Nella nutrita armata dei primi waver albionici, i Monochrome Set hanno costituito il reparto più inequivocabilmente British, vuoi per quell'esaustivo compendio di generi nazionali (music-hall, cabaret, beat, Canterbury) che è la loro discografia, vuoi per il gusto colto e ironico con cui l'hanno compilato. Sarebbe ingeneroso, tuttavia, appiattirli su una simile macchietta: easy listening, swing, musical, chanson ed esotismo trasversale sono solo alcune delle altre risorse a cui hanno attinto questi nevrotici enciclopedisti, tesserati nella stessa cricca in cui hanno militato Xtc, Stranglers, The The e pochi altri talentacci del pop cubista. Di monocromatico, nella loro variopinta avventura, c'è davvero solo il nome.
Dopo due scioglimenti e altrettanti rimpasti, da quasi un decennio l'accolita di Bid è tornata in pista scatenata come ai giorni buoni, sfornando album a ripetizione con una qualità media più che soddisfacente. "Maisieworld" arriva a quarant'anni esatti dall'inaugurazione dell'officina ed è l'ennesimo tributo agli amati Sixties, rivisitati attraverso la solita, spigolosa ottica post-punk. Se il precedente "Cosmonaut" era un tripudio di scampanellanti Rickenbacker jingle-jangle, qui spadroneggiano ridanciani umori garage e surf, con tanto di organo Vox d'annata, chitarra tremolante, fiati e cori femminili a gogo. L'impostazione generale è quella plastica del vecchio glam, con una spolverata di brillantina sugli strumenti e la voce a calcare spesso e volentieri i passaggi più parodistici.
Al di là dell'apparente semplicità, ogni brano è una scatola cinese di riferimenti e citazioni. Su "Stage Fright" un'orchestrazione philly fa convivere i melismi arabeggianti di John Lydon con una tensione da colonna sonora spy, il tutto canticchiato con l'azzimata disinvoltura di un Jarvis Cocker. In "I Feel Fine (Really)" l'umorismo di Ray Davies incastona il solo di "Eight Miles Eight" su un galoppo alla Lee Hazlewood. "Oh, Yes, I'm Going To Be Your Dream Tonight" è Tom Verlaine che rilegge Santana su arrangiamento di Dr. John, mentre "Mrs. Robot" è esattamente a metà tra i Talking Heads di "Speaking In Tongues" e il Bowie di "Young Americans".
Ciò non toglie che Bid sappia il fatto suo anche quando gioca a carte scoperte: "Silence Is Rusty" è così sornionamente reediana che pare un'outtake di "Set The Twilight Reeling", laddove "Shallow" potrebbe davvero averla scritta Andy Partridge. Anche nei momenti più scanzonati (il pub-rock a mezzo servizio di "Give Me Your Youth", il soul increspato di "Cyber Son"), l'eleganza è all'ordine del giorno. Menzione speciale per la title track, ditty acustica tra Kevin Ayers e Neil Hannon, deliziosa come la rinnovata voglia di musica del suo autore.
Non un grammo di novità tra questi solchi, ma classe da vendere, humor contagioso e dieci canzoni fresche e ispirate: vi pare poco, di questi tempi?
11/09/2018