Prima di "FreeFiona!" e delle isterie collettive, prima di trasformarsi in emaciata icona d'un esistenzialismo tormentato, croce e delizia dell'universo indie, Fiona Apple McAfee-Maggart era semplicemente una sullen girl. Una ragazza scontrosa, che teneva i suoi giganteschi occhi celesti abbassati sui tasti del pianoforte, a celare la timidezza e quel velo di contrita rabbia post-adolescenziale. Ma non era una posa. Quel malcelato rancore, quel livido disincanto con cui sputava fuori le sue dolenti confessioni non aveva nulla a che vedere con l'estetica delle riot grrrl dei 90's, né con la retorica post-femminista di Alanis Morissette e compagne, alle quali venne immantinente accostata. A soli 18 anni, Fiona Apple aveva già maturato un carico di dolore e angosce insostenibile. Con un episodio tristemente noto su tutti: la violenza sessuale subita a soli 12 anni, che le aveva lasciato un senso di deprivazione e di vuoto incolmabile: "Is that why they call me a sullen girl?/ They don't know how I used to sail the deep and tranquil sea/ But he washed me ashore/ And he took my pearl/ And left an empty shell of me". Un guscio, una conchiglia vuota a cui è stata strappata via la perla.
Quel piano, allora, divenne la scialuppa di salvataggio, l'ancora a cui aggrapparsi per restare a galla in quell'oceano di dolore. La sullen girl gli affida tutta se stessa, sommergendolo di canzoni in un disperato tentativo catartico. Ma quel che potrebbe apparire come un confuso sfogo post-adolescenziale si rivela invece una lucidissima opera musicale: un flusso sonoro coerente dalla prima all'ultima nota, ispirato dalle stelle luminose del jazz e del soul, ma anche dalla malia melanconica di cantautrici sofisticate come Laura Nyro e Joni Mitchell. La Sony non crede ai suoi occhi, e glielo pubblica in un battibaleno.
Hit criminale
Quel talento, naturalmente, non nasceva per caso. Figlia di un attore e di una cantante/ballerina, Fiona aveva iniziato a suonare il piano a otto anni a Manhattan con una raccolta di standard intitolata "The Real Book" e sognava di seguire le orme delle sue beniamine Ella Fitzgerald e Billie Holiday. La musica, insomma, era nel suo destino, così come la poesia, coltivata sotto l'egida della sua musa Maya Angelou, cui la legava la comune, tragica esperienza di una violenza sessuale subita da bambina. "È come una madre per me, mi ha aiutato a superare alcuni momenti difficili e mi ha mostrato la luce", rivelerà Fiona, che ringrazierà la sua ispiratrice anche nelle note di copertina della ristampa in vinile di "Tidal".
Ma c'è sempre una circostanza fortuita che accende la scintilla. Nel caso di Fiona è un'amica di nome Anna, che fa la babysitter per la produttrice Kathryn Schenker (Sting, Smashing Pumpkins). Una sera Anna le passa un demotape con tre brani dell'allora diciassettenne Apple e Schenker ne resta impressionata proponendo alla major di ingaggiarla. Sarà poi Andy Slater a produrre "Tidal", l'album d'esordio di quella enfant prodige di cui diventerà anche manager.
La dura legge del marketing, però, impone almeno un singolo per fare breccia nelle classifiche. La diciottenne non si scompone e, con mestiere da veterana, scodella in 45 minuti netti - stando alla sua testimonianza - un blues sensuale e febbrile, cui affibbia il degno titolo di "Criminal". C'è quasi del cinismo nella lucidità con cui la ragazzina si dà in pasto al pubblico, proclamandosi "bad bad girl" e cantilenando al piano un miscuglio di perversione, crudeltà e tradimenti sulle cadenze implacabili dei beat, con tanto di ritornello (naturalmente) killer sfoderato al momento giusto. Incasserà un Grammy per la miglior interpretazione rock vocale solista e un Mtv Video Music Awards per la fotografia del voyeuristico clip in mutandine, diretto da Mark Romanek. Insomma, quella frase pronunciata in un'intervista del 2012 ("I can write a hit, I know how that shit works") poteva esserle tranquillamente attribuita anche sedici anni prima.
Alta marea
Ma è l'intero "Tidal" a reggersi in un equilibrio unico (e irripetibile) tra acerba esuberanza post-adolescenziale e impressionante maturità compositiva. Come a voler interpretare la marea del titolo ("Life is tidal, love is tidal", proclamerà a Mtv in "120 Minutes"), la giovane pianista newyorkese dà vita a un flusso irrequieto di versi e note che a volte culla, a volte pericolosamente trascina verso l'abisso. Spesso la malinconia si srotola lentamente, ondeggiando tra ritmi trip-hop e trilli leggeri di marimba, arpa o persino vibrafono (Jon Brion), come nel caso della tenera "Slow Like Honey", quasi raggelante nelle sue fantasticherie indifese: "When I'm high like heaven/ When I'm strong like music/ 'Cause I'm slow like honey/ And heavy with mood".
Su queste tonalità flessuose e riflessive si giocano alcuni degli episodi migliori del disco, a partire dalla succitata - e sanguinosa - autoanalisi post-trauma di "Sullen Girl", che suggella splendidamente un nuovo formato di ballata al femminile, sospeso tra jazz, soul, blues, diverso anche da quello - altrettanto memorabile - coniato dalla Tori Amos di "Little Earthquakes" di pochi mesi prima, inevitabile pietra di paragone. Meno dotata vocalmente e priva del background classico della rossa cantautrice del North Carolina, Fiona ha però dalla sua un istinto da soulwoman nata, una vocalità comunque tagliente, personale, nonché una forza d'animo quasi titanica che le è valsa accostamenti al coraggio di Nina Simone. Ne è perfetta epitome la spettacolare "Shadowboxer", condensato di furiosa disperazione in 5'24'' di impetuoso jazz-pop pianistico, gestiti con classe da chanteuse consumata, al servizio di una storia d'amore tradito ("Once my lover/ Now my friend/ What a cruel thing to pretend/ What a cunning way to condescend"). Nessuno al mondo, ascoltandola, potrebbe pensare che sia stata realizzata da una ragazza di 18 anni.
Uno stile personale, si diceva, non solo per lo stile interpretativo ma anche per la varietà dei riferimenti musicali. Alla classicità dei riferimenti - annidati tra jazz, soul, pop e canzone d'autore (tra questi ultimi, si possono citare anche Elton John e Carole King) - si sposa infatti una perfetta consapevolezza della contemporaneità, che si traduce in obliqui battiti trip-hop e irruenza hip-hop, come nell'iniziale shuffle di "Sleep To Dream", dove Fiona guarda in faccia a occhi spalancati l'uomo che l'ha ferita, sparandogli addosso con voce roca parole come proiettili: "I tell you how I feel, but you don't care/ I say tell me the truth, but you don't dare/ You say love is a hell you cannot bear/ And I say gimme mine back and then go there for all I care... Don't even show me your face 'cause it's a crying shame". Versi che folgoreranno un giovane Kanye West, il quale racconterà di essere stato ispirato da Fiona Apple perché voleva rappare "come se fosse in cima a una montagna".
Meno immediata e accattivante, la seconda parte dell'album offre comunque gemme preziose come l'arabeggiante, sinuosa "The First Taste", assetata di sensualità, la melodrammatica "Never Is A Promise" - quasi distante dal resto della scaletta nella sua maestosità, con tanto di archi arrangiati da Van Dyke Parks a omaggiare quelle big band e quelle sinfonie da music-hall con cui Fiona è cresciuta in famiglia - le altre due piano ballad di "The Child Is Gone" e "Pale September" - più rilassata la prima con il suo squarcio di speranza ("the darkness turns into the dawn... I suddenly feel like a different person"), più sottilmente inquieta la seconda con quei rintocchi ossessivi a incalzare i vocalizzi romantici di Fiona - oppure la soffusa "Carrion" che chiude il disco su un canovaccio jazz-soul da cabaret un po' patinato, reiterando la stessa linea melodica con ostinata rassegnazione, quasi a dissimulare la durezza dei versi-hook ("My feel for you boy is decaying right in front of me like the carrion of a murdered prey").
Free Fiona
Nel decennio d'oro del songwriting al femminile, dominato dalle stelle di Alanis Morissette, Tori Amos, Sheryl Crow, Liz Phair, Aimee Mann, Sinéad O'Connor e compagne - idealmente riunite nella carovana rosa del Lilith Fair - Fiona Apple fissa un nuovo standard di cantautrice intimista, vulnerabile e volitiva al tempo stesso, capace di esorcizzare disagio, abusi, disturbi alimentari e un'endemica inquietudine personale in un pugno di solide ballate piano-voce in cui l'orchestra entra ed esce in punta di piedi.
"Tidal" venderà tre milioni di copie nei soli Stati Uniti, diventando disco di platino. Ma l'illusione dei media di trasformare Fiona nell'ennesima ragazza terribile e quella del music business di ingabbiarla nelle sue asfissianti liturgie si scontreranno presto con il carattere irriducibile della sullen girl, decisa a rivendicare fieramente la sua indipendenza artistica. Anche a costo di preferire il lato oscuro del palcoscenico alle fatue luci della ribalta, anche a costo di inimicarsi tutti con frasi tipo "This world is bullshit" (agli Mtv Vma del 1997). Al punto che dovranno essere i fan a mobilitarsi per far uscire il suo terzo disco, boicottato dalla Sony ("Extraordinary Machine"), attraverso la campagna "FreeFiona!".
E si compirà così il destino della diva mancata che immola lo stardom sull'altare della dignità personale, trasformandosi in musa di culto indie per una più ristretta, ma non meno adorante, folla di seguaci. Anche la critica si prostrerà ai piedi di dischi audaci e sperimentali come "Fetch The Bolt Cutters" (2020). Ma, per chi scrive, il fascino di quella dolorosa opera prima, di quella ragazzina imbronciata dagli occhi turchesi sgranati su un mondo che l'aveva appena tradita, resterà sempre ineguagliabile.
19/12/2021