Un ipnotico pattern di piano che striscia con l'andatura incerta ma regolare di un millepiedi su una parete obliqua; un pulviscolo sintetico che altera i contorni del dentro e del fuori con furore cubista; poi, quasi prendendo la rincorsa da un'altra dimensione, quello straziante canto di balena ferita, polline venefico che trasforma lo stordimento in mal di mare e dilata lo spaziotempo come una fanfara da corteo funebre astrale.
È tornato così Jon Hassell, pescando da chissà quale oceano lunare i sei minuti e nove secondi di "Dreaming", in cui le spirali di fumo di William Basinski si perdono nella notte metropolitana di Dj Shadow (e voglio limitarmi ai primi due riferimenti che mi sono venuti in mente). Un singolo incantevole che, con il suo profumo persistente, ci costringe a disconnetterci dal bombardamento quotidiano di dati per soffermarci sulla sua aura così benjaminianamente diversa, anche solo per stropicciarci le orecchie e capire meglio di cosa si trattasse.
Ne sono successe di cose da quando questo alchimista eretico, nato nella città che ha dato i natali al rock'n'roll, ha divelto il pentagramma occidentale con capolavori come "Vernal Equinox" e "Dream Theory In Malaya" (quest'ultimo ristampato giusto l'anno scorso): quante atmosfere, timbri, suoni hanno popolato la musica contemporanea, a loro volta infinitamente manipolabili attraverso campionamenti, trattamenti sintetici, effettistica spinta? Eppure, il suono di quella tromba continua a togliere il fiato come un puntura sul collo da shock anafilattico, soffio sposta-montagne inconfondibile nella sua impalpabilità. Ogni volta che ricompare all'orizzonte azzera di nuovo il tabellone dei punti, costringendo gli altri a rimettersi in pari con lui.
Un ritorno a sorpresa, a nove anni dal precedente "Last Night The Moon Came Dropping Its Clothes In The Street", durante i quali la sua sagoma elusiva è sparita dai radar con la stessa grazia con cui adesso è rispuntata fuori. Opus # 1 della sua nuova label Ndeya, "Listening To Pictures" deve la sinestetica intestazione, meravigliosamente didascalica nella sua ingenuità (una boccata d'aria fresca, in un'epoca di superfetazioni concettuali sempre più vacue), alla peculiare procedura compositiva adottata, che Hassell riassume con una delle sue pregnanti metafore: "I started seeing (or was that hearing?) the music we were working on in the studio in terms of a painting with layers and touch-ups and start-overs with new layers that get erased in places that let the underlying pattern come to the top and be seen (or heard)".
L'elemento visuale-pittorico non è quindi il punto di partenza (pensiamo alle composizioni di Morton Feldman ispirate ai dipinti di Rothko), ma di arrivo: Hassell non commenta delle immagini, ma le crea di suo pugno sovrapponendo pennellate su pennellate, per poi accanirsi a scrostarle e ricomporle, fino a ottenere un pastrocchio astratto di colori qua saturi, là sfumati, altrove prossimi alla trasparenza. Ottiene la sua tela più sofisticata e futuribile, tutto sommato svincolata dai pur labili dettami dell'estetica fourth world da lui stesso coniata: un jazz-noise-ambient poco etnico nella sua natura quasi robotica, più vicino a un sound design per una galleria d'arte che a un tramonto africano.
È un quadro che, almeno in parte, rinuncia a quel fascino fuori dal tempo che lo ha sempre contraddistinto (che sia questo il "pentimento" sbandierato nel sottotitolo?) per tuffarsi in una pasta sonora ben ancorata al presente: Hassell sembra quasi volersi misurare con le forme più avanzate di elaborazione sonora, spesso ispirate proprio dalle sue pionieristiche intuizioni. Non per sfidarle, ma per studiarle, come l'antropologo visionario che è sempre stato.
Mai, prima d'ora, aveva azzardato un disco così denso di aloni percussivi: il ritmo, dai più considerato il tratto eminente delle musiche popolari extra-europee, è difatti il grande assente nella discografia del padre della world music. E se il magnifico brano d'apertura stacca il resto del lavoro con il suo rintronante lirismo, la mappa ci suggerisce altre sette perlustrazioni che sconfessano la modularità del primo episodio, lasciandosi spesso e volentieri andare alla deriva, con il vecchio Jon in una tuta pressurizzata che, a seconda delle esigenze, può trasformarlo in astronauta o in palombaro.
L'epidermide membranosa di "Picnic" schizza da tutte la parti, lacerata dalle pale di un elicottero (o dalle ali di un coleottero gigante), per un secondo sembra materializzarsi una voce che poi si accartoccia tra i glitch di un calcolatore obsoleto, costretto a interpretare delle istruzioni troppo moderne, con la sgradevole maestosità di Fennesz e la lucida follia di Oneohtrix Point Never; un iridescente pianoforte buddiano vorrebbe guadagnare la scena, ma è spruzzato dalla spuma ustionante di un oceano di silicio, in cui rimangono a galla poche note che alla fine restano le sole protagoniste, come se i Future Sound Of London reinterpretassero a modo loro "Music For A New Society".
"Slipstream", quasi una risposta a distanza a "My Life In The Bush Of Ghosts", è il momento più ricco di richiami folk e new age, danza tribale spronata da lontani muggiti di bisonti, spray sintetico aromatizzato al pejote e, quando meno te lo aspetti, un rigurgito di tromba che ricorda le svisate di Don Cherry su "The Bells". Ed è lo stesso proteiforme ottone, questa volta reincarnatosi nel pianto di un delfino, a sospingere "Al Kongo Udu", che potrebbe essere la colonna sonora di qualche vecchio cannibal movie, se non scivolasse su una ritmica morbidamente forsennata, nei paraggi di Burial, prima di andare in avaria tra mille lapilli e bollire definitivamente nel brodo metallico degli Autechre.
"Pastorale Vassant" sono i Boards Of Canada più eterei che sonorizzano "Au Hazard Balthazar", tra un esile breakbeat che imita le contorsioni di un insetto azzoppato e il tenero scampanellare di un gregge smarrito, mentre nella coda un bambino s'impadronisce della scena con la sua pianola-giocattolo.
Il trittico cinematografico viene chiuso da "Manga Scene", dove il fumoso languore del Miles Davis di "Ascenseur pour l'échafaud" viene remixato dai Pan Sonic come se si dipanasse dentro i circuiti di un modem, tornando infine sul tema iniziale come nel più classico svolgimento jazzistico. Dopo la breve "Her First Rain", meno di un minuto e mezzo di spigolosa chincaglieria electro-gamelan, un sipario di nubi si abbassa su "Ndeya", con la tromba imbottita di sordina a planare come un batuffolo impregnato di mescalina tra pulsazioni disarticolate à-la Aphex Twin, violino arabo e un finale che accoppia la dubstep manicomiale del primo Matt Elliott con le vitree raffinatezze del discepolo Arve Henriksen.
Pensare che una musica così fresca sia stata concepita da un ottantunenne lascia sbalorditi, e dovrebbe quantomeno far riflettere tanti propugnatori di electro-fuffa spacciata per Verbo Nuovo. Non rimane che attendere il secondo capitolo pronosticato dal titolo. Bentornato, Maestro.
13/06/2018