“Shoegaze”, mi spiegavano, di recente è diventato un trend piuttosto seguito su TikTok: il mood introverso e le scariche di avvolgente energia rilasciate dai possenti muri di chitarre si sposerebbero in maniera perfetta con il senso di spaesamento e disillusione che sta segnando i ragazzi negli anni Venti. L’impressione come di cadere nel vuoto, come di annegamento, trasmesso dalle composizioni dei musicisti che “suonano guardandosi le scarpe”, non sarebbe così distante da ciò che sta provando una generazione che ha perso valori, certezze, riferimenti. Ecco perché molti ragazzi si sono sintonizzati su queste linee melodiche e su queste stratificazioni sonore: vi trovano conforto, proprio come noi nel 1991, perché a volte tutto cambia per non cambiare mai. Il web ci racconta persino di un nuovo sub-genere, definito con il termine “zoomergaze”, vale a dire “nu-gaze ai tempi di Zoom”, un revival che pesca a piene mani dagli anni Novanta, adorato da coloro che non vogliono legarsi esclusivamente al suono digitale tipico della pc music e di altri stili più “contemporanei”.
Tutto questa spiega il motivo per il quale, entrando nello spazio della Cavea dell’Auditorium Parco della Musica di Roma, si notano subito molti giovanissimi che si assiepano in transenna per godersi da vicino la prima data di sempre nella capitale degli Slowdive, formazione oggi (ancor più che in passato) ritenuta la più importante e influente del giro shoegaze. Il reflusso, in realtà, partì poco più di una decina d’anni fa, guidato non soltanto dai mostri sacri che definirono a suo tempo le caratteristiche del genere (oltre agli Slowdive, abbiamo ad esempio assistito al ritorno di Swervedriver e Ride), ma anche dall’affermazione di nuovi protagonisti non meno rilevanti, quali Nothing e DIIV, ulteriori amplificatori del fenomeno. Scatta il confronto con il recente concerto dei Fontaines D.C., ospitato anch’esso nello spazio della Cavea, dove però la situazione era esattamente opposta: gli irlandesi sono una band composta da musicisti intorno ai trent’anni che si presentano di solito davanti a un pubblico ben più "anziano" di loro. Questo perché – nonostante qualche meritato passaggio radiofonico – le chitarre post-punk raccolgono meno l’interesse delle giovani generazioni, che preferiscono invece omaggiare una band di ultra-cinquantenni, gli Slowdive, pronti a mettere in scena la genesi di un sound "antico" tornato a splendere.
Riportati in auge da due album di ottima fattura (l’omonimo del 2017 ed “Everything Is Alive” dello scorso anno), gli Slowdive raccolgono gli applausi più straripanti quando propongono i propri brani storici. “Shanty” è un gran bel pezzo per iniziare, con quei vorticosi intrecci di chitarre e synth, supportati da visual psichedelici proiettati su un telo posto alle spalle del palco, “Kisses” è il portentoso singolo come i Cure non riescono più a scriverne da anni, “Sugar For The Pill” è ormai entrata a pieno titolo fra i classici della band inglese, ma tocca a “Catch The Breeze”, ripescata da “Just For A Day”, il loro primo album, anno 1991, scaldare corpi e cuori, e ancor più alla psichedelia dal sapore cosmico di “Souvlaki Space Station”.
E' comunque nella parte finale del primo slot dello spettacolo che il quintetto accompagna il pubblico verso l’apice del coinvolgimento emotivo, grazie a una sequenza irresistibile. Arrivano una dopo l’altra “Alison”, “When The Sun Hits” (la più acclamata, la più cantata all’unisono) e “Golden Hair” (ovvero come rendere personalissima una cover di Syd Barrett), fra liriche dreamy e voci semi-nascoste sotto un wall of sound elaborato con chitarre suonate come mulinelli, sorrette da un vasto campionario di distorsori, feedback, delay, chorus e riverberi.
Due minuti di pausa e si va con i bis, che racchiudono il passato remoto (“Slowdive”, dal primissimo Ep del gruppo), il presente (“Slomo”) e l’album più amato (“40 Years”, da “Souvlaki”). Grandi chitarre, quelle di Neil Halstead e Christian Savill, senz’altro i principali elementi distintivi, a pari merito con la presenza iconica di Rachel Goswell, sempre al centro della scena. Suoni meravigliosi, incastonati in uno scenario che li rende perfetti, tanta intensità, un’infinita indescrivibile bellezza.
In apertura c’è pure la chicca del set di Any Other, che full band sta promozionando le canzoni del recente “stillness, stop: you have a right to remember”. Farà parte anche lei del ricordo di una delle più belle serate di questa ricchissima – dal punto di vista degli eventi musicali - estate romana.
(Foto Musacchio/MUSA - Auditorium PdM)