In occasione dell'intervista che ci concesse due anni fa, Steve Roach citò come prima influenza e base di partenza della sua ricerca la Berlin School. Non a caso l'espressione che più di tutte, in quella fondamentale esperienza storico-artistica che fu la kosmische musik tedesca degli anni Settanta, si è concentrata sulla descrizione in suono dell'ambiente e delle emozioni da esso evocate: sostanzialmente il primo passo verso l'idea di musica atmosferica che Roach ha reso grammatica universale. Ma il legame fra la California degli anni Ottanta e quella Grande Germania sta anche e soprattutto nella continuità di mezzi e nella concezione dell'elettronica come gergo sonoro autonomo, in grado di cogliere la realtà da un punto di vista tanto realistico quanto squisitamente umano.
A quarant'anni da tutto questo, oggi Steve Roach torna alle sue origini, firmando un disco realizzato esclusivamente con un set-up di synth analogici modulari. La genesi di “Skeleton Keys” è raccontata per filo e per segno all'interno del digipack che contiene il disco, dove Roach racconta di aver dedicato parecchi mesi dell'ultimo anno e mezzo a costruire un armamentario di sintetizzatori modulari nuovi di zecca, in gran parte recuperati sul sito synthesizer.com. Al disco va anche la palma di uscita più promossa degli ultimi dieci anni fra le tante firmate dal maestro californiano, a dimostrazione ulteriore della portata dell'investimento artistico sull'intero progetto. Merito della dedizione della “solita” Projekt, via cartoline, grafiche e una cura maniacale nell'estetica dell'uscita.
Se è vero che “Skeleton Keys” non rappresenta certo il primo ritorno all'estetica analogica (si prendano, su tutti, lavori come “Sigh Of Ages” o il recentissimo “Spiral Meditations”), qui si assiste a un autentico comeback ai tempi di “Now” e “Traveler”, vale a dire a prima della svolta di “Structures From Silence”. L'apertura di “The Only Way In” appare subito come una trasfigurazione in pulsione delle cavalcate di Michael Amerlan, affidata alle evoluzioni di un sequencer che accumula e scarta elementi sonori ad ogni passaggio. Si tratta solo di un primo approccio con la materia, pronta a essere rielaborata in una varietà di declinazioni già a partire dalla marcia sostenuta di “The Function Inside The Form”.
La prima metà del lavoro racchiude poi un paio di applicazioni ai soundscape classici di Roach: in “It's All Connected” torna d'attualità la trancedelia al ralenti, mentre “Outer Weave” tocca con mano i territori convulsi e hypno-tech dei lavori con Vir Unis. Il ritorno alla purezza analogica è affidato alla seconda metà del lavoro: se “Escher's Dream Is Dreaming” e “A Subtle Twist Of Fate” simulano affascinanti featuring rispettivamente con Klaus Schulze e i Tangerine Dream di “Rubycon”, l'inno delicato di “Saturday Somewhere” e l'inchino al pop sintetico di “Symmetry And Balance” offrono forse i take più originali e difficilmente collegabili ai trascorsi storici del californiano.
Due ciliegine su una torta gustosa, di quelle dal sapore e dalla ricetta quantomai “classiche” ma che proprio per questo piacciono sempre. Un lavoro che colpisce per la capacità di suonare quantomai attuale, nonostante sia concepito in seno a una tradizione sonora ormai quarantennale ed eseguito interamente con strumenti la cui età ha superato il mezzo secolo. Merito di una tradizione sonora che resta fondamento imprescindibile e trasversale di tutte le espressioni elettroniche contemporanee, ma anche del tocco inconfondibile di un maestro che dopo trentacinque anni di carriera ha ancora molto da insegnare a tanti.
05/06/2015