt Dimension Records, ma, dopo aver realizzato sia il master che l’artwork, non se ne fece niente. Oggi disponibili in formato digitale sul sito www.oastem.com, il disco presenta due composizioni piuttosto velleitarie: "F and C Substitution Set [edit]", per sparse accumulazioni rumoriste risucchiate dal vortice ottundente del Moog e "Haslo Navigation Series", che percorre, invece, uno strambo sentiero free-jazz/folk, senza sapere dove andare a parare.
Sempre nel 1996, la band si unisce ai Pelt (e ad altri musicisti occasionali) dando vita al progetto United Supreme Council, ovvero Rex (basso percussioni), V2G2 (chitarra acustica, delay crunch loop, percussioni, clarinetto, voce), CC (batteria, sax, moog), Patrick Best (bowed cymbals, bass resonator, conga), Jack Rose (bowed cymbal, chitarra), Mike Gangloff (chitarra, shenai, beat frequency oscillator), Mick Simmons (goblet drum, diembes) e Beth Jones (dumbeks, djembes). Dei diversi concerti di questa sorta di supergruppo, ci è giunta la testimonianza di Oastem! Vibe Orchestra (pubblicato solo nel 2001 dalla Eclipse Records), che raccoglie due lunghe improvvisazioni (registrate nell’Aprile del ’97 al Tommy’s di Richmond) contese tra deliri raga-rock, percussività circolare, free-jazz e Moog in libera uscita. Per completisti.
Ma è ormai tempo di terzo disco ufficiale. Pubblicato dalla Squealer Record (che, in un primo momento, aveva pensato a un semplice 7”) G-Man (conosciuto anche come Intelligence Agent # 2003 o Special Agent: Rake e pensato come un concept album dedicato all’immaginario agente speciale Jack Kurtz) cerca di strutturare, per quanto possibile, il caos radioso del precedente, mastodontico doppio. Mediando, quindi, tra impro-skronk schizoide, dissertazioni sospese tra pungenti olezzi lisergici, echi lacerati di math-rock e abomini rumoristi figli del Sol Levante, i tre (che, nel frattempo, hanno deciso di darsi nuove identità, rispettivamente: Dr. Rex Rx, Cryptographic C dbl C e Vincent Van No No Go) elaborano una fusione di stili e generi che lascia, ancora una volta, interdetti per la carica eversiva con cui quest’ultimi vengono amalgamati, quasi a voler forgiare una personalissima anti-musica. Dopo il divertissement in studio di "10,000KILLAHUTRZ tone", "PunkRock Glo" parte a razzo prima di decomporsi nella solita melma elettroacustica raschiata a dovere all’interno di una fonderia gestita da amebe spastiche e mandata alla deriva nel lungo sabba galattico di "Chair Throwing Incident" (in memoria delle numerose sedie sfasciate al Rec Center), spietato affresco di espressionismo astratto in bilico tra Merzbow, la ferocia di un Ayler più invasato del solito e gli abissi siderali dei Tangerine Dream.
Tra le spettrali tonalità di "B.D.B.", un urlo malvagio spiana la strada per una liberatoria jam noise-psichedelica. Non sono mai stati, è vero, dei punk. Eppure, la malvagità distruttiva e l’esaltazione portata ai massimi livelli di questi brani sono figlie di quello spirito ribelle. "Postscript.drv" spiattella, poi, aggressioni Boredoms in odor di stoner, discendendo, poi, il crinale di estatiche improvvisazioni che traghettano la stella nera dei Grateful Dead verso strane costellazioni progressive-math/noise. Dopo "Filter Touch", "Andy Bass" (un sonnambulo cantilenare lo-fi) e "Chesterfield Nights" (un lercio garage-noise), la parte finale vanta l’incedere maestoso di "Eric Blood Axe Rules OK".
Per testimoniare, ancora una volta, le loro performance dal vivo, nel 1997 viene pubblicato il doppio Fighting Two Quarters And A Nickel (145:54), contenente una serie di registrazioni effettuate nell’arco di quattro anni. "Non suonavamo dal vivo molto spesso e difficilmente con la stessa line-up da uno show all’altro - ricorda Bill - Il più delle volte, cercavamo di 'collegare' la musica allo spazio circostante: se dovevamo suonare in un club, si decideva di mettere gli amplificatori a palla; invece, se ci trovavamo in spazi molto grandi, sceglievamo sonorità più ambient. Complessivamente, penso che molti dei nostri concerti non furono un granché, ma spesso imbeccavamo quei cinque minuti in cui le cose andavano alla grande. Abbiamo sempre cercato di rendere i nostri show uno diverso dall’altro e questo, spesso, comportava il fallimento. Alcuni dei nostri migliori concerti li abbiamo tenuti con una line-up allargata, per esempio suonando con i Pelt o con Treiops Treyfid dei Pitchblende. O, ancora, quando sul palco ci presentavamo come l''Art Ensemble' con Casa G. e Rahsaan Rob Wynn. Di solito, registravamo su cassetta le nostre esibizioni, ma questo non accadde per alcuni dei nostri momenti più memorabili, come la prima volta che abbiamo suonato al CBGB's o come quell’altra in cui incrociammo gli strumenti insieme ai Sonic Youth. Quanto a 'Fighting Two Quarters...', lo considero più un documentario, un catalogo di approcci e di sonorità piuttosto che un live album vero e proprio, se capisci cosa intendo".
Con una copertina che cita apertamente quella di Heavy Organ dell’organista Virgil Fox (tra il 1971 e il 1975, autore di effervescenti rifacimenti Bach-iani), questo doppio cd-r è fondamentale per capire di cosa erano capaci dal vivo i Nostri. Più delirante e aleatorio del secondo, il primo disco è un trip sonoro da ascoltare a occhi chiusi. "Black Cat, Washington, DC 9.7.95" (uno dei loro capolavori) è una sterminata improvvisazione al confine tra free-jazz, kraut-rock surrealista (i Faust sono dietro l’angolo), fughe acid-rock (ancora la "stella nera" di Jerry Garcia & co.), radicalismo noise ed echi di world-music. E’ una musica che, mentre ama smarrirsi tra raffigurazioni soniche sinistre, finanche inquietanti - con il moog a traghettare il tutto nell’iperspazio dell’immaginazione ("Duke University Coffeehouse, Durham, NC 2.3.95", il magnetismo "concretista" di "9:30 Club, Washington, DC 8.23.94") - riesce a lanciarsi in crescendo infuocati memori dello space-rock più fiammeggiante o a sciogliersi in deliqui gassosi e amorfi con le ruggini del sax che "ti ricordi il Roscoe Mitchell di 'Nonaah'?" e certe tortuose parabole dei Crawlspace in fondo al cuore ("9:30 Club, Washington, DC 8.4.95"). In chiusura, una take catturata a Richmond, all’Hole In The Wall” il 27 aprile del ’96: una radura crepuscolare dove gli strumenti crittografano messaggi di pura alienazione. E pensare che durante una di queste serate, aprirono per i Gumball, terrorizzando quei poveri disgraziati accorsi per cantare a squarciagola insieme a Don Fleming!
Il secondo disco è molto più introverso ed erratico (a tratti, sembra di ascoltare un’anticipazione dei Temple Of Bon Matin più enigmatici) e si muove intorno alle improvvisazioni collettive che si sviluppano a partire da "Klang Co." ("Klang Festival, Richmond, VA 7.30.94"). Seguono, dunque, le astrazioni di "Here Art Gallery, New York, NY 1.10.93", "Northern Virginia Community College Mail Art Show, Annandale, VA 12.4.95" e "Duke University Coffeehouse, Durham, NC 2.3.95 [3]", il jazz-rock astrale di "Black Cat, Washington, DC 1.10.94", mentre "9:30 Club, Washington, DC 5.27.94" cita finanche i Saccharine Trust più "armolodici". Come a simboleggiare un vero e proprio percorso evolutivo, questa seconda parte approda alle sonorità espanse e "droning" di "Tommy's Warehouse, Richmond, VA 4.12.97" che, partendo da "Quadrablenders", sfocia, idealmente, in pieno territorio Resume The Cosmos, prima di esplodere, senza riserve, in "9:30 Club, Washington, DC 8.4.95 / Margaret's Café, Chapel Hill, NC 3.9.93".
Con Resume The Cosmos (edito nel 1998 dall’australiana Camera Obscura), la band si avvicina decisamente all’esperienza dall’Arkestra di Sun Ra. "In certi momenti, la musica di Sun Ra sembrava sempre sul punto di scomparire. Era completamente innamorato dello spazio, così anche noi abbiamo cercato di registrare musica che fosse veramente 'cosmica'. Non è stato un vero e proprio tributo, anche se, col senno di poi, lo sembra a tutti gli effetti. Ci fu una prima session non del tutto riuscita, in cui ognuno di noi suonava il proprio strumento. Successivamente, abbiamo deciso di provare con strumenti con cui non avevamo grande esperienza. SKB suonò lo space bass e i cimbali. Io non ricordo tutto quello che ho suonato, ma sicuramente mi cimentai con il clarinetto. Cman, invece, suonò il sax più diversi tamburi o roba del genere. Abbiamo registrato tutto il disco in uno studio di registrazione di un certo livello, in cui ci siamo intrufolati di nascosto, aprendo la porta con un semplice tappo di bottiglia… Alle due di notte, solitamente, le session terminavano. In un modo o nell’altro, ce la siamo cavata con tutte quelle attrezzature, anche se girava molto alcol. Poi, una notte, arrivarono i poliziotti con le armi spianate e noi ci siamo buttati a terra, difendendoci con gli strumenti. Ci hanno chiesto nomi e cognomi e tutto si è risolto. In quel preciso istante, abbiamo deciso che ne avevamo abbastanza e, fatto il mix finale del disco (se ne occupò Carl!), abbiamo abbandonato definitivamente lo studio".
Disco poco riuscito, finanche caotico in certi momenti (e, comunque, incompleto viste le condizioni in cui nacque), Resume The Cosmos ebbe comunque il merito di evidenziare, senza mezzi termini, il lato più jazzistico ed esoterico del trio. Dopo un interlocutorio battibecco tra sax e clarinetto ("Untitled 1"), il disco sprofonda in un baratro cosmico, dove percussioni tropicali e vocalizzi ritualistici assortiti tratteggiano una trance sciamanica, fino alle stridenti macchinazioni para-industriali della coda. La gloriosa tradizione dell’AACM (2) si fa sentire, invece, nel farfugliamento di ance di "Untitled 3", mentre lo sfondo ipnotico (con la sua solenne ed estatica dilatazione) riporta dalle parti di "Quadrablenders" (un vero e proprio punto di riferimento per il loro immaginario sonoro). Poi, sempre più astratti, in "Untitled 4" mediano tra Evan Parker e il Braxton di "3 Compositions Of New Jazz". Chiude la recitazione di "I Am The Cosmos", poemetto accompagnato da un dolente solo di sax.
Nel 2002 arriva il cd-r Ginseng Nights. Definito un disco di "heavy rock", questo doppio (a detta di Bill, addirittura tra i loro momenti migliori!) venne registrato su un registratore portatile DAT nell’autunno del ’96 e mostra una formazione nello spirito simile a quella delle origini. "Avevamo preso in affitto uno spazio al Barco Rebar e in quella zona c’era uno spazio in cui provavano molte band metal e grunge. Così, c’erano molti amplificatori. La potenza degli Ampeg SVT's e dei Mesa 4x12 ci convinse ad accantonare per un po’ i sax e il moog e ad alzare il volume! Decidemmo, quindi, di suonare del rock feroce, anche se con uno spirito free" (Vincent).
Composizioni estese quali "Black Crowes" e "Love Rock" presentano, quindi, molti momenti di libera improvvisazione. "Classic Rock Improvisors" non sa scegliere, invece, tra Jimi Hendrix e gli Hawkwind. Il secondo disco, infine, vanta una lunga cavalcata krautedelica che si inabissa nell’ennesimo delirio free-form.
Sempre nel 2002, la Vhf rilascia Omniverse .:. Frequency, una lunga composizione di oltre quarantuno minuti derivata da registrazioni di un paio di anni prima. Con quest'opera rarefatta e molto più sperimentale rispetto al lavoro precedente, i tre tentano, parafrasando quanto scrive Vincent nelle note di copertina, di ampliare la percezione del suono. Ecco, dunque, microfoni a contatto sparsi un po’ dovunque, suoni "minimi", droni umbratili, echi raga, elettroacustica di seconda mano etc. I risultati, comunque, sono ampiamente controversi.
Nel frattempo, sul sito www.oastem.com, Vincent continua a mettere a disposizione alcune registrazioni inedite. Cans, datato 2001, amplia ulteriormente lo spettro della loro ricerca, presentando miscele di guitar-drone, frippertronics e musica concreta ("Untitled 1"), copule tra Nmperign e Loren Mazzacane Connors ("Untitled 2"), un Resume The Cosmos teletrasportato ai tempi di Rake Is My Co-Pilot ("Untitled 3"), rigurgiti di radicalismo avant-jazz ("Untitled 4", "Untitled 5"). La sperimentazione chitarristica di Vincent, del resto, ha radici lontane e, in alcuni casi, addirittura antecedenti all’esperienza Rake.
In ogni caso, basterebbe recuperare Water Intake Manual, una lunga take free-form del ’92 che per saturazione e distorsione potrebbe essere scambiata per roba Skullflower; oppure Omni Jules, in debito con il Robert Fripp solista; o, infine, Back Beat Vinnie, oscuro e melmoso soundscape surrealista. Sempre del 2001, Stones For Eleven continua, per una metà, a investigare gli spazi dilatati del cosmo ("1"), mentre per l’altra s’affida ancora una volta alla tavolozza "infinita" del Moog ("Nightfall Now Demanded A Reply").
Del 2004, invece, sono The Can Session (SKB alla chitarra acustica, Cman ai fiati e allo shop vacs, e V all’eWah, eWah groovin') dal mood estremamente rilassato, quasi soporifero, e Smoking Screens, che si concentra su chitarra acustica, modulazioni di synth e strumenti esotici.
Al 2005, invece, risalgono le registrazioni raccolte sotto il nome di The Unified Patchchord Theory, tra world-music, avant-jazz e cosmica ("Patch 2") e quelle dell'interessante Striking The Archer, le cui astratte partiture (nebulose sempre più criptiche di Moog, voci robotiche, evoluzioni ipnotiche, tribalismi a braccetto con acide improvvisazioni di chitarra) ricordano, a sorpresa, i momenti più squilibrati e creativi della metà degli anni Novanta.
Comunque, fatta eccezione per queste sporadiche jam, la band è ufficialmente ferma dal 2002 e, anche se si parla di un nuovo progetto a due tra Bill e Vincent (il moniker scelto dovrebbe essere Sunwards), sembra che la sigla Rake. sia destinata a restare nell’ombra. Nel frattempo, mentre Bill - terminata l’avventura Doldrums nel 2000 - continua a occuparsi di musica attraverso la sua Vhf, Carl, dopo aver vissuto a New Orleans fino alla tragedia dell’uragano Katrina, si è spostato nel Tennessee, dove è diventato cameraman per la lega di wrestling. L’unico che ha continuato a suonare con continuità è stato Vincent. Dapprima, con il progetto avant-folk From Quagmire (da recuperare Habitats In The Wound del 2005) poi, spostatosi a Philadelphia, nelle fila dei Fern Knight e del collettivo multimediale The Valerie Project. Quanto al nuovo progetto con Bill (Sunwards), voci di corridoio confermano i lavori in corso.
Nel frattempo, sul solito sito si possono ascoltare alcune session, tutte risalenti al 2005: "Time To Barter With The Tortoise", "In Leigion With Leaves", "Listening Like Chairs", "Ask Among The Discontinued", "Ritual And Corporeality", "Flourecence In Flight", "Duck vs Goose" e "Riding With The Crow".
L'autore desidera ringraziare i membri della band per la disponibilità mostrata durante le lunghe chiacchierate telematiche.
(30/01/2011)
Note:
1) Don DeLillo, Rumore Bianco (1985)
2) Association for the Advancement of Creative Musicians
EP, 7", SPLIT, DIGITAL FILE | ||
Cow Song/My Fish Died (L Records, 1990) | 6 | |
Motorcycle Shoes (Collision Time Records, 1991; VHF 1991) | 6,5 | |
Subterranean Marijuana Garden/U.S. TV (VHF, 1992) | 6 | |
The Day I Remembered Seeing Ice (Sweet Portable, 1993) | 6 | |
Grim Humour Presents... Rake and Con Demek (Fourth Dimension Records, 1993) | 6 | |
Shock Tart Chew Up (Chocolate Monk, 1994) | 6,5 | |
Squelch/Phrase Text Slur (Fourth Dimension Records, 1995) | 6 | |
Art Ensemble Of Rake (Carlophonics)/The Tell-Tale Moog (Carlophonics) (VHF, 1996) | 8 | |
Improvisation For The Modern Dance (digital file, 1996) | 5 | |
Cans (digital file, 2001) | 6 | |
Stones For Eleven (digital file, 2001) | 5 | |
The Can Session (digital file, 2004) | 5 | |
Smoking Screens (digital file, 2004) | 5 | |
The Unified Patchchord Theory (digital file, 2005) | 5 | |
Striking The Archer (digital file, 2005) | 6,5 | |
| ||
CD, CD-R | ||
Rake Is My Co-Pilot (VHF, 1994) | 6,5 | |
The Art Ensemble Of Rake/The Tell-Tale Moog (VHF, 1995) | 8,5 | |
G-Man (aka Intelligence Agent # 2003 o Special Agent: Rake) (Squealer, 1996) | 7 | |
Fighting Two Quarters And A Nickel (live, VHF, 1997) | 7 | |
Resume The Cosmos (Camera Obscura, 1998) | 6 | |
Ginseng Nights (VHF, 2002) | 6 | |
Omniverse .:. Frequency (VHF, 2002) | 5,5 | |
United Supreme Council | ||
Oastem! Vibe Orchestra (Eclipse, 2001) | 6 |